Raccolta delle recensioni dei film che ho visionato personalmente al cinema. Non sono dunque presenti recensioni riguardanti film che non ho avuto il piacere di vedere. Si aggiudica una votazione di 5/5 un film capolavoro.
Tutto è portato all’eccesso. Nella sua sceneggiatura e nella regia McDonagh non alza mai il piede dall’acceleratore e il risultato finale ne risente. Nonostante l’ottimo inizio, la buona recitazione di tutti gli interpreti e il finale azzeccato. Ciò che non convince sono i dialoghi fin troppo forzati (qua e là penalizzati dalla traduzione in italiano), l’eccessiva linearità della narrazione e del montaggio e la caratterizzazione dei personaggi, ai quali manca spontaneità. Troppi elementi tradiscono l’urgenza del regista di raccontare narrativamente e visivamente mettendo in mostra il proprio patrimonio di immagini e monologhi stranianti, perturbanti. Ambientazione e tematiche avrebbero richiesto maggiore sobrietà ed una migliore calibratura degli elementi in gioco. Un peccato, perché la storia rimane comunque molto interessante e i temi trattati di una rilevanza non comune.
Il caso Spotlight
di Thomas McCarthy
con Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams
Thriller, 128 min., USA, 2015
Ricostruzione di una storia vera. E già in questo si celano due insidie. La prima: come rendere avvincente un evento che sappiamo già come andrà a finire? La seconda: come camminare sulla linea che separa la realtà dalla finzione senza sconfinare totalmente in una delle due parti? Il caso Spotlight, indubbiamente scritto e girato bene, è un’attenta prova di equilibrismo che, in quanto sobria e misurata, non ha quei guizzi che la rendono memorabile. La ricostruzione di ciò che accadde al Boston Globe è fin troppo lineare, senza pathos, senza sussulti, senza quella crescita interiore dei personaggi che è la molla di una narrazione appassionante. Sarà che il tema (la pedofilia nella Chiesa) è stato ed è copiosamente trattato, sarà che il “turning point” non è che una naturale evoluzione degli eventi. “Sono i fatti”, si potrà ribattere. Ma questo è un film, e un film dovrebbe rendere avvincente anche la realtà più banale.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 20 febbraio 2015)
El Camino - Il film di Breaking Bad (El Camino: A Breaking Bad Movie)
di Vince Gilligan
con Aaron Paul, Jesse Plemons, Krysten Ritter, Charles Baker
Drammatico, 122 min., USA, 2019
Protagonista centrale e indiscusso è il sopravvissuto Jesse Pinkman. Ne seguiamo le vicissitudini – intervallate da frequenti flashback – che deve superare per riuscire a cambiare vita. Il film è la perfetta appendice di Breaking Bad. Personaggi, atmosfere, ambientazioni e recitazione rimangono fedelissimi alla serie. Gilligan, infatti, non aggiunge e non toglie (quasi) nulla. Quel poco che aggiunge lo mette solo per farci conoscere ancor meglio la personalità di Jesse. Forse l'unico personaggio dal quale si poteva tirar fuori ancora qualcosa. Astenersi tutti coloro che non hanno visto la serie. Prodotto e distribuito da Netflix.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 19 ottobre 2019)
Joker
di Todd Phillips
con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Frances
Conroy
Drammatico, 123 min., USA, 2019
Non era facile portare sul grande
schermo la figura di Joker. Ancor di più dopo l’interpretazione di Heath Ledger
nel Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan (2008). E invece Todd Phillips riesce
nell’operazione impossibile anche (e soprattutto) grazie all’interpretazione di
Joaquin Phoenix. Corpo magro e martoriato, risata isterica, occhi pieni di malinconia
che via via si svuotano in uno sguardo vacuo, inquietante. È vero, il film paga
un grande tributo a Martin Scorsese. Le atmosfere, l’ambientazione, le
tematiche, la centralità del protagonista (e in alcuni punti addirittura la
tecnica registica) ricordano molto quelle di Taxi Driver (1976) e Re per
una notte (1983). Tuttavia Phillips le fa sue, le rielabora e fa grande
cinema, mettendo in scena una metafora potente, disturbante, senza redenzione e
vie d’uscita. Phoenix è il mezzo perfetto per veicolare il messaggio. Un
messaggio che centra il bersaglio, senza tanti giri di parole. Una (vera) lezione
sullo stato di salute del mondo in cui viviamo. Un mondo, per dirla con parole
prese in prestito da Sara Frisco nella sua intervista a Phoenix sul Giornale, “in
cui chi ci governa è più bravo a far assegnare medicinali che a rimuovere le
cause del disagio.”
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 5
ottobre 2019)
American
Animals
di Bart Layton
con Evan Peters, Barry Keoghan, Jared Abrahamson, Blake
Jenner
Drammatico, 116 min., USA, 2018
Layton realizza un film che senza gli
inserti delle interviste ai veri protagonisti della rapina più strampalata
della storia d’America durerebbe una ventina di minuti in meno e starebbe in piedi
lo stesso. Anzi, probabilmente ne gioverebbe. L’eccessiva lunghezza (in
relazione ai contenuti) si fa sentire e l’effetto complessivo quasi infastidisce.
Storia flebile, recitazione ridotta ai minimi termini (Barry Keoghan sotto tono)
e mancanza di azzardi registici affossano un’opera che si dimentica presto e a
cui non basta il solo messaggio relativo allo spaesamento di una generazione.
Peccato.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 13 agosto 2019)
Il corriere – The Mule
di Clint Eastwood
con Clint Eastwood, Bradley
Cooper, Michael Pena, Dianne Wiest, Andy Garcia
Drammatico, 116 min., USA,
2018
Clint is back. Regia sobria, narrazione lineare, lui sempre al
centro della scena in modo discreto, senza mai strafare. Certo, la storia
riprende tematiche già viste (Breaking Bad) ed è questo il vero punto debole.
Ma The Mule funge da testamento, quasi come un’onesta seduta di autoanalisi in
cui l’uomo Eastwood si mette a nudo, fa mea culpa ed espia i peccati in attesa
della redenzione finale. Sicuramente non ai livelli di Gran Torino, ma pur
sempre un film degno di nota.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 9
febbraio 2019)
La
favorita (The Favourite)
di Yorgos Lanthimos
con Olivia Coleman, Emma Stone,
Rachel Weisz
Storico, Drammatico, Grottesco, 120 min., Irl., UK, USA, 2018
Dieci
candidature agli Oscar per un film in cui (quasi) tutto funziona perfettamente.
Dalla ricostruzione storica alla recitazione (Emma Stone su tutte), passando
per la regia, le scenografie e la sceneggiatura. Un capolavoro? Purtroppo no.
Ci troviamo di fronte all’ennesima grande prova che mette a nudo tutti i limiti
contenutistici della cinematografia moderna. La favorita infatti finisce per
ricordare troppo le pellicole del passato. Sicuramente Barry Lyndon, con la sua
metafora sul potere, l’arrivismo, i conflitti di classe, le ipocrisie nei
rapporti umani. Temi già ampiamente trattati, troppo spesso sempre nello stesso
modo. La New Hollywood ebbe il merito di far uscire il Cinema da una situazione
di stallo (crisi economica e contenutistica) grazie ad un superamento dei temi classici
e del modo di trattarli. Oggi, in un momento di massima libertà di espressione
e provocazione, la vera sfida è quella di capire cosa rimane ancora da
superare. E come.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 26 gennaio 2019)
Halloween
di David Gordon Green
con Jamie Lee Curtis, Judy Greer, Will Patton
Horror, 104 min., USA, 2018
Se non sono remake sono sequel. Ormai c’è poco da fare. Questo Hallowen si distanzia allora dal primo esattamente di quarant’anni, tanto da ritrovare Laurie e Michael attempati. Detto così potrebbe sembrare grottesco. Invece la scrittura di quest’ultimo capitolo (in ordine temporale, ovviamente) è intelligente perché attualizza il topos dell’horror tradizionale senza stravolgerlo o modificarlo. Stessa operazione anche a livello tecnico, con il regista che sfrutta la bellezza della messa in scena dei migliori slasher anni Settanta senza mai cadere nella tentazione di pigiare l’acceleratore sulla violenza splatter. Tutto funziona dunque in questa operazione nostalgia che con intelligenza e un po’ di suspense ci ha tenuti ancora una volta incollati allo schermo nella notte delle streghe.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 31 ottobre 2018)
Il
sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer)
di Yorgos Lanthimos
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan Drammatico, Thriller, 121 min.,
USA, 2017
Un grande film, senza ombra di dubbio. Rimaniamo inizialmente
spiazzati dalla estrema pulizia formale delle immagini, da movimenti di
macchina studiati e realizzati con certosina precisione, dall’impeccabile e asettica
recitazione di tutti gli attori, da una storia crudele, spietata, violenta. Poi,
grazie alla bravura del regista che dissemina la sua opera di indizi, ci
rendiamo conto che quello che stiamo guardando altro non è che una
trasposizione in chiave contemporanea di una massima tragedia greca, l’Ifigenia
in Eulide di Euripide, e che quindi ogni dettaglio è funzionale al pathos, alla
catarsi. E allora tutto torna, perfettamente, e si staglia dal piattume cinematografico
odierno.
Chapeau!
Voto: 4 su 5
(Film visonato il 21 luglio 2018)
A Beautiful Day – You Were Never Really Here
di
Lynne Ramsay
con Joaquin Phoenix, Ekaterina Samsonov, Alessandro Nivola, Alex
Manette, John Donam
Drammatico, 95 min., USA/Francia, 2017
Siamo entrati in sala pieni di
speranza. La presenza di Joaquin Phoenix come attore protagonista suonava come
una garanzia. Dopo averlo visto al centro di Two Lovers (2008), Her (2013) e
Irrational Man (2015) non poteva essere altrimenti. La trama, poi, con un mix
di esistenzialismo e vendetta faceva sperare di vedere finalmente qualcosa di
“diverso” dal solito, sia a livello tecnico che a livello narrativo. Invece
siamo usciti con una forte sensazione di incompiutezza. Come sempre più spesso
accade, anche con A Beautiful Day ci troviamo di fronte ad un’opera già vista,
totalmente attanagliata dai meccanismi del postmoderno. Taxi Driver, Oldboy, Léon,
Drive, sono solo alcune delle opere a cui il film si ispira più o meno
direttamente. La storia (troppo lineare e superficiale) non convince, come pure
la musica (inutilmente frammentata da scelte registiche e di montaggio) e,
ahinoi, la recitazione di un Phoenix efficace ma che sembra aver pescato fin
troppo dalla sue interpretazioni precedenti. Per il resto qualche buono spunto,
troppo spesso lasciato però scivolare in secondo piano.
P.s. Non si capisce
perché il distributore italiano abbia voluto aggiungere un titolo inglese (“A
Beautiful Day”) ad un altro titolo inglese (“You Were Never Really Here”) che avrebbe
funzionato benissimo da solo.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato l’8 maggio 2018)
Ready Player One
di Steven Spielberg
con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben
Mendelshon, T.J. Miller
Fantascienza, 140 min., USA, 2018
Vorremmo dire che un
film fatto interamente di effetti speciali non ci piace. Vorremmo avere la
forza di parlare di delirio citazionistico, di effetto nostalgia (ormai usato e
abusato). E invece tutte queste possibili critiche ci rimangono strozzate in gola.
L’ultima opera di Spielberg, infatti, è un capolavoro di equilibrismo e di
coerenza. A livello tecnico non possiamo dire nulla. Siamo infatti coscienti
che un’opera ambientata nel futuro, che per di più si svolge per larghi tratti
in una realtà virtuale, non poteva non essere realizzata con ampio uso di
effetti speciali. A livello contenutistico troviamo tutta la filmografia del
regista, sempre fedele ai suoi valori. L’adrenalina dell’avventura, il valore
dell’amicizia, l’accettazione del diverso innervano una trama intelligente che
prefigura un mondo non così distante (anno 2045), in cui il divario tra ricchi
e poveri è sempre maggiore e le città sono sempre più inquinate. Le persone
preferiscono dunque rifugiarsi nella realtà virtuale. Oasis, questo il nome
della piattaforma, altro non è che un compendio di ciò che ci ha resi felici
nell’infanzia: le strutture, le musiche e gli avatar che popolano i suoi mondi sono
una grossa operazione nostalgia fatta di Atari, New Wave/Synth Pop, personaggi
dei cartoni animati, monete da accumulare e oggetti/magie da utilizzare. Il
divertimento è totale, anche se la storia sta a metà tra La fabbrica di
cioccolato e i teen movie anni Ottanta alla Goonies. Ma è
anche questo il bello del film.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 31 marzo 2018)
Il filo nascosto (Panthom Thread)
di Paul Thomas Anderson
con
Daniel Day-Lewis, Lesley Manville, Vicky Krieps, Brian Gleeson
Drammatico,
130 min., USA, 2017
Il solito P.T. Anderson. Film potenzialmente
memorabile vanificato da un finale improponibile. Così come era accaduto con Il
petroliere (There Will Be Blood, 2007) e The Master (2012) ci troviamo di
fronte ad un rigore ed un’abilità tecnica davvero ragguardevoli, interpreti
praticamente perfetti ma una sceneggiatura non di pari livello. Si parla di un
particolare rapporto uomo/donna che regge, nonostante dialoghi smaccatamente
didascalici, fino a tre quarti di pellicola. Poi il regista lascia spazio, come
da sua abitudine, ad un finale grottesco, stridente, che vanifica il pathos che
ci aveva tenuto incollati allo schermo. Gli echi bergmaniani (il fantasma della
madre, le tensioni esistenziali) che ci avevano fatto ben sperare si infrangono
così, ancora una volta, sulla scelta del regista di non farsi aiutare da uno
sceneggiatore. Peccato.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 7 marzo
2018)
La
forma dell’acqua – The Shape of Water
di Guillermo del Toro
con Sally Hawkins,
Michael Shannon, Richard Jenkins, Doug Jones, Octavia Spencer
Fantascienza/Sentimentale,
119 min., USA, 2017
Un Leone d’oro e 13 candidature agli Oscar. Certo, le
statuette dorate non sono più (a dire il vero non lo sono mai state fino in
fondo) un termometro affidabile, ma sicuramente possono dare un’indicazione sullo
stato di salute del Cinema. Il film è ottimamente diretto e interpretato (Shannon
su tutti), come puntuali sono le atmosfere e la ricostruzione storica (anni
Sessanta). Ciò che non funziona fino in fondo, è dura ammetterlo, è la storia.
Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un delirio citazionistico che fa
furbescamente l’occhiolino un po’ a tutto il pubblico: spettatori alle prime
armi (“Guarda quanto ne sa Del Toro, che inserisce tanti spezzoni di vecchi
film!”), critici cinematografici (“Interessante la metafora sull’amore per il
cinema: la creatura non umana rimane immobile davanti alla magia delle immagini
in movimento”), cinefili (“Interessante la riscoperta del musical da parte di Del
Toro, per non parlare del finale che ricorda l’Atlante di Jean Vigo”). Il resto
è una storia già vista e rivista che oscilla tra Free Willy e The Artist, E.T. e
La Bella e la bestia. Recenti le accuse di plagio: Davi Zindel ha depositato
una causa per violazione del diritto d’autore perché sostiene che La forma dell’acqua
sia la copia di Let Me Hear You Whisper, opera del padre Paul.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 24 febbraio 2018)
Chiamami
col tuo nome (Call Me by Your Name)
di Luca Guadagnino
con Timothée Chalamet,
Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar
Drammatico/Sentimentale, 132 min.,
Ita/Fra/Bra/USA, 2017
Film piacione,
dove tutto concorre a fare l’occhiolino allo spettatore. Anni Ottanta, famiglia
benestante, villa in campagna, i giovani, i loro corpi e le loro pulsioni, la
natura verdeggiante della provincia d’estate. Siamo sempre al solito discorso:
se questa storia d’educazione sentimentale fosse stata ambientata a Quarto
Oggiaro non avrebbe avuto lo stesso effetto. E invece ci facciamo
avviluppare da una storia d’amore
universale, seppur semplice (siamo ben lontani da Brokeback Mountain), che ci ricorda le
nostre estati da giovani inquieti, i nostri primi amori. E pazienza se ci sono
scene al limite del kitsch e momenti inutilmente didascalici. Guadagnino
si dimostra un ruffiano di stile.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 17 gennaio 2018)
Tre
manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri)
di
Martin McDonagh
con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell
Drammatico, 115 min., USA/UK, 2017
Drammatico, 115 min., USA/UK, 2017
Tutto è portato all’eccesso. Nella sua sceneggiatura e nella regia McDonagh non alza mai il piede dall’acceleratore e il risultato finale ne risente. Nonostante l’ottimo inizio, la buona recitazione di tutti gli interpreti e il finale azzeccato. Ciò che non convince sono i dialoghi fin troppo forzati (qua e là penalizzati dalla traduzione in italiano), l’eccessiva linearità della narrazione e del montaggio e la caratterizzazione dei personaggi, ai quali manca spontaneità. Troppi elementi tradiscono l’urgenza del regista di raccontare narrativamente e visivamente mettendo in mostra il proprio patrimonio di immagini e monologhi stranianti, perturbanti. Ambientazione e tematiche avrebbero richiesto maggiore sobrietà ed una migliore calibratura degli elementi in gioco. Un peccato, perché la storia rimane comunque molto interessante e i temi trattati di una rilevanza non comune.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 17 gennaio 2018)
The Square
di Ruben Ostlund
con Claes Bang,
Elisabeth Moss, Dominc West, Terry Notary
Commedia/Drammatico, 142 min.,
Svezia/Danimarca/USA/Francia, 2017
Tipico esempio di film nordico da festival.
E infatti ha vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes. Ma cosa
intendo esattamente con la assolutamente generica e semplicistica denominazione
“film nordico”? Non un’opera alla Carl Theodore Dreyer, non un film alla
Bergman e neppure alla Lars von Trier. Nel caso di Ostlund tornano alla mente
le tematiche e certe atmosfere di Susanne Bier (In un mondo migliore, 2010), Roy Andersson (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, 2014), Aki
Kaurismaki (Miracolo a Le Havre,
2011). Significa che una vera e propria storia (in senso hollywoodiano) non
c’è. Ci sono delle ramificazioni, delle divagazioni rispetto alla storia
principale che viaggiano su binari che sembrerebbero morti. Siamo spinti a
pensare ad un errore, ad un’inutile spreco di forze, e invece questo è un modo
peculiare per indagare la natura umana. La commedia si fa cupa, le scelte del
protagonista risultano sconclusionate e discutibili: così facendo nello spazio
di due ore e mezza vengono toccate moltissime tematiche contemporanee e
universali come il potere dei media, le contraddizioni dell’arte, le differenze
sociali e culturali, le pericolose derive della nostra società. Detta così,
sembrerebbe un capolavoro. E invece viene trattato tutto in modo un po’ troppo
asettico e (falsamente) cervellotico. Un’opera notevole, certo, che manca però
di quel tocco di poesia che la avrebbe resa indimenticabile.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visonato il 9 dicembre 2017)
Detroit
di Kathryn Bigelow
con John Boyega,
Will Poulter, Algee Smith, Jacob Latimore, Jason Mitchell Drammatico, 143
min., USA, 2017
Grande Cinema, davvero. A partire dall’inconsueto e interessantissimo
inizio, passando per lo svolgimento e fino al bel finale la tensione narrativa non cala mai e
le immagini sono ciò che di migliore a livello tecnico abbiamo visto non solo
in questa stagione ma addirittura negli ultimi anni. La Bigelow sceglie inquadrature e movimenti di macchina in modo
praticamente perfetto. Dettagli, primissimi piani, riflessi di luce su
volti e oggetti sono la punteggiatura
che dà ritmo a questo film, aumentando la drammaticità o l’epicità delle
scene in modo saggio e calibrato. Per questa ragione, e per le ottime
interpretazioni degli attori impiegati, siamo senza ombra di dubbio ad un film
che ridimensiona il livello di certe pellicole e serie tv recentemente esaltate.
Voto:
4 ½ su 5
(Film visionato il 24 novembre 2017)
Blade Runner 2049
di Denis Villeneuve
con Ryan Gosling,
Harrison Ford, Ana de Armas, Jared Leto, Robin Wright
Fantascienza, 163 min.,
USA, 2017
Se fosse videoarte sarebbe un’opera davvero notevole (ricordo in
questo senso, tra le ultime, The Neon
Demon di N.W.Refn). Il film di Denis Villeneuve è un compendio di immagini
studiate, calibrate, tecnicamente ineccepibili. Peccato però che a questa
precisione formale, raggiunta comunque grazie al massiccio uso di computer
grafica, non corrisponda una storia dello stesso livello. L’indiscutibilmente
buona performance degli attori messi in campo viene smorzata da una trama che
poggia troppo sul già visto (un esempio immediato: Her di Spike Jonze). Ne esce un’opera fin troppo compassata, che
non ha mai il coraggio di lasciarsi alle spalle, quasi per una sorta di timore
reverenziale, il capitolo precedente. Con l’aggravante che quando abbiamo
finito di far sedimentare la visione ci accorgiamo di non portare con noi né
una scena né un dialogo davvero memorabile.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 7
ottobre 2017)
L’inganno
(The Beguiled)
di Sofia Coppola
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Kirsten
Dunst, Elle Fanning
Drammatico, 94 min., USA, 2017
Corsi e ricorsi storici.
Ieri andavamo a vedere al cinema The Tree of Life e sentivamo dire dai presenti
che il film di Malick era “uno scandalo” e che se avessero voluto vedere un
documentario sarebbero “rimasti a casa davanti a Sky”. Oggi andiamo a vedere
l’ultima opera di Sofia Coppola e sentiamo dire che è noiosa, lenta, che la
sera “è buttata, sarebbe stato meglio fare altro”. A dirlo è stato un gruppo di
donne tra i quaranta e i cinquanta, che evidentemente non si sono accorte della
precisione della regia, della bellezza dei costumi, della sobrietà della
narrazione e, soprattutto, della magnifica recitazione corale di un gruppo di
attrici di diverse età capaci di dare spessore a figure femminili tanto
delicate quanto “moderne” nella loro astuzia. Farrell, che interpreta un
caporale nordista ferito, si ritrova a fare da comprimario utile solo a far
scaturire dall’eterogeneo gruppo di donne una tensione erotica che è il vero
motore della narrazione.
Voto: 4 su 5
(Film visonato il 26 settembre 2017)
Dunkirk
di Christopher Nolan
con Fionn
Whitehead, Tom Glynn-Carney, Harry Styles, Aneurin Barnard
Drammatico/Guerra/Storico, 106 min., USA/UK/Francia, 2017
Un’azione
che si svolge tra aria, acqua e terra. Al fuoco ci pensano le bombe degli aerei
tedeschi. Sono tre le storie, e altrettanti gli archi temporali, che si
intersecano per raccontare la grande ritirata dell’esercito inglese dalla
Francia. Ne esce una storia di eroismo nella resa, che funziona quando punta
tutto sull’azione: proprio in questi momenti si delinea infatti
un’interessante, nuova e profonda riflessione sulla sopravvivenza. La tensione
scema invece quando la narrazione lascia spazio ad isolate frasi ad effetto
(ovviamente concentrate nel finale) e a colpi di scena evitabili. Detto questo,
il vero merito di Nolan è quello di aver realizzato un ottimo film d’azione che
non è un remake e non ha supereroi, da vedere obbligatoriamente sul grande schermo.
Voto: 4 su 5
(Film visonato il 31 agosto 2017)
Elle
di Paul
Verhoeven
con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling
Thriller, 130 min., Francia 2016
Più thriller che film drammatico. La messa in
scena, la tensione, lo svolgimento della trama ricordano certe pellicole di
fine anni ottanta/inizio anni novanta, dove la dimensione tragica veniva
attenuata da un certo gusto degli sceneggiatori e del regista per il grottesco.
Questa è la cifra stilistica di Elle, in cui lo stupro dell’inizio non è il fil
rouge di tutto il film bensì l’elemento catalizzatore dell’azione, in cui la
vittima (la bravissima Isabelle Huppert) mette a nudo un’anaffettività che
assurge a paradigma e specchio dei tempi. Se a ciò aggiungiamo le strambe
dinamiche di coppia, il vicino di casa stupratore (è lui, lo intuiamo da
subito) e il figlio che non si accorge di essere diventato padre di un bambino
con colore della pelle diverso dal suo, capiamo di essere davanti ad un film
talmente sui generis da poter essere gustato proprio per la sua imprevedibile
prevedibilità. Oltre a questo, riesce a tenerci incollati allo schermo per due
ore e dieci. Qualche merito bisognerà pur riconoscerglielo.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato l’8 aprile 2017)
Manchester by the
Sea
di Kenneth Lonergan
con Casey Affleck, Michelle Williams, Kyle Chandler
Drammatico, 135 min., USA, 2016
Seconda opera più interessante della
stagione dietro La La Land. Forse non riuscirà a strappare a quest’ultima gli
Oscar per il miglior film e la migliore regia, ma non sarà uno scandalo se
dovesse vincere le categorie per il migliore attore protagonista e la miglior
sceneggiatura originale. Casey Affleck dà infatti spessore ad un personaggio
complesso attraverso un’interpretazione intensa (sicuramente ancora più
incisiva in lingua originale) e difficilmente dimenticabile, supportato dagli
altrettanto bravi Lucas Hedges e Michelle Williams, che non a caso sono in
corsa per i premi di miglior attori non protagonisti. A ciò si aggiunge una
storia che risulta difficile definire di fiction, essendo composta da una
narrazione principale inframmezzata da flashback tanto efficace da
sembrare desunta da fatti realmente accaduti. Ci sono tornate in mente le opere
di Alexander Payne (Nebraska, Paradiso Amaro) e di Richard Linklater (Boyhood).
E, proprio come nei film di questi due registi, paesi e paesaggi della “periferia”
statunitense si elevano a coprotagonisti della vicenda.
Voto: 4 su
5
(Film visionato il 18 febbraio 2017)
La battaglia di Hacksaw Ridge
di Mel Gibson
con Andrew
Garfield, Vince Vaughn, Sam Wortinghton, Teresa Palmer
Biografico/Guerra, 139
min., USA, 2016
Spinti al cinema dalle sei candidature (principali) agli Oscar
e dalle buone recensioni, ci siamo dovuti ricredere quasi subito. Prima
interminabile parte votata all’idillio: religione e buoni sentimenti. Nella
seconda parte l’idillio si rompe (ovvio) causa guerra. Ma il protagonista è
puro, integerrimo, e anche nell’inferno del conflitto contro i giapponesi preferisce
non sparare un colpo. Un braveheart a dodici anni di distanza interpretato da
un asettico Garfield che si muove in sfondi e scene di guerra desolatamente
realizzati in computer grafica e che comunica con dialoghi tanto didascalici
quanto retorici. Rimane la storia, bella e vera, che avrebbe meritato una messa
in scena migliore. Non bastano le interviste finali ai reali protagonisti della
vicenda per risollevare la baracca.
Voto: 2 su 5
(Film visonato il 13 febbraio
2017)
La La Land
di Damien Chazelle
con Ryan Gosling, Emma Stone, J.K. Simmons
Commedia musicale, 126 min., USA, 2016
Una macchina perfetta. Questa è, riassumendo, l’ultima opera di Damien Chazelle, che mette in immagini la Vita che scorre a ritmo di musica. È il jazz, nello specifico, la cifra stilistica del regista. Così era in Whiplash (2014), il suo esordio, storia di un’ossessione perseguita a scapito degli affetti. La La Land prosegue su questa strada, ma lo fa in modo più maturo. La tecnica registica non tradisce insicurezze, la sceneggiatura non ha cedimenti, la fotografia è impeccabilmente legata al contesto (Los Angeles diurna e notturna) e i due protagonisti sono perfetti e nella parte. Non stupisce dunque che l’opera abbia messo d’accordo pubblico e critica, con pieno di nomination (meritate) agli Oscar. E i difetti? Dipendono dalla nostra personale sensibilità.
Voto: 5 su 5
(Film visonato il 4 febbraio 2017)
Silence
di Martin Scorsese
con Andrew Garfield,
Liam Neeson, Adam Driver, Issei Ogata, Yoshi Oida
Drammatico, Storico, 161
min., USA, Taiwan, Messico, Italia, UK, Giappone, 2016
Film sulla religione,
film storico o entrambe le cose? Questa è la domanda che ci poniamo dopo aver
visto l’ultima opera di Scorsese, tratta dal romanzo di Shusako Endo. La
risposta è difficile da trovare. Da una parte abbiamo la ricostruzione dei
luoghi e delle atmosfere del Giappone d’inizio XVII secolo, quando i gesuiti
portoghesi cercavano di diffondere la religione cristiana in una cultura troppo
diversa da quello europea. Dall’altra i dilemmi religiosi di un padre gesuita
che cerca di avvicinarsi a Dio attraverso le vicissitudini affrontate in un
impossibile percorso di evangelizzazione. È questa parte più intimista a
soffrire maggiormente lo stile di Scorsese. I volti di Cristo riflessi su
specchi d’acqua o assi di legno, i monologhi interiori e i dialoghi sulla fede
purtroppo non sono così incisivi, per efficacia e puntualità filologica, come
le scenografie (nonostante l’ormai costante utilizzo della computer
grafica), gli abiti, la costruzione delle immagini, certe atmosfere create. Se
di religione si parla, il regista ne indaga la dimensione più terrena,
riflettendo sulle conseguenze storiche e sociali della religione, in un preciso
luogo e in un dato momento storico.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visonato il 14 gennaio
2017)
È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde)
di Xavier
Dolan
con Nathalie Baye, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux, Marion
Cotillard
Drammatico, 95 min., Canada, Francia, 2016
Eravamo rimasti colpiti da
Mommy, nonostante qualche stonatura tecnica e narrativa dovuta alla foga
giovanile del regista. Speravamo in un’opera successiva più matura, misurata,
da divorare dall’inizio alla fine. Del resto le premesse c’erano tutte: cast
stellare, regista osannato da critica e pubblico, storia tratta da una pièce
teatrale. E invece… Invece con questa sua ultima opera Dolan mostra tutta la
sua immaturità, confinando la storia in poche stanze, indugiando allo
sfinimento sui volti, rallentando o velocizzando le immagini senza motivo,
utilizzando una colonna sonora più trash che nostalgica (Dragostea Din Tei di
Haiducii su tutti, poi Blink 182 e Moby). Più in generale mettendo in scena una
storia senza capo né coda dove nulla si tiene e i rapporti tra i personaggi si
dimostrano flebili e nebulosi. E poi tutto è troppo urlato, troppo
immotivatamente agitato, prolisso, calcato e allo stesso tempo desolatamente
superficiale. Compreso il finale. Speriamo sia solo un incidente di percorso.
Voto: 2 su 5
(Film visionato domenica 11 dicembre 2016)
Animali notturni (Nocturnal Animals)
di Tom Ford
con Amy Adams, Jake Gyllenhall, Michael Shannon, Isla Fisher
Thriller, 115
min., USA, 2016
Cinema e letteratura si intersecano dimostrando ancora una
volta tutte le potenzialità del loro legame. Il film è basato sul romanzo Tony
e Susan di Austin Wright e infatti la storia non ha cedimenti, tenendoci sulle
spine dall’inizio alla fine. Susan Morrow, artista e proprietaria di una
galleria d’arte, comincia a leggere la bozza di manoscritto che le ha
recapitato e dedicato l’ex marito Edward. L’opera la strega, la avviluppa, ed
il coinvolgimento prende forma sotto i suoi e i nostri occhi. Ciò che ne
scaturisce è una grande e perfetta metafora, ricca di significati e rimandi,
che ci ha fatto tornare la voglia (sempre più fioca) di tornare al cinema.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 24 novembre 2016)
Un padre, una figlia
di Cristian Mungiu
con Adrian Titieni, Maria-Victoria
Dragus, Lia Bugnar, Malina Manovici
Drammatico, 128 min., Romania, Francia,
Belgio, 2016
Un padre istruito, realista, pronto a tutto per dare alla figlia
un futuro migliore. Una madre depressa che sconta le scelte di gioventù. Una
ragazza che deve decidere cosa fare del suo futuro, se rimanere in Romania o se
emigrare in Gran Bretagna (ça va sans dire). Ma anche un ufficiale di polizia
intrallazzone, un politico corrotto, un’amante e un fidanzato. Sono questi
personaggi che muovono la grande metafora sulla Romania di oggi, paradigma
delle problematiche politiche e sociali degli stati dell’Europa del sud. È
questa la forza dell’opera di Mungiu, che ribadisce la sua bravura non solo
nella scrittura ma anche nella tecnica registica. L'impianto classico e la
trama del film rimandano al cinema “sociale” dei fratelli Dardenne e di Loach,
ma la similitudine più netta è forse con il cinema di Farhadi. Mungiu è però
più diretto, meno poetico, più deciso a raggiungere velocemente il cuore del
problema.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 7 settembre 2016)
It
Follows
di David Robert Mitchell
con Maika Monroe, Keir Gilchrist, Jake Weary,
Olivia Luccardi
Horror, 94 min., USA, 2014
Tutto quello che ci piace della
tradizione horror statunitense mixato in un’opera tesa e intelligente. Ci sono
echi delle atmosfere di Halloween (John Carpenter, 1978), la sensazione di non
avere via d’uscita di Nightmare (Wes Craven, 1984), le corse disperate di
Scream (Wes Craven, 1996), la fintamente tranquilla periferia di It (Tommy Lee
Wallace, 1990), il lago del nord di Friday the 13th (Sean S. Cunningham, 1980).
Il risultato è ben diverso dal deludente The Cabin in the Wood (Drew Goddard,
2012), ridondante accozzaglia di rimandi. David Robert Mitchell sfrutta invece,
sapientemente, le caratteristiche del genere ma procede per sottrazione. Ciò
che rimane è un film asciutto, maturo, in cui le vicissitudini di un gruppo di
ragazzi vengono narrate con un’epica sui generis che ricorda lo stile di Refn:
ralenti non banali, musica accattivante e sempre funzionale, inquadrature,
spazi e colori studiati. Mitchell è riuscito nell’arduo compito di svecchiare
un genere che da anni ormai non riusciva più a produrre opere d’interesse.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 13 luglio 2014)
The
Neon Demon
di Nicolas Winding Refn
con Elle Fanning, Karl Glusman, Jena Malone,
Abbey Lee, Keanu Reeves
Thriller/Drammatico, 117 min., USA, Francia, Danimarca,
2016
Jesse (E.Fanning) è la personificazione della bellezza. Ha una pelle
perfetta e, cosa ancora più importante, è pura. Arriva a Los Angeles per intraprendere
la strada della moda e le porte le si aprono senza difficoltà. Nel suo cammino,
tutti si invaghiscono di lei: quando entra in una stanza, sembra che tutto
venga illuminato da una luce diversa. La sua ascesa verrà contrastata da
colleghe agguerrite e per nulla disposte a cedere il passo ad una sedicenne
appena arrivata in città. Con quest’opera Refn prosegue nella sua ricerca
estetica e narrativa. La storia va letta come una grande metafora sulla
bellezza, dove il mondo della moda è il setting perfetto e naturale per
metterla in atto. In un mondo in cui sempre più si anela ad una perfezione fisica
ed estetica che di fatto non può esistere, la protagonista porta lo scompiglio con
la sua bellezza virginale. La soluzione è eliminare la ragazza, cibandosene (altra
metafora), nell’estremo tentativo di fare propria la vera bellezza con un (inutile)
atto meccanico. Il tema, certamente non nuovo, viene messo in scena in modo
particolarmente interessante. Ogni immagine tende alla perfezione, quasi come
in un parallelismo tra forma e tematica trattata. Approdiamo addirittura nel
campo della videoarte, dove lunghe sequenze sono dominate dalla simmetria,
dalle luci al neon (il vero “neon demon” è Refn, che si firma NWR sotto al
titolo), dalla perfezione degli abiti, delle location, degli allestimenti,
della musica e del materiale umano, anche nelle scene più truculente (c’è un’estetica
nella violenza). Tutto si svolge inoltre in una dimensione onirica che accentua
atmosfere lynchiane alla Mulholland Drive (2001) o alla Inland Empire (2006). Un
film, finalmente.
Voto: 4 su 5
(Film visionato l'11 giugno 2016)
Hardcore!
di Ilya Naishuller
con Sharlto Copley, Haley Bennett, Danila Kozlovsky, Tim Roth
Azione, 96 min., Russia, USA, 2015
Film d’azione girato interamente in soggettiva. Cosa vuole dire? Che ciò che accade lo vediamo tutto dalla prospettiva degli occhi del protagonista. Il meccanismo d’immedesimazione però non scatta perché, più che un film, Hardcore! sembra un videogioco. È infatti nettamente diviso in capitoli/missioni e la storia sta tra Super Mario Bros. (c’è una “principessa” da salvare) e uno sparatutto qualsiasi. Con l’aggravante che non siamo noi a guidare il gioco e che la barra della vita non si esaurisce mai. L’ambientazione russa non aiuta e il “mal di mare” dovuto ai movimenti di camera costanti e repentini si fa sentire. È un vero peccato che Naishuller non si sia discostato di un centimetro dai videoclip musicali coi quali si è fatto conoscere (Biting Elbows, “Bad Motherfucker”) per proporre qualcosa di veramente nuovo.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 15 aprile 2016)
Hitchcock/Truffaut
di Kent Jones
Documentario, 80 min., USA, 2015
Hitchcock è il miglior regista al mondo. Questa era la convinzione di Truffaut, che volle conoscere ed intervistare il Maestro. Ne nacque un’amicizia e un libro (Il Cinema secondo Hitchcock), passato alla storia come una delle più importanti opere sulla comprensione della settima arte. Cos’è il Cinema? Qual è il ruolo del regista? E quello degli attori? Su cosa fondare una narrazione che tenga incollato il pubblico allo schermo? Le riflessioni di Hitchcock, restituite dalle registrazioni della voce del regista, sono massime scolpite nella pietra, assunti imprescindibili per chi voglia operare nel campo. I registi statunitensi e francesi chiamati in causa (Scorsese, Anderson, Fincher, Schrader, Gray, Assayas, Desplechin) parlano del regista inglese come un punto di riferimento, un innovatore, un preciso e rigoroso creatore di storie e d’immagini. Peccato che il documentario non riesca a scavare maggiormente in profondità, rimanendo confortevolmente a livello di lezioncina.
Voto: 2 su 5
(Visionato il 5 aprile 2016)
Anomalisa
di Charlie Kaufman e Duke Johnson
Animazione, 90 min., USA,
2015
L’operazione “Anomalisa” è indubbiamente interessante perché ci fa
riflettere non solo sull’opera ma anche su cosa ci sta dietro. Kaufman l’ha
scritta e diretta avendone pieno controllo, da una parte grazie alla
piattaforma Kickstarter che gli ha permesso di raccogliere fondi per la
realizzazione e dall’altra ricorrendo alle cosiddette “marionette”. Infatti, se
il crowdfunding gli ha permesso maggiore indipendenza dalle logiche di mercato,
lo stop-motion ha fatto esprimere al suo massimo grado una storia di matrice
teatrale piena di metafore e simbologie ma in fin dei conti esile e
prevedibile. Rimaniamo così incantati dalla perfetta recitazione dei
protagonisti di plastilina (loro sì che avrebbero meritato l’Oscar) e da una
messa in scena dove tutto è studiato, per un risultato finale assolutamente
iperrealistico. Ma è proprio questa estrema precisione a rendere fredda la
narrazione e a spezzare quella magia che il Cinema ci ha spesso regalato: farci
pensare, una volta ogni tanto, che la nostra natura non è poi così
corrotta.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 26 marzo 2016)
1981: indagine a New York (A Most Violent Year)
di J.C. Chandor
con Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo, Alessandro Nivola
Thriller, 125 min., USA, 2014
Abel Morales (Isaac) gestisce un’azienda di carburanti nell’anno più violento della storia di New York. I suoi camion cisterna vengono presi d’assalto e rivenduti ai concorrenti, che con lui fanno finta di nulla. Abel avrebbe le carte in regola per completare l’acquisto di un’area fondamentale per espandere il suo business, ma l’obiettivo rischia di non essere raggiunto per le troppe avversità. Chandor scrive una storia esile ma la dirige in modo tecnicamente sapiente, aiutato dalle ottime prove di Isaac e della Chastain. Il risultato finale per molti non sarà memorabile, ma la storia di un uomo che cerca di raggiungere i suoi obiettivi con così tanta determinazione finisce per scalfire qualsiasi corazza d’indifferenza. Inconcepibile la traduzione del titolo in italiano.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 7 marzo 2016)
Ave, Cesare! (Hail, Caesar!)
di Joel ed Ethan Coen
con Josh Brolin, George Clooney, Ralph Fiennes, Jonah Hill, Scarlet Johansson
Commedia, 106 min., USA, 2016
Eddie Mannix (Brolin) è un fixer, ovvero un “signor Wolf” degli studios hollywoodiani incaricato di risolvere i problemi legati alla produzione di film (capricci delle star, scandali, problemi legati alla produzione ecc.). Durante la lavorazione di una pellicola incentrata sulla figura di Gesù, viene rapito l’attore protagonista (Clooney) da un manipolo di sceneggiatori comunisti che vogliono rivendicare maggior considerazione per se stessi e per la causa. Mannix si destreggia tra le varie problematiche ostentando sicurezza e disinvoltura, ma anche solo l’aver infranto una stupida promessa alla moglie (smettere di fumare) lo mette a dura prova nel suo intimo. È questa metafora sulla vita adulta che rende profondo un film dalla trama lineare e comprensibile, impreziosito da una ricostruzione della Hollywood anni Cinquanta che è uno spasso per i cinefili. I Choen proseguono sulla strada tracciata da A Serious Man, senza tralasciare un discorso spirituale/ideologico/religioso che qui ha il suo acme in un dibattito interreligioso memorabile.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 12 marzo 2016)
Il caso Spotlight
di Thomas McCarthy
con Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams
Thriller, 128 min., USA, 2015
Ricostruzione di una storia vera. E già in questo si celano due insidie. La prima: come rendere avvincente un evento che sappiamo già come andrà a finire? La seconda: come camminare sulla linea che separa la realtà dalla finzione senza sconfinare totalmente in una delle due parti? Il caso Spotlight, indubbiamente scritto e girato bene, è un’attenta prova di equilibrismo che, in quanto sobria e misurata, non ha quei guizzi che la rendono memorabile. La ricostruzione di ciò che accadde al Boston Globe è fin troppo lineare, senza pathos, senza sussulti, senza quella crescita interiore dei personaggi che è la molla di una narrazione appassionante. Sarà che il tema (la pedofilia nella Chiesa) è stato ed è copiosamente trattato, sarà che il “turning point” non è che una naturale evoluzione degli eventi. “Sono i fatti”, si potrà ribattere. Ma questo è un film, e un film dovrebbe rendere avvincente anche la realtà più banale.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 20 febbraio 2015)
The Hateful Eight
di Quentin Tarantino
con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leight, Walton Goggins
Western/Giallo, 167 min., USA, 2015
Dialoghi magnetici. Questo è ciò a cui Tarantino ci ha abituato e questo è il fulcro attorno al quale ruota tutto The Hateful Eight. I personaggi sono chiusi in spazi ridotti (una carrozza, un emporio) e la tensione che ne esce è generata dalle parole, ancora più taglienti di un coltello, ancora più mortali di una pallottola. Il sangue non manca, come pure le pistole nascoste sotto i tavoli, ma questa volta Tarantino punta maggiormente sul mistero rispetto ai suoi lavori precedenti, sfruttando i meccanismi dell’enigma della camera chiusa. Ci sembra infatti di assistere alla trasposizione western di un romanzo giallo alla Agatha Christie, ovvero dove ci sono vittime assassinate da uno dei presenti, un Poirot che ricostruisce i fatti sulla base della logica, lo svelamento di ciò che è accaduto. È sicuramente l’opera più riuscita tra le ultime del regista, non solo per la tensione che riesce a creare ma anche per il carico di significati che mette in campo: il monologo di Samuel L. Jackson (egregio nella parte, come del resto Kurt Russell) supera di gran lunga il risultato dell’intero Django Unchained.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 6 febbraio 2016)
Il figlio di Saul (Saul
fia)
di László Nemes
con Géza Röhrig, Levente Molnar, Urs Rechn, Sàntor
Zsoter
Drammatico, 107 min., Ungheria, 2015
La telecamera segue da vicino Saul,
prigioniero ungherese che fa parte dei Sonderkommando, ovvero coloro che nei
campi di sterminio nazisti hanno l’incarico di accompagnare alle docce i deportati
che verranno asfissiati col gas. Solo il suo volto è definito, tutto quello che
lo circonda è sfocato, metafora dell’assuefazione e del distacco emotivo che domina
nelle situazioni fisicamente ed emotivamente insostenibili: non c’è spazio per
i sentimenti in un campo di sterminio, ognuno deve pensare per sé. Ma è proprio
quando questo assunto sembra prendere il sopravvento che lo sguardo e il cuore di
Saul si aprono alla vista di un ragazzino che è stato tanto forte da resistere
alla doccia mortale. Spirerà poco dopo, e Saul cercherà tra mille difficoltà e
pericoli di metterne al riparo la salma rivendicando per lui degna sepoltura
alla presenza di un rabbino. La narrazione (storia e immagini, legate
indissolubilmente) diventa una intensissima metafora sull’esigenza di dare uno
scopo alla propria vita ormai segnata e sul senso di uno sterminio che aveva
svuotato di significato non solo i corpi dei vivi ma anche quelli dei morti.
Questi molteplici piani d’interpretazione sono ben avvertibili e, quel che è
più importante, resi magistralmente grazie ad uno stile asciutto, onesto,
preciso nella sua filologica rappresentazione di un avvenimento storico troppo
spesso ricostruito con inutile sentimentalismo e retorica.
Voto: 5 su 5
(Film
visionato il 22 gennaio 2016 al cinema Rosebud di Reggio Emilia)
The
Revenant – Redivivo
di Alejandro González Iñárritu
con Leonardo Di Caprio, Tom Hardy,
Will Poulter, Domhnall Gleeson
Avventura, 156 min., USA, 2015
Manuale delle Giovani
Marmotte per adulti. Peccato per chi ha già visto Bear Grylls: L’ultimo
sopravvissuto su DMAX e sa già che per non morire a -40 gradi può sventrare un
cavallo e dormire nella sua carcassa. Echi del Gladiatore (storia di vendetta) e
della Sottile linea rossa (il ricordo degli affetti ed il rapporto con la
Natura) permeano una pellicola dalla lunghezza spropositata per una trama così
esile e così inverosimile. Scomodiamo allora, arrivati a metà pellicola, per
proseguire nella visione, il sempre attuale “patto finzionale”. Ma non
riusciamo ancora ad accettare che Hugh Glass (Di Caprio) possa tornare a
camminare con una gamba rotta e il corpo dilaniato e che i suoi vestiti possano
asciugarsi così rapidamente dopo una fuga via fiume, nonostante la neve,
nonostante le temperature rigide. Il colpo di grazia arriva quando il Nostro cade
in un dirupo schiantandosi a terra e rialzandosi poco dopo. È a questo punto
che sentiamo la nostalgia di Essential Killing (J.Skolimowski, 2010), pellicola
affine tematicamente ma ben più riuscita nonché meglio recitata. Sì, perché
Vincent Gallo regalava una prova davvero memorabile, mentre Di Caprio è poco
credibile (a differenza dell’ottimo Hardy), vittima com’è di una storia che non
regala emozioni e non ci rende partecipi di un travaglio interiore che, a conti
fatti, non si avverte. Come se non bastasse, l’autenticità della Natura viene
completamente corrotta dal massiccio uso del computer, che tutto ritocca: non
un animale è reale, non una scena pericolosa è girata dal vero. Anche la
battaglia iniziale, vero biglietto da visita per un film che si apra con essa, è
poco autentica, da dimenticare.
Voto: 3 su 5
(Film visionato 16 gennaio 2016)
Macbeth
di Justin Kurzel
con Michael Fassbender, Marion Cotillard, Jack Reynor, David
Thewlis
Drammatico, 113 min., GB, 2015
La bellezza della composizione delle
inquadrature. La forza di questo film è riassunta in questa frase. Ogni quadro riflette
infatti un perfetto studio della disposizione degli elementi in scena, che non
tradiscono mai lo spirito del tempo in cui è ambientata la narrazione e non
smorzano la tensione di una delle più efferate tragedie mai concepite. Il
travaglio, la sofferenza interiore sono lo sporco sotto le unghie dei
combattenti, la terra verde di Scozia battuta dal vento che proviene dall’oceano,
i veli di nebbia che offuscano gli altipiani, le candele che illuminano i
crocifissi, le geometrie del castello in cui Macbeth e la sua regina perdono
loro stessi. Un travaglio interiore che è ben reso dalla recitazione degli ottimi
Fassbender e Cotillard. L’opera oscilla tra la “classicità” di una
mise-en-scène tanto curata quanto essenziale (tornano alla mente Dryer e
Bresson) e un interesse per la luce e una cura della fotografia che si
risolvono in soluzioni narrative davvero interessanti (time lapse, ralenti e saturazione
cromatica finalmente utilizzati in modo funzionale e sensato). La commistione
tra tradizione e modernità finalmente funziona.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il
13 gennaio 2016)
Irrational Man
di Woody Allen
con Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey
Thriller, 96 min., USA, 2015
Scordatevi le atmosfere, i dialoghi, la morale di Match Point. Irrational Man è un thriller sui generis, in cui la tensione e i significati delle situazioni vengono smorzati dall’ambientazione (un luminoso e verde campus studentesco) e dalla superficialità dei dialoghi. Potremmo trovare una chiave di lettura nella massima arendtiana “la banalità del male”, che la studentessa Jill Pollard (Stone) trova appuntata a matita su una copia di Delitto e castigo appartenente al professore di filosofia Abe Lucas (Phoenix). Purtroppo non è così, e anche questo ennesimo film di Allen cadrà nel dimenticatoio nonostante le ottime prove del solito perfetto Phoenix e della brava Stone.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 27 dicembre 2015)
Star Wars: Il risveglio della forza
di J.J. Abrams
con Harrison Ford, Mark Hamill, Carrie Fisher, Adam Driver
Fantastico, 136 min., USA, 2015
L’obiettivo (esplicito) era risvegliare l’interesse verso la saga, portare al cinema chi non l’aveva mai vista e riportare chi non se ne è perso un capitolo. J.J. Abrams non corre rischi e persegue lo scopo in modo fin troppo superficiale. L’imponente campagna pubblicitaria crea un’aspettativa sproporzionata rispetto a un film che sì, si rivela ottimo intrattenimento, ma non accontenta né i puristi né gli spettatori più esigenti. Ogni situazione è stata creata più per richiamare i simboli degli episodi precedenti (Millenium Falcon, spada di Luke, ecc.) e rassicurare il pubblico con l’“effetto nostalgia” che per rinnovare il genere (come invece hanno fatto Nolan con il Cavaliere Oscuro e Mendes con Skyfall).
Voto: 2 1/2 su 5
(Film visionato il 23 dicembre 2015)
Il ponte delle spie
di Steven Spielberg
con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda
Storico/Thriller, 140 min., USA, 2015
Il fatto che sia ispirato a fatti realmente accaduti non giustifica una trama troppo lineare, una superficiale caratterizzazione dei personaggi e le tonnellate di retorica filostatunitense che dobbiamo subire dall’inizio alla fine. Ancora una volta sono gli americani buoni, belli e animati dall’imparzialità e dalla rettitudine a doversi misurare con i russi doppiogiochisti, brutti e comunisti. Lo stucchevole Tom Hanks cerca di portarsi sulle spalle una storia di spionaggio già vista e rivista, completamente priva di tensione e con scene talmente telefonate da sfiorare il ridicolo.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 30 dicembre 2015)
Tutto
può accadere a Broadway (She’s Funny That Way)
di Peter Bogdanovich
con Owen
Wilson, Imogen Poots, Kathryn Hahn, Will Forte
Commedia, 93 min., USA, 2014
Una
commedia d’altri tempi, di quelle che giocano tutto sulla delicatezza delle
situazioni e sulla sottile ironia. Oltre a questo, molti rimandi a pellicole
che hanno fatto la storia del genere cinematografico cui questo film
appartiene, e cameo finale di Quentin Tarantino (c’era da aspettarselo). Ma, a
qualche giorno di distanza, se non fosse per la bravura di Imogen Poots (è nata
una stella?) non ci ricorderemmo forse più di quest’opera garbata, non
superficiale nei contenuti ma datata nelle forme con cui vengono espressi.
Un’operazione nostalgia per cinefili. Ci arrendiamo.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato
il 7 novembre 2015)
Black Mass – L’ultimo
gangster
di Scott Cooper
con Johnny Depp, Joel Edgerton, Dakota Johnson, Juno
Temple, Rory Cochrane
Thriller, 120 min., USA, 2015
C’è chi ha parlato di film
lento, chi di film già visto. Chi, invece, di opera didascalica, scolastica. Black
Mass è indubbiamente un film poco coraggioso, ma impeccabile sotto il punto di
vista tecnico. Poco coraggioso per forza di cose, perché la storia è vera ed è
ricostruita sulla base di un’inchiesta. A noi, ciò che interessa è che la sua
trasposizione cinematografica è di ottimo livello, avvincente al punto giusto e
con ottime prove attoriali da parte di un cast in cui Depp torna finalmente ai
livelli di un tempo. “Certo – si dirà – Quei
bravi ragazzi è tutta un’altra cosa.” Ovvio, ma in questi ultimi e stanchi
anni cinematografici non è poi così facile trovare opere così gradevoli e
rispettose del pubblico.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 10 ottobre 2015)
Sicario
di Denis Villeneuve
con Benicio Del Toro, Emily Blunt, Josh Brolin, Jeffrey Donovan
Thriller, 121 min., USA, 2015
Ritorno al Cinema (sì, con la C maiuscola). Constatiamo infatti con piacere che in questa ultima opera di Villeneuve ogni inquadratura è studiata e costruita nei minimi particolari, ogni sequenza ragionata, ogni panoramica e campo lungo o medio sfruttato per accentuare il senso di solitudine dei personaggi che attraversano le infinite distese desertiche del sud del Texas, al confine con il Messico. Ed è proprio su un confine, che è insieme geografico (El Paso/Ciudad Juàrez) e interiore, che i protagonisti si muovono per cercare di sconfiggere a loro modo il male. Peccato che, come ne La donna che canta (2010) e Prisoners (2013), il male venga ancora una volta trattato come un elemento talmente eterogeneo nelle sue manifestazioni da rendere vani gli sforzi di coloro che da esso cercano di allontanare loro stessi e il prossimo. Forse è proprio questa ripetizione tematica, palese per chi abbia visto e apprezzato le precedenti opere del regista citate, che ci lascia con l’amaro in bocca: niente di nuovo sullo schermo, per di più trattato tramite una storia “sottile”, lineare, troppo spesso didascalica, e dal finale scarno e affrettato. Una narrazione perfettibile, dunque, ma pur sempre dall’affascinante e dirompente impatto visivo.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 26 settembre 2015)
Inside Out
di Pete Docter
Animazione, 94 min., USA, 2015
Una boccata d’ossigeno. Nel senso che nel desolante panorama cinematografico contemporaneo, quest’opera della Pixar si staglia in modo netto e convincente. Merito non solo della maestria tecnica degli autori, quanto della freschezza di una storia comprensibile nella sua complessità e, quel che più ci importa, inedita e convincente. Proprio l’aver reso “facile” una tematica articolata come l’interiorità di una persona, e averlo reso senza mai cadere nel retorico o nello scontato, è la vera forza di questo lungometraggio che resisterà all’oblio. Ridiamo, piangiamo, rimaniamo a bocca aperta davanti a soluzioni registiche e narrative che non vedevamo da tempo. E, contrariamente a quello che accadeva a certi altri film della Pixar, la seconda parte è al livello della prima. Anzi, qui si rimane incollati allo schermo anche durante i titoli di coda.
Voto: 4 ½ su 5
(Film visionato il 18 settembre 2015)
Southpaw – L’ultima sfida
di Antoine Fuqua
con Jake
Gyllenhaal, Forest Whitaker, Rachel McAdams, Naomie Harris
Drammatico, 124
min., USA, 2015
Billy Hope (Gyllenhaal) ha una moglie bellissima (McAdams) che
lo ama, una figlia che lo adora, ma prende la vita a pugni. È un campione di
boxe che sul ring e nella vita adotta una strategia insolita: incassare e
sanguinare fino alla reazione, brutale. La provocazione di un contendente al
titolo dei medio-massimi fa degenerare la situazione, e nella rissa che ne scaturisce
la moglie viene mortalmente colpita da un proiettile vagante. Qui parte la sua
discesa agli inferi e la sua inevitabile e hollywoodiana risalita, fino alla
redenzione finale. Qualcuno potrebbe gridare allo spoiler ma, tranquilli, il
finale è telefonato fin dall’inizio. Fuqua e il suo sceneggiatore (Kurt Sutter)
imbastiscono infatti una storia già vista, senza quindi quegli elementi
d’innovazione che hanno recentemente mostrato altre pellicole (su tutte Moneyball,
che parla egregiamente di un uomo che lavora nel mondo del baseball senza
praticamente mai far vedere il diamante). La resa della boxe si fa sì
spettacolare ma, benché Gyllenhaal ci metta tutto l’impegno possibile con
un’ottima prova attoriale, il travaglio interiore del protagonista non si
avverte (pensiamo a The Wrestler o Toro scatenato) e le traversie famigliari
sono inanellate in un crescendo di cliché che sembrano non avere mai fine.
Subiamo, nello specifico, un martellamento emotivo (Sutter sfrutta tutti i
tasti da toccare per commuovere il pubblico) che alla lunga diventa irritante. Quando
usciamo dal cinema avvertiamo di non esserci né appassionati al protagonista né
tantomeno di apprezzare ancor di più la boxe (!).
Voto: 2 ½ su 5
(Film
visionato il 5 settembre 2015)
Dior and I
di Frederic Tcheng
con Raf Simons, Pieter Mulier,
Florence Chehet, Monique Bailly
Documentario, 90 min., Francia, 2014
Possiamo
parlare di documentario realizzato con punto di vista “embedded” (come nel
giornalismo, per intenderci). La telecamera entra infatti nell’atelier della
maison Dior ma segue solo alcune fasi dell’operato dei professionisti che
lavorano per la sezione haute couture. A capo di questi il nuovo direttore
artistico Raf Simons che, tra colpi di genio e qualche bizza, cerca di
scrollarsi di dosso l’etichetta di minimalista (lavorava per Jil Sander) senza
però perdere di vista la filosofia Dior (la donna intesa come fiore). Ecco
allora che vediamo Simons sfogliare la biografia del fondatore, guarda caso ristampata
e disponibile nelle librerie, senza però avere il coraggio di leggerla (tradotto:
marketing e ansia da prestazione). Ecco allora che la sua apparente freddezza
si scioglie in pianto durante la prima sfilata (tradotto: travaglio interiore).
Nonostante la retorica, anche questo documentario contribuisce a far maturare
in noi la convinzione che un certo modo di fare moda sia una delle più sublimi
forme d’arte. Convinzione maturata grazie anche a Valentino: The Last Emperor, altro esempio di documentario “embedded”
ma emozionante.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 3 giugno 2015)
Louisiana (The Other Side)
di Roberto Minervini
con Mark
Kelley, Lisa Allen, James Lee Miller
Film documentario, 92 min., Italia,
Francia, 2015
Tossici che vivono di espedienti, reduci che trovano rifugio
nell’alcol, ragazzi che si addestrano con armi d’assalto per essere pronti a
contrastare una non meglio identificata minaccia interna. Comune denominatore
le critiche all’amministrazione Obama e le aspettative sugli scenari futuri (si
auspica una vittoria di Hillary Clinton, perché solo lei può dare voce agli
emarginati). Lo sguardo di Minervini segue con sapienza tutto questo, sempre
attento a cogliere l’essenza dei personaggi e delle situazioni attraverso una
puntuale costruzione delle immagini. Si usano volutamente i termini “personaggi”
e “costruzione delle immagini” perché si avverte come il documentario sia comunque
il frutto di una, seppur lieve, rielaborazione della realtà. Era il caso del
bellissimo e toccante Stop the Pounding Heart, dove la scelta di concentrarsi
su un unico protagonista si era rivelata vincente. Qui, invece, Mark, ovvero il
primo e più interessante personaggio che ci viene presentato con la sua storia
d’amore e le sue vicissitudini di drogato, viene improvvisamente abbandonato per
concentrarsi su un altro tema. Questo provoca un calo della tensione narrativa,
e tutta l’opera finisce per perdere in incisività.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 28 maggio 2015)
Youth – La giovinezza
di Paolo Sorrentino
con Michael Caine,
Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Drammatico, 118
min., Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna, 2015
“Ho capito che nel mondo
ci sono due tipi di persone: quelle belle e quelle brutte. In mezzo ci sono i
carini.” E ancora: “Siamo solo comparse.” Queste sono un paio (e nemmeno le
peggiori) delle massime che letteralmente permeano l’ultima fatica (?) di
Sorrentino, accozzaglia di scenette mal legate tra loro costruite attorno a
battute poco memorabili e animate da personaggi tanto inconsistenti quanto poco
credibili. Ancora una volta il regista premio Oscar punta tutto sul
perturbante, ma qui massicciamente, e allora ci dobbiamo sciroppare: un
Maradona che ha tatuato il faccione di Marx sulla schiena, una
ragazzina/massaggiatrice con l’apparecchio che esalta con malizia le qualità
del contatto fisico e balla (rigorosamente al ralenti) davanti all’Xbox Kinect,
una coppia che in pubblico non si parla e che poi urla il suo piacere nei
boschi, un monaco buddhista che cerca di levitare, una miss universo con
l’herpes labiale, una giovane e goffa escort, un attore hollywoodiano che si
prepara ad interpretare Hitler. Bestiario che finisce per soffocare la figura
del protagonista, un Michael Caine inespressivo accompagnato da una figlia
(Rachel Weisz) che lo ama e lo disprezza (boh!). Forse il personaggio più
centrato è quello interpretato da Harvey Keitel, regista al tramonto che lavora
alla sceneggiatura del suo ultimo film con un gruppo di giovani sceneggiatori.
Un film che riflette sulla vecchiaia? Un’opera che parla metaforicamente della
giovinezza? Niente di tutto questo. Solo la voglia di buttare sul mercato un
prodotto, benché approssimativo e irrisolto, per sfruttare l’onda dell’Oscar
recentemente conquistato.
Voto: 1 ½ su 5
(Film visionato il 21 maggio 2015)
Il racconto dei racconti – Tale of Tales
di Matteo Garrone
con Salma Hayek, John C. Reilly, Christian Lees, Jonah Lees, Alba Rohrwacher
Fantasy, 125 min., Italia, Francia, Gran Bretagna, 2015
Da gustare con gli
occhi. Questa è la considerazione che si fa dopo aver guardato Il racconto dei
racconti, ultima opera di Matteo Garrone in concorso a Cannes. Il regista
mette tutto il suo talento artistico al servizio della trasposizione di tre
racconti di Giambattista Basile (tratti da Lo cunto del li cunti, 1634-1636),
per un’operazione che, nonostante ciò che hanno scritto alcuni critici, così
poco si avvicina a quella pasoliniana del Decameron (1971). Poco, perché in
questo caso ogni intento metaforico cede il passo al puro gusto narrativo. Ci
sentiamo, in poche parole, come un bambino che presta la sua attenzione ad un
genitore affabulatore. Il problema è che nel frattempo noi siamo cresciuti e
facciamo un po’ fatica ad accontentarci dell’intrattenimento fine a se stesso, seppur
d’alta classe.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 16 maggio 2015)
Mia madre
di Nanni Moretti
con Margherita Buy, Nanni Moretti,
John Turturro, Giulia Lazzarini
Drammatico, 106 min., Italia, Francia,
Germania, 2015
Margherita (Buy) è una regista di successo. Durante la
lavorazione del suo ultimo lungometraggio, per il quale deve tenere a bada un
attore americano (Turturro) sempre sopra le righe, la salute della madre
comincia ad aggravarsi. Tra una pausa e l’altra dal lavoro sul set si
intensificano le sue visite all’ospedale col fratello (Moretti), sino alla
morte della madre. Scene di vita lavorativa si alternano a scene di vita
famigliare secondo una costruzione narrativa che si sviluppa su due rette
parallele (e quindi mai tangenti). Non abbiamo mai l’impressione che ciò
che sta accadendo alla protagonista nel privato si ripercuota sulla sua vita
lavorativa e viceversa. Non siamo dunque testimoni né di una sua crescita
interiore né di una più ampia riflessione sulla morte di una persona cara. Come
se non bastasse, l’autobiografismo di Moretti si fa in questa sua ultima
opera particolarmente stucchevole e pruriginoso. Il regista/attore finge di
defilarsi e intanto mette in scena un alter ego che fa il suo stesso lavoro,
una madre che come la sua insegnava latino e una preparazione al lutto
evidentemente provata in prima persona ma nei fatti dalle caratteristiche
universali. Moretti prova quindi, ma come nel più goffo dei tentativi, ad
elevare la sua esperienza ad arte. L’operazione risulta banale,
sconclusionata, e non basta certo qualche scena onirica ad elevare il livello
di unfilm desolatamente datato sia tecnicamente che contenutisticamente.
Voto: 2 su 5
(Film visionato
il 22 aprile 2015)
Vizio di forma (Inherent Vice)
di Paul Thomas Anderson
con
Joaquin Phoenix, Katherine Waterston, Eric Roberts, Josh Brolin, Benicio Del
Toro
Giallo/Grottesco, 148 min., USA, 2014
“Il cinema è la vita con le parti
noiose tagliate”. Voglio partire da questa affermazione hitchkockiana, vera o
presunta che sia ma con un indubbio fondamento di verità, per affermare che
Anderson si è ormai specializzato nel superfluo. La sua spasmodica attenzione
al contesto più che al contenuto ci rende partecipi di un’operazione che
ribalta gli assunti bressoniani, ovvero procedere per riduzioni al fine di
arrivare più direttamente al “cuore”, per farsi beffe della fabula e
dell’intreccio relegando la storia a mero elemento di sfondo. Questo succedeva
parzialmente con le sue precedenti opere, questo accade al suo massimo grado
con Vizio di forma. Il contesto diventa il reale protagonista della vicenda,
impreziosito com’è da una ricostruzione storica e una maestria tecnica davvero
oltre la media. Da amanti del cinema non possiamo fare altro che stimare
Anderson per la sua preparazione. Da amanti dell’arte gli imputiamo invece la
mancanza di umiltà e coraggio nell’affidarsi ad un bravo sceneggiatore per
regalare al pubblico un’opera finalmente degna di nota.
Voto: 3 su 5
(Film visionato
il 4 marzo 2015)
Un piccione seduto su un ramo
riflette sull’esistenza
(En duva satt på en gren och funderade på tillvaron)
di
Roy Andersson
con Holger Andersson, Nisse Vessblom, Lotti Tornros, Charlotta
Larsson
Commedia drammatica, 100 min., Svezia, 2014
39 piani sequenza. Tra
questi: un’anziana sul letto di morte tiene stretta una borsetta coi suoi
valori per non lasciarla ai figli; su un traghetto si discute su chi può
sfruttare il pranzo già pagato da un passeggero appena morto d’infarto; prima
di andare in guerra Carlo XII chiede un bicchiere d’acqua e, battendo in
ritirata, ha bisogno del bagno; due rappresentanti di oggetti di carnevale
attraversano una crisi economica e psicologica; Lotte la Zoppa scambia grappe
per baci; diversi personaggi sono contenti di sapere che dall’altro capo del
telefono “sta andando tutto bene” mentre intorno a loro l’umanità soffre. È la
malinconia, la sofferenza, la debolezza e la corruttibilità dell’uomo il tema
trattato da Andersson in questa sua ultima opera del trittico “Living Trilogy”.
Il linguaggio si fa metaforico al massimo grado, vera e propria (video)arte.
L’inquadratura è fissa, come se lo spettatore seguisse lo spettacolo da una
finestra, che limita e include. La messa in scena si fa ultra realistica,
poiché nei lunghi piani sequenza tutto è a fuoco, tutto è al suo posto, e tutto
ha dignità, che sia in primo o in secondo piano. Sta a noi decidere cosa guardare.
Proprio come nella vita vera, spesso ci sono uomini che sono maschere di se
stessi, condizione qui rimarcata dal cerone che portano sul viso. Altrettanto
spesso le loro movenze sono talmente insignificanti ma tanto ripetute da
diventare rituali, allegoriche. E mentre gli schiavi vengono spinti dentro un
cilindro musicale che viene arroventato
per il diletto di vecchi ricchi, la maschera di Zio Dentone rimane invenduta e un
militare arriva sempre in ritardo agli appuntamenti, noi non possiamo fare nulla,
se non guardare.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 21 febbraio 2015)
Birdman
di Alejandro González Iñárritu
con Michael Keaton,
Edward Norton, Zach Galifianakis, Naomi Watts, Emma Stone
Commedia, 119 min.,
USA, 2014
Storia di Riggan Thompson (Keaton), celebrità hollywoodiana che si
vuole scrollare di dosso l’etichetta di attore da blockbuster portando in scena
a Broadway uno spettacolo teatrale ispirato al racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love.
Incombono su di lui i successi commerciali del passato, rappresentati dalla
voce di quel Birdman, supereroe di cui aveva indossato le vesti, che gli
ricorda quanto sia più facile e proficuo (per le tasche e per l’ego) percorrere
la strada cinematografica del remake piuttosto che quella del teatro. Riuscire
a portare a compimento il proprio progetto, riuscire a convincere pubblico e
critica di essere un Attore, diventa per Riggan un’ossessione. Tutt’intorno i problemi
famigliari, gli sforzi per non disunire la compagnia, la competizione con un
attore più giovane e talentuoso, i dubbi sulla propria esistenza. Iñárritu esplora
la contemporaneità attraverso la dicotomia tra teatro e cinema, dimensione
pubblica e privata, realtà (vita reale) e rappresentazione (rappresentazione
scenica). Lo fa attraverso lunghi piani sequenza che indagano gli (angusti)
spazi del teatro seguendo gli attori e svelandone gelosie, debolezze,
promiscuità. Come le opere carveriane e altmaniane, Birdman vorrebbe elevare al
massimo grado di “onestà” (nel senso hemingwayano del termine) le vicissitudini
del suo antieroe contemporaneo, schiacciato da un sistema (quello dello
spettacolo) che glorifica ma che troppo spesso dimentica o discrimina. Non ci
riesce. Il raffinato gioco di rimandi (Keaton è stato il Batman di Tim Burton;
molte sono nel film le citazioni di attori realmente esistenti) non è infatti
così incisivo e funzionale come ci si potrebbe aspettare e anche i riferimenti
alla nuove tecnologie (la notorietà ridefinita da YouTube e Twitter), il finale
aperto e ermetico, gli effetti speciali non fanno altro che tradire un
malcelato tentativo di svecchiare una tematica di stampo esistenzialista già
ampiamente visitata dal mondo delle arti. Certo, Iñárritu mette in campo tutta
la sua bravura registica ottenendo da troupe e attori una prova egregia,
tuttavia l’enorme mole e autoreferenzialità delle tematiche trattate finisce
con il nascondere qualsiasi barlume innovativo dell’opera, vanificandolo.
Voto:
3 su 5
(Film visionato il 14 febbraio 2015)
Turner
(Mr. Turner)
di Mike Leigh
con Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey,
Paul Jesson
Biografico, 149 min., Gran Bretagna, 2014
Biografia atipica del
pittore William Turner. Atipica perché l’amore del protagonista per la pittura
per una volta non viene espresso attraverso atteggiamenti strambi nella società
o lampi di genio davanti alla tela bensì attraverso lo scorrere naturale della
vita. La morte del padre, il matrimonio naufragato e i fugaci piaceri della
carne, le esperienze sul campo per trovare la “vera luce”, diventano passaggi
fondamentali della sua vicenda biografica più che la sua appartenenza alla
Royal Academy o la genesi delle opere che lo fecero diventare famoso. È in
questo modo che Leigh cesella un personaggio burbero, consapevole delle proprie
potenzialità, amante dei piaceri (ma non nel senso edonistico del termine) e
dell’arte, conscio del fatto che la pittura non avrebbe mai rischiato d’essere relegata
in secondo piano in quanto troppo intimamente legata all’uomo-Turner. Tutt’intorno
un’Inghilterra vittoriana ricostruita magnificamente. Unico neo la
caratterizzazione di quelli che furono i colleghi artisti, la cui recitazione
li riduce troppo spesso allo status di superficiali caricature.
Voto: 3,5 su 5
(Film visionato il 31 gennaio 2015)
Exodus – Dei e Re (Exodus: Gods and Kings)
di Ridley Scott
con Christian Bale, Joel Edgerton, Aaron Paul, Ben Kingsley
Epico, Biblico, 150
min., USA, 2014
Ennesima rivisitazione del libro dell’Esodo, incentrata sulle
vicende che hanno come protagonista Mosè. Ogni intento di ricostruzione
filologica in questo film viene meno, lasciando il passo a tonnellate di
“licenze poetiche”, come quelle che stravolgono gli usi e i costumi del tempo. Le
facce sono quelle di attori evidentemente “occidentali”, i luoghi massicciamente
ricostruiti al computer e gli stessi dialoghi, lo stesso modo degli attori di
relazionarsi tra loro, sembrano uscire da un action movie in cui i bicipiti
sono oliati e ben in vista. A parte i costumi, tutto risulta finto,
artificioso. La figura di Mosè (interpretato da un Christian Bale sottotono) è
un mix tra il Massimo Decimo Meridio del Gladiatore (Gladiator, 2000) e il
Robin Hood (2010) di, guarda caso, ridleyscottiana memoria. Notevoli le soluzioni
visive, per il resto lascia letteralmente basiti la figura del Dio/Bambino e la
magniloquenza con cui sono state girate le scene della divisione delle acque e dell’inseguimento
tra egizi e ebrei. In sintesi, possiamo dire d’aver visto un polpettone di
proporzioni bibliche.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 22 gennaio 2014)
Fade
- Storia degli ultimi giorni
di Alessandro Bertoncini
con Edoardo Bocchi,
Massimo Boschi, Giorgia Castrogiovanni, Gabriele Ciances, Pietro Oddi, Bob
Messini
Commedia, 70 min., Italia, 2014
Giovedì 15 gennaio è stato il giorno
di Alessandro Bertoncini, regista in erba che ha avuto il privilegio di
presentare Fade - Storia degli ultimi
giorni, la sua opera prima, al pubblico di Parma. Inizio proiezione ore 21.
Nell'ingresso del cinema Astra vengono consegnati due foglietti con,
rispettivamente, la sinossi dell'opera e una scheda di valutazione (indice di
gradimento da 1 a 5, come le stelline del Morandini). Entro e mi siedo in
ultima fila. L'emozione è forte: la sala di proiezione è piena di ragazzi
giovani e tra loro, oltre a qualche curioso, volti noti della città: almeno un
assessore (non quello alla cultura), un paio di docenti universitari e
personalità appartenenti al mondo del cinema e dello spettacolo. Proprio uno di
questi introduce l'opera e gli interpreti. Ad entrare per ultimo Bertoncini, studente
ventenne al secondo anno dell'Accademia di Cinema presso la RUFA di Roma che si
è autoprodotto l'opera rinunciando all'acquisto dell'automobile che gli aveva
promesso il nonno (encomiabile, non c'è che dire). Le luci si abbassano e
inizia il film, di chiara ispirazione autobiografica, dove ad una storia
d'amicizia se ne intreccia una d'amore, impossibile e tormentata. E poi gli
ultimi giorni di scuola, l'esame di maturità, l'indecisione e la paura per il
futuro, l'amicizia. Ora il dubbio amletico: tacere sui limiti di questo
esordio, proseguendo sulla strada della mera esaltazione di un'opera solo
perché autoprodotta, o esporli tutti? Sono convinto che, soprattutto in ambito
artistico, le critiche siano sempre costruttive se oneste e argomentate. Procedo
dunque ad un'analisi dell'opera per punti, per una maggiore chiarezza. / Il
tema trattato / Obiettivo dichiarato dell'opera è quello di parlare della
cosiddetta "linea d'ombra", ovvero di quel passaggio tra giovinezza e
età adulta di memoria conradiana che si declina in nuove responsabilità sociali
e sentimentali. Qui il periodo viene fatto coincidere con i giorni degli esami
di maturità e di un amore reso impossibile dalla paura di svelare i propri
sentimenti. Tema troppo scarno per un lungometraggio e comunque troppo retorico
per risultare innovativo/interessante. E infatti per stessa ammissione del
regista l'opera è il frutto di un'idea per un corto, solo successivamente
ampliata per la realizzazione di un lungometraggio. Purtroppo questo cambio di
direzione è stato risolto inserendo una moltitudine di scene di transizione che
provocano un calo di tensione narrativa che finisce con l'inficiare il
risultato finale. / La chiave di lettura / Fade, parola inglese che trova
nell'italiana "dissolvenza" il suo corrispettivo, è insieme
dichiarazione d'amore per il cinema nonché chiave di lettura per l'intera
opera. Bertoncini ha dichiarato che questa è la "storia di un gruppo di
ragazzi, di quello che erano, sono e sperano di diventare, mentre il passato e
il presente si dissolvono ed il presente è presto sostituito da un futuro che
prende nuova forma, proprio come l'immagine di una fotografia." Belle
parole, che non trovano però riscontro nell'opera se non nel ricorrente ricorso
all'espediente tecnico della dissolvenza come metodo di transizione tra le
scene. / Il montaggio / Il montaggio è tutto. Qui si salta, in modo fin troppo
evidente, da un evento ad un altro, da una stagione astronomica e meteorologica
adw un'altra senza una ragionata consequenzialità tra le scene che giustifica i
cambiamenti. / La colonna sonora / Uso massiccio, e per questo fastidioso, di
motivi di sottofondo e di musiche anglo-americane che spesso finiscono col
soffocare le immagini. Musiche potenzialmente suggestive, non c'è che dire, ma
che faticano ad inquadrare un periodo (quello degli esami di maturità) che
invece ha spesso come colonna sonora canzoni sì banali e commerciali perché
proposte a ripetizione da radio e tv ma sicuramente capaci, proprio per il
fatto di essere conosciute ai più, di dare quel tocco generazionale che ad un
lungometraggio di questo tipo non avrebbe guastato. / La tecnica registica / Un
banco di prova. Non poteva essere altrimenti e non potevamo chiedere di più ad
un attore ventenne che si cimenta per la prima volta in un lungometraggio. Ma
se poi pensiamo ad un altro giovane esordio come quello di Marco Righi con I
giorni della vendemmia (2010), opera dalla sobria e sapiente maestria tecnica girata
in altrettanta penuria di mezzi, ecco allora che dobbiamo dire che questo
lungometraggio si rivela tecnicamente acerbo, disomogeneo. Si passa da
insistite inquadrature dal basso a carrellate improvvise, da primi piani poco
evocativi a lunghi e stucchevoli ralenti. Bertoncini ha la frenesia di mettere
in pratica un ampio spettro di soluzioni registiche che, insieme, tradiscono
un'impulsività poco produttiva. Non mancano i calchi da altre pellicole, si
pensi alla riduzione e successiva apertura del formato dell'immagine così come
accade in Mommy di Xavier Dolan (film
guarda caso recentemente arrivato in Italia), o alle sperimentazioni poco
ragionate come gli improvvisi passaggi dal colore al bianco e nero per
sottolineare i momenti di sconforto del protagonista. / La recitazione / Quasi
tutti attori giovani provenienti dal mondo del teatro, credibili ma troppo
spesso visibilmente intimiditi dalla macchina da presa. I cammei di attori
navigati, come quello di Bob Messini, sono barlumi di cinema attenuati però da
battute poco consone ai relativi personaggi. /Le location / Rischio di essere
troppo di parte perché buona parte dell'opera si svolge nelle strade in cui
sono cresciuto e in cui tutt'ora abito. Ciò che mi sento di dire è che non si
può far partire il protagonista per un viaggio in solitaria e poi farlo
camminare in mezzo ai campi della nostra provincia. / All'uscita ho restituito
il biglietto con una valutazione di tre "stelline" su cinque. Una
media tra il risultato finale, acerbo e impulsivo, sia a livello di scrittura
che a livello di tecnica registica, e la passione, la voglia di fare. Voglio
però chiudere questa recensione aggiungendo che da un regista ventenne mi sarei
aspettato molto di più sotto il punto di vista del coraggio autoriale, se non a
livello tecnico almeno a livello contenutistico. Detto in altri termini, sono
rimasto sorpreso dal non aver trovato traccia di riferimenti culturali forti, impliciti
o espliciti che fossero.
American Sniper
di Clint Eastwood
con Bradley Cooper, Sienna
Miller, Kyle Gallner, Luke Grimes
Biografico, Guerra, 132 min., USA, 2014
Il
texano Chris Kyle (Bradley Cooper) si arruola nell’esercito e diventa cecchino
nei Navi SEAL. Il battesimo avviene in Iraq, dove si apposta sui tetti per
proteggere le operazioni a terra dei suoi commilitoni. Grazie alle numerose
uccisioni diventa ben presto una leggenda per i compagni e una minaccia per i
nemici. Ma alla gloria sul campo corrisponde un allontanamento dalla famiglia e
un aumento dei problemi di salute (mentali più che fisici) nei periodi di
congedo. Combattere diventa un’esigenza che non gli permette di reinserirsi
nella vita civile. Kyle troverà pace solo grazie all’amore della moglie (Sienna
Miller) e ad una nuova missione, addestrare al tiro persone con gravi
menomazioni fisiche che, gioco del destino, gli sarà fatale. Tratto da una
storia vera, American Sniper tralascia
qualsiasi intento documentaristico per concentrarsi sulle traversie (interiori
ed esteriori) del suo protagonista. Non ci troviamo dunque di fronte ad una
ricostruzione minuziosa delle operazioni di guerra alla Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012), bensì ad un film
hollywoodiano dall’impianto classico in cui ci si focalizza sulla personalità
del personaggio principale cesellandola grazie ad elementi retorici funzionali alla
narrazione quali la storia d’amore con la moglie, i duelli con un nemico che
incarna il suo opposto, le reazioni alle tragiche dipartite sul campo dei
compagni di battaglia, i dolorosi ritorni a casa. Come prima cosa, Eastwood sembra
però voler mettere al centro un dubbio che è sociale e morale insieme: Chris
Kyle è un cecchino che, nonostante le oltre 160 uccisioni accreditate al suo
attivo, non si sente tale. Ai tetti dai quali si apposta per sparare in
solitaria preferisce combattere in strada con i suoi compagni di brigata. Si
trova quindi, come per uno strano gioco del destino, a sentirsi chiamato “The
Legend” perché, come spesso accade, gli eserciti hanno bisogno di eroi per trovare
quelle motivazioni di cui una guerra di difficile giustificazione spesso difetta.
A dirla tutta Kyle non era neanche il più “leggendario” tra i cecchini. Le
cronache di guerra riportano che la sua uccisione a 1,9 chilometri non è un record,
se si considera che altri soldati, appartenenti a corpi meno blasonati, sono
riusciti a colpire il loro bersaglio a più di due chilometri di distanza. L’eroe
che non è e che non si sente tale diventa paradigma per una riflessione sull’interiorità
dei combattenti che, partiti pieni di ideali (Dio, Patria e Famiglia), tornano
ipertesi, svuotati, senza riconoscibilità sociale. Attraverso le vicissitudini
di Kyle, Eastwood non fa altro che riproporre le tematiche legate al problema
dei reduci, in passato persone dalla vita distrutta dalla leva obbligatoria,
ora automi spinti a combattere dal contesto in cui vivono (zone depresse e
permeate da un nazionalismo esasperato in cui, per cultura, si comincia a
sparare sin da bambini). Per affinità tematiche, il film si pone dunque in
linea di continuità con opere quali Orizzonti
di gloria (Paths of Glory,
Stanley Kubrick, 1957), La sottile linea
rossa (The Thin Red Line,
Terrence Malick, 1998) e, ancor di più, con Il
cacciatore di Michael Cimino (The
Deer Hunter, 1978). Con la sua ultima opera, Eastwood ci vuole far capire l’essenza
della guerra e i suoi indelebili effetti su chi ne prende parte. La chiave
interpretativa ce la fornisce in grande stile, ovvero attraverso una battuta di
uno dei suoi personaggi: “Avevamo una rete elettrificata attorno alla nostra
proprietà in Oregon e noi bambini ci attaccavamo per vedere chi riusciva a
resistere più a lungo. La guerra è così, ti mette una scarica di elettricità
nelle ossa, ma se ti stacchi muori.”
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 2
gennaio 2014)
L’amore bugiardo – Gone Girl
di David Fincher
con Ben
Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry
Thriller, 149 min.,
USA, 2014
Amy (Rosamund Pike) e Nick (Ben Affleck) sono giovani, belli, affiatati.
Apparentemente una coppia perfetta. Dopo aver vissuto a New York si sono
trasferiti in Missouri per stare vicini alla madre di Nick, gravemente malata. Insieme
hanno sconfitto la crisi economica del 2009 che ha minato le loro finanze e,
insieme, hanno riorganizzato la loro vita in provincia. Ma il giorno del loro
quinto anniversario Amy scompare nel nulla. Nick non sembra particolarmente
preoccupato ma segnala la cosa alla polizia, che in casa trova un tavolino
rotto e numerose tracce di sangue. Qualche sorriso di troppo rubato dalle
telecamere delle emittenti che seguono la vicenda e Nick si ritrova ben presto
tra i principali sospettati. Finalmente una trama avvincente, frutto di un eccellente
regista che mette da parte qualsiasi velleità letteraria lasciando campo libero
all’autrice del romanzo da cui è tratta la pellicola (Gillian Flynn, L’amore
bugiardo, Rizzoli, 2012). Il risultato è ottimo. Rimaniamo letteralmente incollati
allo schermo per 149 minuti godendoceli singolarmente uno ad uno, con picchi di
coinvolgimento che da tempo non registravamo davanti al grande schermo. La
storia incentrata su una coppia invidiabile che comincia a sfaldarsi,
ricostruita abilmente grazie ad un perfetto incastro tra flashback rievocati dalle
pagine del diario ritrovato della moglie e vicissitudini del marito che la cerca,
potrebbe far pensare alla solita tiritera ampiamente sfruttata dalla settima
arte. E invece qui ci troviamo di fronte ad un’insolita, e per questo ancor più
apprezzata, variazione sul tema, che si eleva addirittura rispetto alle altre
recenti opere cinematografiche statunitensi sulla vita coniugale (lo spietato
Revolutionary Road di Sam Mendes e To the Wonder di Terrence Malick, per
citarne solo un paio). Ne esce uno studio metaforico che estremizza le
tematiche legate al matrimonio per farsi ancor più terribilmente realistico
(alla maniera ellissiana, mi verrebbe da dire), sorretto dalla bravura degli
attori, della sceneggiatrice e di un regista che riesce a concentrare
l’attenzione non solo sulle contraddizioni del tema ma anche sul contesto che
talvolta le crea, talvolta le subisce. La scomparsa di una moglie diventa dunque
un pretesto per indagare i rapporti di coppia e come vengono percepiti
all’esterno: il circo mediatico si scatena (che siano vicini di casa o
emittenti televisive ad esprimere un giudizio, il risultato non cambia) e la
verità che viene a galla è sempre parziale, frutto di un gioco di astuzie
costruito sul momento, non nel lungo periodo. L’unica perplessità riguarda
l’atmosfera generale della pellicola. Il film parte infatti come un thriller
finendo quasi per sfociare nel grottesco. Una disomogeneità che tradisce forse un
riferimento ad una certa tradizione hollywoodiana (la mente corre alla Guerra
dei Roses) e che, a conti fatti, fa calare un poco l’epicità dell’intera opera.
Interessante infine constatare come l’uscita di quest’opera abbia seguito sia
negli USA che in Italia di poche settimane quella dello Sciacallo
(Nightcrawler, Dan Gilroy), altra inquietante riflessione sul ruolo dei mass
media nella percezione della realtà.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 26
dicembre 2014)
Mommy
di
Xavier Dolan
con Anne Dorval, Steve-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Drammatico,
140 min, Francia, Canada, 2014
Una madre single, non più giovane ma ancora
attraente (Diane, interpretata da Anne Dorval) si trova ad accudire il violento
e instabile figlio quindicenne (Steve, Steve-Olivier Pilon) pur di non farlo
finire in un ospedale psichiatrico. Cerca di aiutarla, tra mille difficoltà,
una vicina di casa balbuziente (Kyla, Suzanne Clément). Xavier Dolan ha
realizzato un film che vive di eccessi e contrasti. Elementi che fanno la
fortuna dell’opera tradendo però, allo stesso tempo, tutta l’acerbità del
regista. Sin dall’inizio il primo aspetto del film che colpisce è l’ottima
recitazione, caratterizzata per tutti i personaggi da una continua alternanza
di quiete ed esplosioni incontrollate. Si pensi ai comportamenti di Steve (dolce
o violento), alle reazioni della madre Diane (paradigmatico lo straziante monologo
finale che si risolve in un disperato pianto) o ancora al travaglio interiore
della delicata vicina di casa Kyla. Nelle prime scene si palesa anche il
principale elemento che innerva tutta la pellicola: la musica. La sua è una
presenza massiccia (si parlava d’eccessi), e sappiamo già come solo i grandi
successi del presente e del passato (in questo caso si va da Wonderwall degli Oasis a Born To Die di Lana del Rey, passando da
Vivo per lei di Andrea Bocelli e
Giorgia Todrani… che contrasti!) siano sufficienti a “rapire l’anima” dello
spettatore, incollarla alle immagini e rendere epica anche la scena più
insignificante. Non che questo voglia dire che ci siano scene mal realizzate. Anzi,
è proprio la maestria tecnica con la quale Dolan ha studiato ogni minima
inquadratura della sua opera che colpisce. Già la scelta del formato dimostra
un’attenzione particolare a questo aspetto: la dimensione 1:1 (Mariarosa
Mancuso ha parlato di “formato Instagram”) accentua la solitudine dei singoli personaggi
nei primi piani pasoliniani o nei campi medi, per poi aprirsi nelle metaforiche
scene che restituiscono un’idea di massima speranza o spensieratezza. Siamo indubitabilmente
di fronte a vette di sperimentalismo tecnico, di coraggio autoriale, che da
tempo non trovavamo sul grande schermo (ultimo esempio, a livello di
sperimentalismo tecnico “spinto”, l’uso delle lenti deformanti nel Faust di Sokurov, 2011). Ma ancora una
volta finiamo nel campo dei contrasti, dato che alla maestria tecnica non
corrisponde una storia che si possa dire allo stesso livello. Dolan pecca
infatti d’inesperienza nel momento in cui decide di mettere in scena una
vicenda d’amore materno senza metterle dei freni, ovvero sfruttando troppo
spesso in maniera poco misurata situazioni e artifici narrativi che finiscono
per tradire una scarsa profondità di riflessione sul tema, per un risultato che
sembra ben più emotivo che ragionato. Per affinità tematiche possiamo citare,
come pietra del paragone, La luna di
Bernardo Bertolucci (1979). Nonostante questo, il film rimane pur sempre una ventata
d’aria fresca nel panorama cinematografico contemporaneo e il secondo plot point, ovvero la proiezione materna
del possibile futuro del figlio in finale di film, è un pezzo di grandissimo
cinema che ci accompagnerà per lungo tempo.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 12
dicembre 2014)
Due
giorni, una notte (Deux jours, une nuit)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne
con
Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne
Drammatico, 95 min., Belgio,
Francia, Italia, 2014
Sandra, dipendente di una piccola azienda che produce
pannelli solari, è in procinto di rientrare al lavoro dopo essersi ripresa da
una brutta depressione quando viene raggiunta dalla telefonata di una collega
che la informa che buona parte dei colleghi ha votato per il suo
licenziamento in cambio di un bonus in busta paga. Sandra vuole gettare la
spugna ma, grazie ad una collega che riesce ad ottenere una seconda votazione e
ad un marito che la supporta, trova la forza di giocare la sua ultima carta:
incontrare uno per uno i colleghi, nel fine settimana, per convincerli a votare
per il suo reintegro. Ciò che colpisce di più di quest’opera è la semplicità
degli elementi che la compongono: la regia dei fratelli Dardenne si fa classica
(scompare l’onnipresente telecamera che segue il personaggio principale per una
più ampia varietà d’inquadrature, semplici e misurate), la sceneggiatura è lineare,
i dialoghi sobri, la recitazione puntuale. Possiamo dire che con
questa loro ultima fatica i fratelli Dardenne hanno messo in atto
l’insegnamento bressoniano dell’alleggerimento dei “significanti” per un raggiungimento
più diretto del cuore del “significato”. Ne è scaturita una storia incisiva e verosimile
(perché encomiabilmente legata ai tempi), che si sublima in un finale di rara profondità
e rilevanza.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 29 novembre 2014)
Pasolini
di Abel Ferrara
con Willem Dafoe, Ninetto Davoli,
Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea
Biografico, 86 min., Belgio, Francia,
Italia, 2014
Premetto di aver avidamente studiato gran parte dell’Opera
pasoliniana. Intendo i romanzi, le poesie, gli scritti critici, gli articoli e quasi
tutti i film dell’intellettuale assassinato nella notte tra il 1° e il 2
novembre 1975. Cito con precisione l’ultimo atto della sua vita perché
quest’opera di Abel Ferrara, sceneggiata con Maurizio Braucci, si concentra proprio
sulle ultime ore dello scrittore attraverso la ricostruzione della sua quotidianità,
degli affetti, delle opere rimaste incompiute. Passa allora davanti ai nostri
occhi una galleria di personaggi (Ninetto Davoli, Laura Betti, la madre) e
situazioni (le partite di calcio con i borgatari, le interviste, gli
adescamenti di giovinetti) che dovrebbero restituire la dimensione epica della
vita di Pasolini (siamo così sicuri che il suo privato fosse così memorabile?).
Ciò che ne esce è una lunga lista di luoghi comuni, animati da un codazzo di
maschere stereotipate, intervallati da un’approssimativa, quasi grottesca e
caricaturale ricostruzione delle opere rimaste incompiute, ovvero Petrolio e
Porno-Teo-Kolossal.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 18 novembre 2014)
Lo sciacallo – The Nightcrawler
di Dan Gilroy
con Jake
Gillenhaal, Bill Paxton, Rene Russo, Riz Ahmed
Drammatico, Noir, Thriller, 117
min., USA, 2014
Lou è un ragazzo strano. Vive in un monolocale, non ha parenti
e amici, ha una macchina scassata e ruba qua e là per far soldi. Il necessario
per vivere. Una sera assiste ad un incidente e vede accorrere una troupe di
freelance che poco dopo vende con profitto le riprese ad un’emittente locale. A
Lou si accende la lampadina e allora, moderno Scrooge che da un penny costruì
un impero, ruba una bici da corsa per poi rivenderla e comprare una videocamera
e un computer. Parte così la sua ascesa nel mondo dell’informazione, fatta di
colpi bassi e competizione ferocemente sleale. Ci è sembrato di essere
spettatori di un’operazione nostalgia. Echi di anni Novanta esplodono davanti
ai nostri occhi con tutta la loro dirompenza non solo grazie alle immagini di una
decadentissima Los Angeles ma anche e soprattutto grazie ad una storia che
presenta i canoni tipici dei film di quella decade. Non ci stupiamo allora che
Lou giri con la camicia bianca a maniche corte come il Michael Douglas di Un
giorno di ordinaria follia (Falling Down, Joel Schumacher, 1993). Chicca che,
insieme alle panoramiche della città degli angeli, non solo vale il prezzo del
biglietto ma accentua anche il tasso di follia del protagonista e della vicenda
tutta. Pazzia insana, mancanza di controllo che vale al protagonista la palma
di cattivo più cattivo di questi ultimi stanchi anni cinematografici. Il suo sguardo
spiritato (Gillenhaal è davvero inquietante e la perfetta Rene Russo gli regge
il gioco) è la ciliegina sulla torta, il suo cinismo è il caffè, i suoi
discorsi improntati al personal branding più spinto e la domanda “What if my
problem isn’t that I don’t understand people, but that I don’t like them?” l’ammazzacaffé.
Non ci siamo dunque trovati di fronte solo ad una riflessione sul giornalismo e
le sue derive (il sensazionalismo a tutti i costi, la manipolazione delle
notizie, i dubbi etici legati alla ripresa senza filtri della realtà, ecc…) ma
ad una vera e propria considerazione metaforica sul livello odierno a cui si
attesta ormai il comune senso del pudore. E allora ci siamo alzati dalle
poltrone svuotati, consci di aver visto, piaccia o non piaccia, uno dei film
più spietati degli ultimi anni.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 15 novembre
2014)
Interstellar
di Christopher Nolan
con Matthew McConaughey,
Anne Hathaway, Jessica Chastain, Wes Bentley, Michael Caine
Fantascienza, 169
min., USA, UK, 2014
Non c’è due senza tre. Inception (2010) e Il cavaliere
oscuro – Il ritorno (2012) ci avevano lasciato con l’amaro in bocca e ora è il
turno di questo Interstellar. Ma una cosa l’abbiamo capita. Nolan è ormai
regista da alti budget e quindi “prigioniero” di un cinema che deve per forza
fare i conti con i risultati al botteghino. Non ci dobbiamo quindi stupire se
questa sua ultima opera, nonostante le affinità tematiche, non sia ai livelli
di profondità di capolavori come 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick,
1968) ma si fermi alla superficie. Come se la navicella di Cooper (McConaughey)
non lasciasse mai la terra, come se quel tanto decantato buco nero fosse solo
uno specchietto per le allodole. Qualcosa si salva? Certo. Il film è puro e
bellissimo intrattenimento, frutto di una maestria tecnica e registica senza
precedenti. Ciò che manca, recente vizio del regista, è la profondità
d’analisi, ovvero quella capacità di riempire un ottimo prodotto di
significato. E allora, di nuovo, le buone premesse (tra cui un tema quanto mai
attuale: le nuove generazioni si devono formare per far fronte alle esigenze
del pianeta, a costo di sacrificare le loro predisposizioni) sfociano in un
finale tanto stucchevole quanto fastidioso. Ci piace ancora pensare che il vero
Nolan sia quello di Insomnia (2002).
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato l’8 novembre 2014)
Boyhood
di Richard Linklater
con Patricia Arquette, Ethan
Hawke, Ellar Coltrane, Lorelai Linklater
Drammatico, 165 min., USA 2014
39
giorni di riprese realizzate nell’arco di 12 anni (dal 2002 agli inizi del 2014)
al ritmo di tre o quattro giorni ogni anno. Sempre con gli stessi attori, sempre
con la chiara idea di “quale sarebbe stata l’ultima inquadratura, dove
sarebbero andati i personaggi”. Boyhood è il risultato di questo lavoro di
pianificazione e costanza, di commistione tra realtà (il contesto e l’evoluzione
fisica degli attori) e fiction (i personaggi e ciò che accade). Proprio questa
compenetrazione acuisce le peculiarità di un’anomala storia di formazione che,
proprio per il suo alto tasso di sperimentalismo, promuove un fortissimo
meccanismo di identificazione. Grazie alla inserimento, all’interno della
narrazione, di accadimenti positivi e negativi, degni di nota o irrilevanti, ma
sempre fondamentali per cesellare le personalità, siamo testimoni non solo
della crescita di un ragazzo che passa dai 6 ai 18 anni ma anche delle sorti dei
famigliari che lo accompagnano in questo percorso: la madre, il padre, la
sorella. Un po’ come per chi guarda i filmini di famiglia, messa in scena di
una realtà dove ci sono personaggi costanti e comparse che non ritorneranno, è
impossibile non ritrovare almeno un frammento della propria vita e
identificarsi con almeno uno dei personaggi. Ma Boyhood è anche un’opera che,
grazie al meccanismo di ripresa diretta della realtà, si propone come documento
filologicamente ineccepibile sul contesto socio culturale statunitense dell’ultimo
decennio (un po’ come Heimat per la
Germania). L’opera promuove infatti un’acuta e profonda riflessione su uno
dei pilastri della società, la Famiglia,
mettendone a nudo le contraddizioni, le soavità.
Voto: 4 su 5
(Film visionato
il 29 ottobre 2014)
I due volti di gennaio (The Two Faces of January)
di Hossein Amini
con Viggo
Mortensen, Oscar Isaac, Kirsten Dunst
Thriller, 96 min., USA, UK, Francia 2014
Atene, 1962. Rydal è un giovane americano che ha deciso di allontanarsi dalla
sua famiglia d’origine per vivere ad Atene. Sbarca il lunario facendo la guida
turistica e, senza troppe remore, truffa chi a lui si affida giocando sul
cambio tra dollari e dracme. Un giorno il giovane si imbatte in una facoltosa
coppia di turisti statunitensi: lei (Dunst) gli fa girare la testa, lui
(Mortensen) gli ricorda suo padre. Farà loro da guida, poi verrà risucchiato in
un vortice che rischierà di rovinargli la vita per sempre. Dallo sceneggiatore
di Drive, passato con questo film anche dietro alla macchina da presa, era
lecito aspettarsi di più. L’ambientazione (Atene e le isole greche), la
recitazione (misurata da parte di tutti gli attori) e la narrazione (la storia
è tratta dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith) costituiscono sì una buona
amalgama, ma tutta sbilanciata sul versante del classico. Per non rischiare Amini
sceglie una regia attenta e trattenuta, fino quasi a tradire la paura di
commettere passi falsi. Ne esce un prodotto ben girato, ben recitato, ma troppo
poco sincero: il fatto che la storia si sviluppi negli anni sessanta e non
nella contemporaneità è già, per uno sceneggiatore, una dichiarazione di resa.
Se poi si considerano il finale obsoleto, il triangolo amoroso che (ovviamente)
porta guai e il rapporto padre/figlio che lega i due protagonisti, questo
avvalora ancora di più la lettura di un’opera ingessata nel paradosso di un’artificiosità
derivante dal fatto di non aver voluto introdurre alcun elemento di innovazione
registica e/o contenutistica. Prevedibile, patinato, sorpassato e senza quella
raffinatezza e quella voglia di osare che hanno fatto grandi altri registi del genere
(un nome su tutti, ma evito di farlo perché non c’è una recensione su
quest’opera che non lo abbia chiamato in causa).
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato
sabato 18 ottobre 2014)
Il regno d’inverno – Winter Sleep
di Nuri Bilge Ceylan
con
Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekan
Drammatico, 196 min.,
Turchia, Francia, Germania, 2014
Turchia. Nell’Hotel Otello, struttura che come
le abitazioni limitrofe è stata scavata nella roccia di una remota regione
dell’Anatolia, vive con moglie, sorella e domestici Aydin, il proprietario,
che, arrivata la stagione invernale, passa sempre più tempo nel suo studio per
poter finalmente iniziare un trattato sul teatro turco e scrivere articoli di
critica di costume per un gazzettino locale. La sua stanza non è altro che un
rifugio dal suo personale inverno, quella stagione della vita che lo obbliga a
tirare le somme della sua esistenza. Lo aiuteranno in questo, a loro modo, la
sorella, la moglie e la famiglia del paese a cui aveva dato, per interposta
persona, lo sfratto. Nuri Bilge Ceylan scrive con la moglie la storia di
una ricerca: la ricerca del senso dell’esistenza da parte di un “uomo senza
qualità”, istruito, educato, ma ancora non abbastanza maturo per comprenderne
fino in fondo il meccanismo. Per questo indispone, risultando a chi gli sta
intorno irritante, supponente, incapace di far fronte alle proprie
responsabilità (in questo ci ricorda un po’ l’Oblomov di
Gončarov). Obiettivo ultimo del regista/sceneggiatore quello di mostrarci il
suo percorso di crescita, costruito sul confronto con tre principali soggetti:
la sorella, la moglie, il popolo. L’opera funziona soprattutto quando si
concentra su quest’ultimo rapporto che, in ultima analisi, è quello che si
dimostra più metaforico e interessante (anche se sulla società turca ne
sappiamo poco più di prima). Non è invece ben chiara la scelta di affidare
buona parte della caratterizzazione del protagonista ai rapporti che lo legano
alle due figure femminili, dato che entrambe improvvisamente si eclissano,
quasi senza motivo e senza valore aggiunto, dopo essere state protagoniste di
lunghissimi e lapalissiani dialoghi (tutti concordi nel rimando a
Čhecov). Siamo di fronte ad un’opera sì egregiamente diretta e recitata,
ma nettamente bicefala (è uno di quei casi dove la durata complessiva non è
giustificata) e ad ampi tratti ampollosa, tematicamente e dialogicamente
ripetitiva, in bilico tra cinema e letteratura, film e romanzo. Per dirla con
le parole di Robert Bresson: «Impossibilità di esprimere fortemente qualcosa con
i mezzi congiunti di due arti. O è tutta una o è tutta l’altra». Palma d’oro a
Cannes 2014.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 14 ottobre 2014)
Anime nere
di Francesco Munzi
con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane,
Anna Ferruzzo
Thriller, 103 min., Italia, Francia, 2014
Tre fratelli, tre volti
della ‘ndrangheta. Luciano, il cuore, vive ad Africo, paese dell’Aspromonte. È
un uomo umile, di sani principi. Dedica la vita all’allevamento e alla cura
della terra. Ha un figlio, Leo, che subisce il fascino della malavita e risolve
una questione d’onore demolendo la vetrata di un negozio con un fucile a
pallettoni. Nel mezzo di quella stessa notte scappa a Milano, dai fratelli di
suo padre. Qui trova lo zio Luigi, il braccio, che si divide tra l’Italia del
nord ed il nord Europa per contrattare con i cartelli sudamericani il traffico
e il prezzo della droga nel continente. Coordina gli affari l’altro zio, Rocco,
la mente, che cela la sua vera identità dietro un paio di occhiali da
ragioniere, una famiglia modello, una casa più che decorosa. Venuti a
conoscenza della bravata di Leo e degli effetti da essa generati, Luigi e Rocco
faranno ritorno ad Africo con il nipote per cercare di mettere a posto le cose.
La situazione degenererà. Benché ci siano stati critici cinematografici che
hanno visto nella compresenza di tre fratelli dalle personalità così nette e distinte
un’ingenuità che attenua l’incisività dell’opera, si deve comunque rilevare che
una caratterizzazione netta dei personaggi li rende credibili e per questo
funzionali a quel che, in fin dei conti, non può e non deve essere altro che considerato
come il racconto di una storia dai tratti tragici. Certo, in questo modo il
film non raggiunge quelle vette d’introspezione che possono essere ravvisate in
altre opere sulla mafia (da recuperare, in questo senso, Fratelli di Abel Ferrara). Ma accettando per un momento che un film
italiano possa avere caratteristiche da thriller (dalle molteplici
ambientazioni, anche in esterni!), e non necessariamente da “dramma da camera”,
ecco allora che lo spettatore si trova di fronte ad una storia finalmente
“maledetta”, ovvero fatta di faide, vendette, sangue. Il tutto reso con
realismo spietato e, quel che più ci interessa, ottima tecnica. Forse, dato
anche il recente successo della serie televisiva Gomorra, il cinema italiano ha ritrovato un genere davvero poco
praticato. L’auspicio è che il filone non si esaurisca e che i temi di mafia
fungano solo da trampolino di lancio per un’evoluzione del genere e del cinema
italiano tutto.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 27 settembre 2014)
Sin City – Una donna per cui uccidere
di Frank Miller e Robert
Rodriguez
con Mickey Rourke, Jessica Alba, Josh Brolin, Joseph Gordon-Levitt,
Eva Green, Rosario Dawson
Thriller/Noir, 102 min., USA, 2014
Difficile
ricordare il primo capitolo, risalente a ben nove anni fa, per poter fare un
efficace confronto con questa seconda produzione del marchio Sin City. Lo siamo
andati a vedere in 2D, avendo letto dell’inutilità del 3D, e dopo una settimana
ce ne siamo quasi già scordati. Quasi, perché un aspetto ci è rimasto e,
paradosso dei paradossi per un film, si tratta di una peculiarità molto più
letteraria che cinematografica: i flussi di coscienza dei personaggi (stream of
consciousness ci avrebbe detto la nostra professoressa d’inglese), più pulp di
qualsiasi manifestazione di violenza che innerva tutta l’opera, maledettamente più
interessanti di qualsiasi altro aspetto serio o faceto che sia (si va dalle
forme di Green e Alba alle folli corse in auto, passando dalle torture ai
sanguinosi duelli). I pensieri dei protagonisti spiccano così sia sulla messa
in scena (intrigante ma fin troppo “disegnata”), sia sui dialoghi (telefonati),
sia sulla comunque buona prova recitativa dei vari Rourke, Brolin, Gordon-Levitt.
Avremmo potuto chiudere gli occhi per lasciarci trasportare da frasi degne di
certe pagine di Burroughs e Chandler, per immaginarci mondi ben più
interessanti di quelli concepiti dalla coppia Miller-Rodriguez.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 6 ottobre 2014)
Una promessa
di Patrice Leconte
con Rebecca Hall, Alan
Rickman, Richard Madden
Sentimentale, 98 min., Francia, Belgio, 2014
Germania,
1912. Friedrich (Madden), orfano di umilissime origini, viene assunto da
un’acciaieria. Il proprietario (Rickman), colpito dalle sue capacità, lo
promuove a segretario personale fino ad “adottarlo” nella propria magione. La
convivenza gli comporta una crescente familiarità con il figlio e, soprattutto,
la moglie dell’industriale, Charlotte (Hall). I due cercheranno in tutti i modi
di trattenere i loro sentimenti. Proprio quando potrebbero darne libero sfogo
ecco che la guerra e nuovi impegni lavorativi del giovane ne separeranno le
esistenze. È proprio in questo momento che i due cercheranno di rendere
inscindibili i loro destini, con una promessa. Tempi dilatati, estasi
platoniche, promesse da mantenere. Leconte si inerpica nel difficilissimo
sentiero della trasposizione cinematografica di un’opera letteraria (Viaggio nel passato, Stefan Zweig) tutta
incentrata su un sentimento amoroso (semplificando, noi spettatori dovremmo
vivere empaticamente le vicissitudini sentimentali dei due protagonisti). Purtroppo,
nonostante la buona tecnica utilizzata, la regia è fin troppo didascalica e le
imprecisioni ragguardevoli. Approssimativa è la ricostruzione di un’epoca, affidata
alle ripetitive scene in interni, come assolutamente ingiustificata è la scelta
di attori e ambientazioni in esterno evidentemente anglosassoni a dispetto di
una storia ambientata in Germania (discrepanza resa ancora più evidente se si
vede il film in lingua originale, ovvero in inglese!). L’obiezione che si
potrebbe muovere è che l’opera si vuole accontentare di mettere al centro di
tutto una storia d’amore, scevra da qualsiasi tipo di sovrastruttura storica e sociale.
Tuttavia è proprio la tensione erotica che dovrebbe innervare la storia a fare
sentire inesorabilmente la propria mancanza, vuoi per la recitazione
“contemporanea” dei due attori protagonisti, vuoi per il patetismo di certe
scene che sconfina nell’assurdo (v. la scena del pianoforte). Ne esce così
un’opera tutto sommato gradevole, a condizione di considerarla come un superficiale
feuilleton. Poteva invece essere l’occasione per realizzare una più profonda
riflessione sui ruoli e le convenzioni sociali e sentimentali d’inizio
Novecento.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 3 ottobre 2014)
Oh Boy – Un caffè a Berlino
di Jan Ole Gerster
con Tom
Schilling, Friedrike Kempter, Marc Hosemann
Commedia, 83 min., Germania, 2012
Niko
Fischer è un giovane cui la vita sembra aver riservato un bello scherzetto: per
ventiquattro ore sarà moderno Paperino – viene lasciato dalla fidanzata, il
bancomat gli trattiene la carta, gli ritirano la patente,... – alla ricerca di
se stesso e di un caffè. Abbiamo incontrato un film tematicamente molto simile
proprio quest’anno: A proposito di Davis
(Inside Llewin Davis, 2013). Tuttavia,
mentre il film dei fratelli Coen si è dimostrato maturo sotto tutti i punti di
vista, in quest’opera si può riscontrare qualche ingenuità tecnica (errori di
messa a fuoco e di cambio d’inquadratura, ma lascio a voi il divertimento della
caccia alle imprecisioni) e qualche piccolo buco narrativo. Il bilancio finale
è positivo sotto il profilo dell’intrattenimento meno sotto quello del
risultato finale, perché non riusciamo a capire fino in fondo l’obiettivo, il tema
forte che tiene insieme il tutto. Questa crisi d’identità ambientata in una
Berlino in bianco e nero a conti fatti non risulta funzionale ad una metafora
sulla crisi d’identità della Germania contemporanea, discorso che poteva valere
pre o post Muro di Berlino ma non ora, in un periodo in cui la Germania detta
legge se non a livello mondiale almeno a livello europeo. Potrebbe allora
semplicemente trattarsi della crisi d’identità di un ragazzo, Niko, ma anche in
questo caso non si riesce a capire la scelta di affidare una lunga sequenza (forse
la più lunga, posta in posizione enfatica nella narrazione, ovvero a tre
quarti) all’incontro del protagonista con un anziano che rievoca la notte dei
cristalli: se questa fosse da interpretare come una riflessione sul senso di
responsabilità che effettivamente Niko deve ritrovare, la tematica risulterebbe
comunque fin troppo greve.
Voto: 3 su 5
(Film visionato l’8 agosto 2014)
Stop the Pounding Heart
di Roberto Minervini
con Sara
Carlson, Colby Trichell, Tim Carlson, LeeAnne Carlson, Katarina Carlson
Drammatico, 98 min., Italia, 2013
Capitolo conclusivo della trilogia sul Texas,
Stop the Pounding Heart è passato quasi
del tutto inosservato ma ha raccolto consensi a Cannes e al Festival di Torino
vincendo il Premio della Giuria nella sezione Internazionale.doc. È la storia
di Sara, giovane ragazza austera di famiglia cristianissima e numerosa che consacra
le sue giornate ai precetti della Bibbia, i lavori manuali e la custodia delle
sue sorelle. Sarà l’incontro con Colby, giovane cowboy e coraggioso bull ryder, a far nascere in lei pulsioni
fino ad allora inascoltate. Attraverso una storia minimale dagli interrogativi esistenziali,
ci viene restituito un dirompente affresco della realtà statunitense più
nascosta e per questo più vera, in quella porzione di America rurale, qui coincidente
con la periferia di Houston (Texas), dove le vite sono scandite da
patriottismo, religione e tradizioni. La Natura, che tradisce un valore quasi thoreauiano,
fa da sfondo ai riti d’iniziazione di giovani e adulti: il rodeo, le grigliate,
il tiro al bersaglio. È nella ricerca di sé stessa che la protagonista compie
un percorso di crescita silenzioso ma dirompente, cadenzato da una tecnica di
ripresa che, mescolando richiami alle cifre stilistiche dei fratelli Dardenne
(l’attenzione per la protagonista) e di Terrence Malick (il rapporto
natura/personaggio), ci spinge ad una necessaria riflessione su una nuova forma
di “cinema vérité” o “cinema diretto” che si propone come reazione alla crisi
di contenuti che ormai attanaglia il cinema. L’operazione non è del tutto
riuscita (è ormai evidente che rarefazione della narrazione e intrattenimento
non vanno del tutto a braccetto) ma l’ottima tecnica e la qualità delle idee
messe in campo ci fanno apprezzare l’opera e ci riempiono di speranza per il
futuro di un regista italiano che è riuscito a superare nettamente i risultati
dei suoi connazionali più conosciuti (su tutti, per affinità tematiche, Le meraviglie di Alice Rohrwacher).
Voto:
4 su 5
(Film visionato il 31 luglio 2014)
Le meraviglie
di Alice Rohrwacher
con Alba Rohrwacher, Sam Louwyck, Sabine Timoteo, Maria Alexandra Lungu, Monica Bellucci
Drammatico, 110 min., Italia, Svizzera, Germania, 2014
C’è poesia, è innegabile, e lo spettatore si affeziona senza fatica ai personaggi. Ma la storia, comunque interessante, è esile, talvolta fin troppo irreale (affidarsi a sceneggiatori sembra ormai una bestemmia), e risente dei continui inserimenti di situazioni spiazzanti o tributi palesi a neorealismo o pellicole celeberrime e tematicamente affini (su tutte Amarcord e le sue riflessioni sulla “vita di paese”). Ci affezioniamo sopra tutti a Gelsomina, che ricorda l’adolescenza da primogeniti responsabilizzati che devono badare ai propri fratelli, talvolta ai propri genitori. L’unico momento di svago è costituito da un balletto realizzato dalla sorella più piccola, di nascosto dai genitori fricchettoni, sulle note di T’appartengo di angioliniana memoria e l’iscrizione ad un concorso televisivo che potrebbe risollevare le sorti dell’economia famigliare, che sta in piedi grazie alla produzione e vendita di miele e ortaggi. In continuità con la tradizione cinematografica europea l’adolescenza viene presentata come un momento difficile, periglioso, serio. Serietà enfatizzata dalla tecnica di ripresa, sì sciatta e irregolare ma ad onor del vero sempre funzionale alla narrazione. Non si sa se interpretare il finale come una metafora o come una dichiarazione d’esonero responsabilità.
Voto: 3 su 5
(Film visionato l’11 giugno 2014)
Maps To The Stars
di David Cronenberg
con Julianne Moore, John Cusack, Mia Wasikowska, Robert Pattinson
Drammatico, 111 min., USA, Canada, Francia, Germania, 2014
L’esclusione, la deformazione, gli eccessi, la devianza. Tematiche care al regista che ritroviamo in questa sua ultima opera. Ma, per favore, che non si tiri in ballo Altman né tantomeno Mulholland Drive (David Lynch, 2001) o The Canyons (Paul Schrader, 2013). Se proprio di similitudine si deve parlare, allora si citi The Informers (Gregor Jordan, 2009), trasposizione di una raccolta di racconti di Bret Easton Ellis che, distribuita solo per il mercato home video, si distingue per stile piatto e sviluppo di un crocevia di storie sfocianti in un finale tanto eccessivo quanto sconclusionato. Caratteristiche anche di quest’ultimo film di Cronenberg, che sfrutta toni algidi per mettere in scena una storia sì interessante ma più nelle ambientazioni che nelle vicende di personaggi che incarnano la solita critica al jet-set hollywoodiano (c’è una lunga filmografia a riguardo con un capostipite, Sunset Boulevard di Billy Wilder, che risale al 1950!). Interessante e ben sfruttato l’espediente dei fantasmi che tormentano i vivi, ma non basta a rendere memorabile una storia a conti fatti già vista.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 28 maggio 2014)
Locke
di Steven Knight
con Tom Hardy
Drammatico, 85 min.,
GB, USA, 2013
Ivan Locke (Hardy) è un capo cantiere. Finita la sua giornata
lavorativa entra in macchina e riceve una telefonata da una donna di nome
Bethan. Decide di raggiungerla a Londra. Durante il viaggio in macchina veniamo
a sapere che la sua decisione rischia di distruggere per sempre la sua vita
famigliare e lavorativa. Siamo andati al cinema pieni di aspettative. Un film
scritto e diretto dallo sceneggiatore della Promessa
dell’assassino (Eastern Promises,
David Cronenberg, 2007), ambientato tutto all’interno dell’abitacolo di un’auto
in cui il protagonista, attraverso una ragnatela di telefonate in vivavoce,
distrugge la sua vita. Siamo usciti un po’ delusi. Certamente non sarebbe
corretto omettere che il film è tutto sommato gradevole e mosso da buoni
proponimenti. Ma il meccanismo narrativo architettato non ha dimostrato tutta
quella dirompenza trovata, ad esempio, in Buried
(Rodrigo Cortés, 2010). Innanzitutto le motivazioni che spingono il
protagonista a prendere scomode decisioni vengono esplicitate sin da subito,
attenuando completamente l’effetto di qualsiasi successivo colpo di scena. Così
come viene quasi subito svelato il rapporto conflittuale che lega il
protagonista al ricordo del padre (reso con un artificio fin troppo scontato e
banale). Protagonista caratterizzato in modo abbastanza efficace ma poco
credibile nelle reazioni e nelle relazioni che lo legano ai colleghi, alla
moglie e ai figli. Probabilmente il film, totalmente basato sulle parole, perde
troppo per colpa di un doppiaggio scriteriato: i discorsi bambineschi dei figli
stridono con le loro voci da adolescenti; una donna matura ha una voce da ventenne;
il protagonista sembra non tradire emozioni, forse colpa del raffreddore?
Considerando una regia praticamente inesistente possiamo dire che, nonostante
la rilevanza dei temi trattati, la vera star del film si rivela la BMW:
stabile, confortevole e con un impianto vivavoce da paura.
Voto: 2 su 5
(Film
visionato l’1 maggio 2014)
Nymphomaniac (vol. I e II)
di Lars von Trier
con Charlotte
Gainsbourg, Stacy Martin, Stellan Skarsgård, Christian Slater, Uma Thurman,
Shia LaBeouf
Drammatico, 240 min., Danimarca, Germania, UK, Belgio, 2013
Joe (Gainsbourg)
è una cinquantenne che viene trovata da Saligman (Skarsgård) in un vicolo,
tumefatta. L’uomo le offre ospitalità. Lei gli racconta la propria vita di
ninfomane a partire dall’infanzia. È sempre meglio aspettare di avere la
visione d’insieme prima di dare un giudizio su un’opera divisa in due parti. Ci
si aspetta che i temi rimasti in sospeso nella prima parte trovino un senso
alla luce degli eventi del secondo capitolo e che le conclusioni finali siano
il frutto di un percorso che si fa forte di premesse convincenti. In
Nymphomaniac rimane tutto troppo irrisolto. Ogni capitolo in cui è organizzata
la narrazione cerca di farsi forte del rapporto antitetico tra i due protagonisti,
contrapposti come il diavolo e l’acqua santa: da una parte Joe, la narratrice ninfomane;
dall’altra Saligman, l’uditore colto che interviene con parallelismi tra ciò
che ascolta e ciò che ha letto e studiato (si va dal cristianesimo bizantino
alla storia romana per arrivare a… Freud, non l’avremmo mai detto). Uno
stratagemma che il regista utilizza per dare libero sfogo alle proprie fantasie
sessuali, che cerca di nobilitare affiancandole ad una galleria di simmetrici
riferimenti culturali (troppo spesso forzati). Il frutto di questa operazione è
un film a conti fatti gradevole per merito di una comunque ottima tecnica
registica, che però a livello contenutistico risente della mancanza di un
adeguato approfondimento critico. Gli spunti interessanti infatti non mancano,
ma i discorsi ad essi collegati vengono spesso lasciati a metà. Ad esempio,
nella prima parte von Trier ha avuto l’occasione di sviscerare un tabù, ovvero di
trattare i rapporti di forza che intercorrono tra il sesso femminile e quello
maschile. Avrebbe potuto dare una propria interpretazione all’interdipendenza
tra i sessi, scovandone le ragioni e smascherandone le ipocrisie. Non l’ha
fatto. Del resto, mi faceva notare un mio amico, per aver detto la verità sulla
differenza tra uomo e donna Tiresia venne accecato. Von Trier non ha voluto
correre il rischio. Ed è anche il caso della confusione, condita da un finale
disgustosamente banale, che il regista crea nella seconda parte riguardo la
vera natura e i veri proponimenti della protagonista. Dapprima ninfomane
orgogliosa di esserla, Joe si ripromette poco dopo di voler guarire dalla
propria condizione. Come se non bastasse von Trier ne ferma la discesa agli
inferi, fatta da un vortice sempre più profondo di violenza, ma solo per farle
incontrare il mondo della malavita (mancava solo quella). Altra occasione
persa. Se avesse letto di più e meglio, il regista danese avrebbe saputo che
spesso nell’arte la degenerazione sessuale è collegata ad una escalation di
violenza poi sfociata nell’autodistruzione fisica del degenerato. Come
Pasolini, per intenderci. Von Trier ha dichiarato: “Un film dovrebbe essere un
sasso nella scarpa”. Non abbiamo avvertito neanche un granello di polvere.
Voto:
2 ½ su 5
(Film visionato il 5 e il 24 aprile 2014)
Grand Budapest Hotel (The Grand
Budapest Hotel)
di Wes Anderson
con Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Bill
Murray, Edward Norton, Frank Murray Abraham
Commedia, 100 min., USA,
2014
Gustave H (Fiennes) è il concierge del Grand Budapest Hotel, dove oltre
a coordinare magnificamente i suoi sottoposti si intrattiene con le attempate e
facoltose donne ospiti della struttura. Un giorno egli diventa amico di uno dei
suoi collaboratori più giovani, Zero Moustafa (Toni Revolori nella versione
giovane, Frank Murray Abraham in quella adulta), il quale lo segue nelle sue
peripezie fino a diventarne il protetto. Tra le disavventure che i due
protagonisti dovranno superare c’è la battaglia senza quartiere che gli eredi
di una conquista amorosa di Gustave muovono a quest’ultimo, reo di aver rubato
dalla loro magione un quadro d’inestimabile valore. Bisogna ammetterlo, il film principia come meglio non potrebbe. La storia che stiamo per vedere ci viene presentata come la trasposizione di un tipico romanzo
novecentesco, dove l’autore confida nel prologo di aver ascoltato il
racconto che segue direttamente dalla voce di uno dei protagonisti. In un
meccanismo narrativo a scatole cinesi veniamo dunque catapultati dalla Praga
“contemporanea” (quella di chi ha scritto il libro) al Grand Budapest Hotel del
1985 (quando lo scrittore ha ascoltato la storia) e infine all’albergo d’inizio
Novecento, luogo mitico raggiungibile grazie ad una funicolare poiché ubicato
tra i monti che sovrastano la fittizia città termale di Nebelsbad, nello stato
immaginario di Zubrowka, il più orientale d’Europa. Il chiaro riferimento alla cultura e
all’ambientazione mitteleuropea (i
sanatori e i mastodontici alberghi dove l’aristocrazia riposava le proprie
membra traendo benefici dalle acque termali), nonché il periodo storico così definito e
pieno d’implicazioni come la prima parte del XX secolo, ci fanno dunque
intravedere il capolavoro. Auspicio che si consolida quando notiamo i pavimenti
dell’albergo coperti da tappeti Art Nouveau, la cucina con un reparto d’alta
pasticceria creato sul modello della leggendaria bottega viennese Demel ed un
Grand Budapest (inteso come edificio) concepito come mix tra i lavori di Achilles
G.Rizzoli (la facciata) e il Gorlitzer
Warenhaus (gli interni). Ma è
proprio da quest’ultimo pastiche e, in modo ancora più evidente, durante lo
svolgimento della storia, che ci rendiamo conto di come, nonostante abbia
lavorato in Europa e consultato la Collezione di Immagini Fotocromatiche della
Libreria del Congresso, Anderson
non abbia fatto altro che ricostruire un contesto svuotandolo però dei suoi
significati per poi riempirlo col proprio universo visuale. Fin qui tutto
bene, se non fosse che, mettendo da parte per un attimo questa operazione
meramente stilistica, abbiamo
l’amara sorpresa di una storia che regge per la prima metà dell’opera per poi
svanire progressivamente in un’accozzaglia di situazioni e di emozioni già
sfruttate in ogni singolo capitolo della filmografia andersoniana. E
allora passi che in un albergo del genere ogni parola o testo scritto sia in
inglese, che un sicario abbia le fattezze di un vampiro, che le SS diventino ZZ
e che le citazioni da altri film abbondino all’inverosimile (su tutte la scena
hitchcockiana della funivia). Rimane però pur sempre il fatto che da un regista
quarantaquattrenne con una cifra stilistica riconoscibile e di successo ci saremmo aspettati una decisiva
evoluzione contenutistica. Occasione sprecata.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 10 aprile 2014)
Dallas Buyers Club
di Jean-Marc Vallée
con Matthew McConaughey,
Jared Leto, Jennifer Garner, Steve Zahn
Drammatico, 117 min., USA, 2013
Texas,
seconda metà degli anni Ottanta. Ron Woodroof (McConaughey), che lavora come
elettricista nei pozzi petroliferi, conduce una vita sregolata. Ama l’alcol, la
droga, il gioco d’azzardo e le donne. Proprio da una prostituta contrae l’HIV
ed i dottori, dopo avergli diagnosticato l’AIDS in fase avanzata, gli danno
trenta giorni di vita. In un primo momento la sua reazione è incontrollata. Per
non sentire il peso degli effetti della malattia, Ron aumenta le dosi di alcol
e di droga ma così facendo finisce con il peggiorare il suo quadro clinico.
Comincia allora a procurarsi sottobanco l’AZT, un potente antivirale in fase di
sperimentazione. Quando il farmaco viene però messo sotto controllo dai medici
dell’ospedale, Ron decide di recarsi in Messico per procurarsi altro AZT,
finendo invece per conoscere un medico radiato che gli prescrive del Peptide T,
proteina non approvata dal sistema sanitario americano che però lo aiuta a migliorare
la sua situazione. Ron decide così di portare questa sostanza in Texas al fine
di venderla agli altri malati e combattere lo strapotere delle case
farmaceutiche che, a suo parere, stavano lucrando sulle disgrazie di centinaia
di migliaia di persone colpite dalla piaga dell’HIV. Ciò che colpisce di più di
quest’opera è sicuramente la prova immensa di un McConaughey in stato di grazia (già William Friedkin lo
aveva valorizzato con Killer Joe, 2011).
Non c’è un’inquadratura in tutto il film in cui il suo corpo e la sua voce non
rendano perfettamente l’idea di una persona che porta il fardello di un destino
ormai irrimediabilmente segnato. Le guance scavate, la voce flebile e incerta (da
ascoltare solo nella versione in lingua originale), le vene prominenti sulla
fronte e i muscoli di gambe deboli che non riescono a regge il peso di un corpo
svuotato, sono solo le evidenze di un’anima persa che cerca di ritrovarsi in
una battaglia contro i pregiudizi della società (era opinione comune che l’HIV
fosse un problema solo degli omosessuali) e le dinamiche legate al profitto
delle case farmaceutiche. Ma oltre a ciò che rimane strettamente legato alla
performance di chi interpreta il personaggio principale, che trova in Leto
un’ottima spalla grazie alla quale far emergere il suo lato più umano, rimane
poco di una storia che soffre il continuo tira e molla temporale (si saltano mesi
o anni con una semplice schermata nera) e l’approssimazione con cui si indagano
a livello macrotematico le ragioni di una vera e propria piaga sociale.
Condivisibile dunque la scelta dell’Academy di premiare con l’Oscar le prove di
McConaughey, Leto e dei truccatori Adruitha Lee e Robin Mathews, che in fin dei
conti si dimostrano di tutt’altra categoria rispetto ad una sceneggiatura e una
regia tutto sommato didascaliche.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 25 marzo 2014)
Lei (Her)
di Spike Jonze
con Joaquin Phoenix, Amy Adams,
Rooney Mara, Olivia Wilde, Chris Pratt
Drammatico, 126 min., USA, 2013
Theodore,
che si mantiene scrivendo lettere d’amore conto terzi, non riesce a dimenticare
l’ex moglie e vive alla giornata con pochi amici e molte occupazioni digitali.
La sua vita sentimentale sembra giungere ad una svolta quando installa sul
computer di casa un nuovo sistema operativo che comincia a relazionarsi con lui
in maniera simbiotica. Sin dagli esordi Jonze ci aveva abituato, più che alla
maestria tecnica, alle trame coraggiose, futuristiche e spiazzanti. Essere John Malkovich (1999) aveva
chiuso il XX secolo presentando un personaggio che attraverso un passaggio
segreto riusciva ad entrare nella mente dell’attore che dà il titolo al film. Il ladro di orchidee (2002) ci aveva
spiazzati presentandoci una storia che si sviluppava step-by-step grazie allo
sceneggiatore/protagonista (anzi, gli sceneggiatori/protagonisti). Con
quest’ultimo film il regista approda invece ad un risultato che valorizza più
la forma del contenuto. Le inquadrature si fanno più ricercate e i movimenti di
macchina fluidi, la fotografia punta alla nitidezza e i colori si stagliano puliti
e pieni, le ambientazioni si fanno glamour. Una maggiore attenzione all’aspetto
tecnico cui segue una storia più interessante nelle attese che non negli
effettivi sviluppi. Già la scelta di ambientare il film in un prossimo futuro (non
poi così diverso dal presente) si rivela un espediente fin troppo facile per
giustificare situazioni altrimenti inverosimili. Come quella attorno alla quale
ruota tutta l’opera: il protagonista si rapporta sempre più intimamente con un
sistema operativo dalla voce femminile (a pensarci bene, un po’ come quando si
setta il TomTom) fino a presentare quest’ultimo agli amici come fidanzata (e senza
neanche provocare critiche o risolini). Da questo rapporto prende le mosse la
principale domanda cui Jonze cerca di dare risposta: come può evolvere la vita
di un uomo che costruisce un rapporto esclusivo con la sua macchina,
inevitabilmente plasmata a propria immagine e somiglianza? La riflessione che
ne consegue, e che coincide con lo svolgimento del film, è una sorta di monito
nei confronti della società contemporanea, che preferisce sempre più rifugiarsi
e isolarsi negli ultimi ritrovati tecnici invece di mettersi in gioco nel campo
dei sentimenti. Una constatazione che, a fronte di due ore di film, risulta
essere un po’ troppo striminzita, soprattutto se si aggiunge che il finale si
può intuire già a metà film e che la materia è stata già ampiamente trattata in
Blade Runner (Ridley Scott, 1982). In
ultima analisi, ci rendiamo conto che l’opera rimane in piedi solo grazie a due
fattori legati tra loro: la facilità di scrittura di Jonze, bravo nel
raccontare l’evoluzione interiore del suo protagonista, nonché l’ennesima eccellente
prova recitativa di Joaquin Phoenix.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 18 marzo 2014)
Saving Mr. Banks
di John Lee Hancock
con Tom Hanks, Emma
Thompson, Ruth Wilson, Colin Farrell, Paul Giamatti
Biografico/Commedia/Drammatico, 126 min., USA/Gran Bretagna/Australia, 2013
La
scrittrice Pamela Lyndon Travers vive in una piccola casa a schiera di Londra e
si trova in ristrettezze economiche. Il suo agente la convince pertanto a
recarsi a Los Angeles per cedere alla Disney i diritti di Mary Poppins, il suo best seller, e collaborare alla realizzazione
della sceneggiatura del film. Appena arrivata nella sua camera d’albergo, la
sessantenne getta dalla finestra le pere del cesto di benvenuto e chiude
nell’armadio tutti i pupazzi che Walt Disney le ha fatto trovare. Oggetti che,
attraverso un continuo gioco di flashback, scopriremo avere la colpa di averle rievocato un’infanzia in cui si cela una grandissima delusione. Delusione
che si ripercuote nel presente rendendo Mrs. Travers alquanto ostica per gli
sceneggiatori che con lei si devono rapportare. Solo grazie ad un autista e a
Walt Disney in persona, che le dimostrerà di aver capito il vero significato
del libro, Pamela riuscirà a superare il suo passato e ad aprirsi in modo da
rendere possibile la realizzazione di una pellicola passata alla storia. J.L. Hancock
(che ricordiamo per The Blind Side,
2009) mette in campo una regia didascalica ma sempre funzionale ad una sceneggiatura
che si prende notevoli libertà rispetto ai fatti realmente accaduti per meglio puntare
sull’empatia promossa da una incessante riflessione sul legame tra genitori e
figli che spesso si sofferma sul rapporto edipico tra padri e figlie femmine. Non
manca certo qualche momento d’alleggerimento che stempera la gravitas del tema trattato e strappa
risate, ma dall’inizio alla fine il film sembra sempre e comunque prigioniero
dell’inquietante avvertimento che ci ricorda come noi siamo, nel bene o nel
male, il prodotto del rapporto che abbiamo avuto coi nostri genitori e il
ricordo che di esso abbiamo. Il messaggio arriva forte, anche grazie ad una
protagonista cui la Thompson conferisce il giusto spessore rendendola credibile
nella sua acidità e diffidenza sempre umana e mai sopra le righe. Buone la
prove di Colin Farrell e Paul Giamatti, figure complementari di padri che intendono
la vita e amano le proprie figlie in modi differenti.
Voto: 3 su 5
(Film
visionato l’11 marzo 2013)
12 anni schiavo (12 Years a Slave)
di Steve McQueen
con
Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul
Giamatti, Brad Pitt
Drammatico 134 min., USA, 2013
Voto: 4 ½ su 5
(Film visionato il 22 febbraio 2014)
Robocop
di José Padilha
con Joel Kinnaman, Gary Oldman, Michael
Keaton, Samuel L. Jackson, Abbie Cornish
Azione, 121 min., USA, 2014
Nel 2028 la
multinazionale OmniCorp, leader nel settore della tecnologia robotica, ha
prodotto e fornito agli USA androidi di pattuglia che garantiscono di vincere e
mantenere l’ordine nei teatri di guerra. Raymond Sellars (Michael Keaton),
leader dell’azienda, fiuta però un’ulteriore possibilità di profitto e cerca,
spinto dal consenso mediatico di cui godono le sue macchine, di estendere il
mercato anche all’uso interno. L’unico ostacolo alla diffusione dei robot sul
suolo nordamericano è rappresentato dall’emendamento sostenuto dal senatore
Hubert Dreyfuss, che non è disposto ad affidare l’ordine a macchine prive di
coscienza. È a questo punto che in Sellars comincia a farsi spazio un’idea per
aggirare il problema: mettere un uomo all’interno della macchina. Era il 1987
quando Paul Verhoeven, alla sua prima prova hollywoodiana, portava sullo
schermo le gesta di un agente di Detroit che, ucciso da alcuni malviventi,
veniva trasformato in un cyborg al servizio della polizia. La sua memoria
prendeva tuttavia il sopravvento sul corpo robotico e lo portava a vendicarsi
senza pietà. Sono passati quasi trent’anni e José Padilha, anch’egli alla sua
prima prova hollywoodiana dopo il successo dei due adrenalinici capitoli di Tropa de Elite, ha il difficile compito
di attualizzare un film già entrato nella storia. Facilitato a livello tecnico
da un budget da 100 milioni di dollari che gli permette di sfruttare effetti
speciali spintissimi e armamenti avveniristici, è a livello tematico/contenutistico
che il regista e i suoi sceneggiatori (Nick Schenk, James Vanderbilt, Joshua
Zetumer) hanno deciso di giocarsi il tutto per tutto, finendo però con il
(sovra)caricare la storia di elementi contestuali. Qualcuno di questi rende la
narrazione indubbiamente interessante, mentre qualcun altro appesantisce il
tutto rendendo ampolloso qualche passaggio di troppo. è il caso degli interrogativi esistenziali che assalgono
l’uomo nella macchina (Joel Kinnaman) e che ci fanno conoscere un Robocop
“esistenzialista” al centro di un cortocircuito tra coscienza/parte umana
(positiva) e irrazionalità/corpo robotico (negativo) che si risolve in una
vendetta non solo nei confronti di chi ha attentato alla sua vita, ma
soprattutto verso chi lo ha sfruttato (la OmniCorp ) per una mera operazione pubblicitaria. Ed
è proprio sull’operazione commerciale della multinazionale che vengono
innestate le considerazioni più interessanti promosse dal film: Robocop viene
utilizzato come un giocattolone che deve mettere d’accordo lo schieramento
politico (presumibilmente democratico) contrario all’utilizzo dei robot ai fini
della sicurezza interna e il mondo industriale globalizzato e un po’
repubblicano che invece vuole lucrare sulla paura. La partita si gioca a
livello mediatico: l’ossessione statunitense per le minacce esterne (“Mai più
un altro Vietnam, mai più un altro Iraq o Afghanistan” dichiara un generale
riguardo i benefici dell’utilizzo dei robot) ed interne (dov’è in tutto il film
la polizia di Detroit?) spinge una parte degli organi d’informazione (guidati
dalla trasmissione d’approfondimento “The Novak Element” di Pat Novak,
interpretato da Samuel L. Jackson) a schierarsi dalla parte della OmniCorp,
intenta a diffondere la cultura del terrore tramite mirate strategie di
marketing e comunicazione. La vicenda esistenziale di Alex Murphy, esile in
quanto circoscritta ai soli rapporti che lo legano alla famiglia e agli
assassini, finisce così con l’amalgamarsi a fatica con macrotemi gravidi di
implicazioni. Tematiche troppo grandi anche per un automa sì invincibile ma ridimensionato
dal suo status di prodotto “Made in China”. Del resto anche la multinazionale
OmniCorp ha dovuto delocalizzare per sfruttare manodopera e componenti
elettronici a basso costo.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 12 febbraio 2014)
A proposito di Davis (Inside Llewyn Devis)
di Joel ed Ethan Coen
con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin
Timberlake, John Goodman
Drammatico, 105 min., USA, 2013
Inverno 1961. Llewyn
Davis è un cantante folk (ispirato in parte alla figura di Dave Van Ronk) che
si sveglia tutte le mattine su un divano diverso e cerca cocciutamente di guadagnarsi
da vivere con la sua musica suonando senza particolare successo in un locale
fumoso del Greenwich Village. Effettivamente di lì a poco sarebbe esploso il
ciclone Bob Dylan. Ma se Dylan otterrà il successo, Davis si dovrà accontentare
di inseguire un gatto rosso che per colpa sua è fuggito dalla casa dell’ultimo
ad avergli dato ospitalità. Stringendo il gatto rosso in una mano e la chitarra
nell’altra, Llewyn farà i conti con la propria vita (le sue precedenti
relazioni gli riservano inaspettate sorprese) e la propria arte (la continua
mancanza di soldi e le porte chiuse in faccia) rimanendo solo, sul palco come
nella vita. Attraverso la parabola di Llewyn, i fratelli Coen sviluppano
ulteriormente le tematiche trattate in A
Serious Man, ovvero la figura dell’ebreo errante in relazione ai temi della
scelta e della solitudine. Proprio per enfatizzare quest’ultimo aspetto, gli
autori ricorrono a due artifici. Uno tecnico, l’altro narrativo. Nel primo caso
dobbiamo menzionare la fotografia di Bruno Delbonnel (recentemente apprezzato
nel Faust di Sokurov), che almeno
nelle scene più significative opta per la rarefazione del contesto a favore di
una migliore messa a fuoco della figura del protagonista. Una scelta tecnica
che si accompagna alla costruzione circolare della narrazione, che vede il film
aprirsi e chiudersi sulla stessa scena isolando così al suo interno un momento
emblematico della vita di Llewyn e conferendo ad esso un’atemporalità straniante
che ci rimanda ad opere come Il castello
di Kafka. E proprio come un personaggio kafkiano il protagonista si ritrova a
girare, almeno per una fase della sua vita, quasi “a vuoto”, scontando
sistematicamente la colpa di optare sempre per la strada più semplice, per l’unica
opzione che gli può dare un riscontro immediato. Forse l’incapacità di valutare
le conseguenze delle sue azioni è dovuta allo spaesamento che gli deriva dalla
morte del partner musicale. O forse è la convinzione di essere un grande
musicista che gli impedisce di scendere a compromessi, precludendosi la
possibilità di partecipare a lavori meno artistici ma sicuramente più
redditizi. Con quest’opera i Coen ribadiscono che è inutile cercare risposte: l’imperscrutabilità
di ciò che ci riserva il futuro è totale e provoca vertigine, perché non c’è
scelta giusta o sbagliata nel presente se non quella presa con la convinzione
che possa avere le conseguenze a noi più favorevoli.
Voto: 4 su 5
(Film
visionato l’8 febbraio 2014)
The Wolf of Wall Street
di Martin Scorsese
con Leonardo
DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Jean Dujardin
Biografico, 179 min., USA, 2013
E’ il 1987 quando Jordan Belfort decide di
iniziare la carriera da broker a Wall Street ma al termine del praticantato,
proprio nel primo giorno di lavoro dopo aver ottenuto la licenza da broker, si
verifica quello che è passato alla storia come il “lunedì nero” delle borse.
Jordan rimane pertanto senza lavoro e, incoraggiato dalla moglie, ripiega su un
modestissimo call center che si occupa della vendita di azioni poco quotate
(penny stock) ma assicuranti un 50% delle commissioni al curatore. Grazie al
suo approccio aggressivo e agli insegnamenti maturati nella precedente
esperienza, Jordan inizia un’inarrestabile cavalcata fatta di truffe ai piccoli
risparmiatori che gli faranno guadagnare montagne di denaro subito impiegato in
prostitute, oggetti di lusso e (soprattutto) droghe. All’inizio del XX secolo
l’impresario dei Balletti Russi Sergej Diaghilev soleva ripetere “Sorprendimi!”
ad un giovane Jean Cocteau che chiedeva consiglio su come diventare famoso. Scorsese
famoso lo è, ma sembra essersi scordato il valore che hanno per il pubblico la
novità e i colpi di scena. Certo, la
sceneggiatura è perfetta, la regia ineccepibile come la recitazione degli attori
principali (la ricostruzione del “sapore” di un’epoca un po’meno) e non mancano di certo scene spassose
che, collocate al posto giusto nello svolgimento dei fatti, rendono leggere le
tre ore di film contribuendo a conferire al tutto un’aura quasi epica. Ma in tutta l’opera si avverte che qualcosa
manca e quel qualcosa è riconducibile alla prevedibilità della storia e alla staticità della figura del
protagonista. Un personaggio che non fa
mai scattare in noi il meccanismo dell’identificazione, vuoi perché sembra così
poco scosso da dubbi morali da farne quasi un personaggio “robotico” (così
diverso dal Bud Fox di Wall Street),
vuoi perché sin da subito si avverte che Belfort rimarrà un piccolo parassita
che si accontenta di operare nella nicchia lasciata inesplorata dalla finanza che
conta per avere l’illusione di aver vissuto il suo giorno da leone. E quel che
è peggio è che non ci esaltiamo neppure
in occasione delle scene corali (festini e orge) dal sapore tribale, un po’
perché sappiamo già cosa aspettarci,
un po’ perché basta bazzicare qualche volta Dagospia o un romanzo di Bret
Easton Ellis per vederne o leggerne di migliori. Quello che prevale è invece un
senso di malinconia che ci accompagna
durante tutta la visione perché abbiamo la riprova di come la stagione del
disgusto nei confronti dei comportamenti sopra le righe sia definitivamente
finita e perché sappiamo ormai che di personaggi così ce ne sono sempre stati
in tutte le epoche e in tutti gli angoli della terra. Magari poteva essere
l’occasione per vedere un film senza alcun intento moralistico, con un personaggio
totalmente “perduto” al centro della scena. E invece, a cadenze quasi regolari,
Scorsese dissemina la sua opera di “grilli parlanti” (la prima moglie, il padre
e l’avvocato) che ricordano profeticamente a DiCarpio/Belfort come non si possa
vivere un’intera vita sopra le proprie possibilità. A noi sarebbe piaciuto
credere, almeno per le tre ore di durata del film, il contrario.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 25 gennaio 2014)
C’era una volta a New York (The
Immigrant)
di James Gray
con Marion Cottilard, Joaquin Phoenix, Jeremy
Renner, Elena Solovey
Drammatico, 120 min., USA, 2013
1920. Ewa (Marion
Cotillard) e Magda Cybulsky partono dalla natia Polonia per raggiungere gli zii
che si sono stabiliti negli USA. Quando arrivano ad Ellis Island, i dottori
scoprono che Magda è affetta da tubercolosi e per questo la trattengono
mettendola in quarantena. Ewa, invece, viene bollata come donna di “dubbia
moralità” per un episodio accaduto sulla nave. Troverà sul suo cammino Bruno
(Joaquin Phoenix), protettore e uomo di spettacolo, che grazie al suo denaro e
alle sue conoscenze riuscirà a darle una possibilità di salvezza. Ewa dovrà
scendere a compromessi con il mondo di Bruno per pagare le cure mediche alla
sorella nella flebile speranza di un futuro migliore. Se fosse un’opera
letteraria questo film sarebbe un romanzo del XIX secolo. Uno di quei romanzi dove
la storia è tutto e dove nella storia c’è tutto. Qualcuno, per descriverlo, ha
azzardato il termine “melò” ed effettivamente ci troviamo di fronte ad un’opera
dall’impianto narrativo classico (sia a livello di tematiche che a livello di
trattazione) dove ci sono colpi di scena e situazioni al limite. Ma il
melodramma cinematografico viene qui attualizzato grazie al portato
contenutistico dell’opera, per un risultato assolutamente affascinante. La
trama romanzesca, insieme all’eleganza e all’intensità delle immagini, ci
riportano al cinema più bello di Max Ophuls, non più di moda, certo, ma da
sempre punto di riferimento per i suoi perfetti movimenti di macchina e per il
senso della composizione. Come il maestro tedesco, James Gray dirige
stupendamente (bellissimi anche la ricostruzione della New York d’inizio
secolo, i costumi e la fotografia di Darius Khondji) una storia d’altri tempi
scritta a quattro mani con Ric Menello dove ciò che ci colpisce è la complessità
del tema trattato (il valore della scelta in relazione al momento e al
contesto) e la caratterizzazione emotiva dei protagonisti. La Cotillard dà vita ad
un’immagine di donna granitica, pronta a superare ogni difficile prova che la
vita le riserva, anche la più umiliante, pur di salvare la sorella (la sua
famiglia) ancora prima che se stessa. Per sopravvivere dovrà per prima cosa
scendere a compromessi, sporcarsi il corpo e l’anima, trovando sempre comunque la
forza di rimanere coerente ed intellettualmente libera (dalle convenzioni e
dalle figure maschili). Questo ne fa un personaggio complesso, quasi
tolstoiano, che si impone come emblema di un’emancipazione femminile ante
litteram raggiunta grazie alla forza di adattamento alle situazioni senza
cedimenti a livello valoriale. Da parte sua, Phoenix conferma di essere il
miglior attore hollywoodiano (e forse mondiale) attualmente in attività, dando incredibile
spessore alla figura di un ebreo che vive di espedienti fin da ragazzo e che, per
questo, sa come destreggiarsi nello spietato mondo della New York d’inizio
secolo. A differenza della sua controparte femminile, il suo personaggio ha
imparato a non conoscere imbarazzi per raggiungere i propri scopi ma sarà
anch’esso protagonista di una crescita spirituale che culminerà nell’estremo
peccato (l’omicidio) e nella ricerca della redenzione. Un percorso inverso a
quello di Ewa, dunque, ma che si rivelerà complementare: se per salvarsi Ewa si
è dovuta perdere attraverso Bruno, quest’ultimo si è invece potuto ritrovare solo
grazie alla presenza di Ewa. La doppia maturazione, parallela durante lo
svolgimento dei fatti, troverà un punto di incontro, per quanto solo
momentaneo, in occasione dello splendido monologo finale di Bruno, culminante
in uno split screen che ci ricorda il valore salvifico del sacrificio.
Voto: 4
su 5
(Film visionato il 22 gennaio 2014)
Nebraska
di Alexander Payne
con Bruce Dern, Will Forte, June
Squibb, Bob Odenkirk
Drammatico, 115 min., USA, 2013
L’anziano Woody Grant è
convinto di aver vinto un milione di dollari e per questo si avvia a piedi
dalle strade del Montana in direzione Lincoln, Nebraska, per ritirare il suo
premio. Recuperato dalla polizia, viene riaccompagnato a casa dove lo aspettano
i rimproveri della moglie e dei figli. Il minore, però, decide di assecondare
il desiderio paterno anche per allontanarsi per un po’ da una vita
insoddisfacente. Inizia così un viaggio “padre e figlio” intervallato da
qualche decisiva sosta, come quella dai parenti del paese natale di Woody. Dopo
le buone prove di Paradiso Amaro e A proposito di Schmidt, Alexander Payne ha partorito la sua
migliore opera riuscendo a sfruttare al massimo le potenzialità di una sceneggiatura di Bob Nelson che si
distingue per completezza e senso della misura, nonché (elemento ancora più
importante per il Cinema) per la capacità di tratteggiare i personaggi
attraverso le situazioni di cui sono protagonisti. Ne è uscita una pellicola
dall’atmosfera unica, insieme
delicata e straniante, perfetta per mettere in scena un viaggio on the road atipico dove le soste non
mancano e sono lo spunto perfetto per indagare
più da vicino gli aspetti tragicomici della vita, per una riflessione
sull’esistenza davvero profonda e a trecentosessanta gradi. Un risultato che il
regista raggiunge anche grazie alla sua maestria tecnica, che lo spinge ad optare
per un bianco e nero funzionalissimo
alla narrazione e ad una continua ricerca dell’immagine perfetta che talora
enfatizzano la bellezza o la malinconia dei luoghi e delle situazioni, talora
accentuano gli esiti comici di scene memorabili come quelle della ricerca della
dentiera, del furto del compressore o della partita in tv. Certo, può capitare
che durante la visione la nostra mente corra a cercare punti di contatto con Una storia vera di David Lynch, ma
l’esito di Payne, che riesce nel difficilissimo intento di non cadere mai negli
eccessi del retorico e del già visto (a parte il comportamento sopra le righe
di Kate, moglie di Woody), ha comunque tutte le caratteristiche per presentarsi
come un unicum nel panorama
cinematografico contemporaneo. E dopo Paradiso
amaro, in cui il regista ci dimostrava che la vita è come una corsa in
mocassini su una strada bagnata, con Nebraska impariamo che non è tanto
importante raggiungere una meta quanto mettersi in viaggio potendo contare
su coloro che ti amano per quello che sei.
Voto: 5 su 5
(Film visionato il 19
gennaio 2014)
The Counselor
di Ridley Scott
con Michael Fassbender, Brad Pitt, Javier Bardem, Cameron Diaz, Penelope Cruz
Drammatico, 111 min., USA, GB, 2013
Un avvocato (Fassbender) decide di sfruttare i suoi agganci per fare soldi grazie ad un carico di droga sottratto alla malavita. Quest’ultima mette in moto un meccanismo di vendetta che non gli lascerà vie di fuga. L’avvocato capirà così il monito del suo socio in affari (Pitt): “Tu sei il mondo che hai creato. Quando smetti di esistere, anche il mondo che hai creato smetterà di esistere”. Dopo una partenza fracassona, Ridley Scott mette in campo una regia fin troppo didascalica (la tendenza al far vedere a tutti i costi) e a tratti retorica (locali glamour, case con piscina e alberghi a cinque stelle) per mettere in immagini una sceneggiatura di Cormac McCarthy che presenta luci e ombre in egual misura. Tra i punti di forza c’è sicuramente la presenza di una forte morale (cosa ormai rara) nonché la costruzione di una buona storia che parla di una discesa agli inferi (qui ambientata sul confine tra Messico e USA) dove il principale vizio da purgare è l’avidità e dove tutti sono certi che il contrappasso prima o poi li punirà. Benché la storia sia di facile comprensione è tuttavia tortuoso ricostruirne i singoli passaggi e spesso, attraverso i dialoghi, si comprende come l’approccio alla narrazione sia più quello di uno scrittore che non quello di un uomo di cinema. Ogni battuta diventa dunque il pretesto per esporre una massima filosofica o di vita (fortunatamente non ai livelli della stucchevolezza sorrentiniana), con esiti talvolta del tutto inverosimili. Come il boss della droga che cita i versi di Antonio Machado rimarcandone il significato attraverso parafrasi e commento. Riguardo le prove degli attori bisogna rilevare che, nonostante il cast stellare, l’unico veramente nella parte risulta essere Fassbender, sicuramente più verosimile di un Bardem che sembra sempre più il mascherone di un carro allegorico del carnevale di Viareggio (in continuità con quello mostrato in Skyfall), un Pitt poco in forma, una Diaz e una Cruz quasi relegate in secondo piano. Anche per questo la solitudine di Counselor/Fassbender viene accentuata ma il risultato finale, comunque molto gradevole, finisce col risentire di una fastidiosa frizione tra lo stile pop/rock di Scott e il linguaggio esistenzialista di McCarthy (meglio sfruttato dai fratelli Coen in Non è un paese per vecchi).
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 16 gennaio 2014)
American Hustle
di David O. Russell
con Christian Bale, Amy
Adams, Bradley Cooper, Jennifer Lawrence
Drammatico, 138 min., USA, 2013
Irving
Rosenfeld (Bale), truffatore finanziario, viene incastrato insieme alla
socia/amante (Sydney Prosser, interpretata da Amy Adams) da un agente dell’FBI,
Richie DiMaso (Cooper). Quest’ultimo gli offre come via di fuga di partecipare
all’operazione Abscam che, creata dall’FBI verso la fine degli anni settanta, portò
all’arresto di numerosi membri del Congresso degli Stati Uniti d’America. Funziona
tutto alla perfezione in questa settima opera di David O. Russell, sicuramente la
migliore del regista. La sceneggiatura (scritta insieme a Eric Warren Singer) dosa
sapientemente momenti di suspense e di riflessione ad impennate comiche,
riuscendo a tratteggiare alcuni dei personaggi più riusciti degli ultimi anni.
Su tutti spicca Irving Rosenfeld, protagonista memorabile, truffatore dal cuore
d’oro e dal riporto indescrivibile, interpretato da un Bale inarrivabile
ingrassato per l’occasione di 20 kg. Ma la sua prova e il suo personaggio non sarebbero
potuti essere così perfetti senza il giusto spessore degli altri personaggi e
le prove di coloro che li hanno interpretati. Amy Adams, in particolare, riesce
a conferire la giusta consistenza alla figura dell’amante tormentata ma sempre
fedele, nella buona e nella cattiva sorte. Le fa da contraltare la figura di
Jennifer Lawrence, che recita bene il ruolo della moglie superficiale e
opportunista ma senza quella malizia che solo un’attrice più matura avrebbe
potuto restituire. Chiude il giro Bradley Cooper, che film dopo film si sta
confermando uno degli attori statunitensi più interessanti (almeno per il
genere). David O. Russell li dirige come un maestro che non si lascia mai
sfuggire l’orchestra. Grazie alla sua regia sapiente, misurata, impreziosita da
qualche brillante spunto tecnico e da un montaggio che conferisce ritmo al
risultato finale, ci troviamo di fronte ad un film di puro intrattenimento dove
tutto funziona perché “tutto si tiene”. Non è poco.
Voto: 4 su 5
(Film
visionato il 4 gennaio 2013)
Blue Jasmine
di Woody Allen
con Cate
Blanchett, Joy Carlin, Richard Conti, Glen Caspillo
Drammatico, 98 min., USA,
2013
Per critica e pubblico Woody Allen è tornato con questo film ai suoi
livelli d’eccellenza. Non mi sento di affermare il contrario, ma certamente di
ridimensionare certe voci che hanno gridato al capolavoro. C’è chi ha osannato
la recitazione della Blanchett, chi ha lodato le capacità di scrittura di
Allen, chi ha visto nel film una spietata e costruttiva critica alla società
contemporanea e chi, infine, ha riconosciuto nel film qualità che lo farebbero
diventare il migliore della stagione. Non esageriamo. Non ci troviamo di
fronte né all’Allen più in forma né ad un film dalla dirompenza che possa
imporlo come una delle migliori pellicole degli ultimi tempi. L’idea di
fondo è certamente buona, ma sicuramente troppo inflazionata e appesantita da
“colpi di scena” che ci sembrano più concepiti per ingraziarsi il pubblico che
per far fare un salto di qualità alla storia. Come se non bastasse numerosi
sono i cliché usati ed abusati e perciò poco interessanti: la donna che
vuole vivere a tutti i costi al di sopra delle proprie possibilità (economiche
e culturali) e che non si rassegna al fatto di aver perduto tutto per colpa di
un marito truffatore; il marito truffatore e quindi fedifrago impenitente
(conseguenza fin troppo banale); il figlio che dopo aver scoperto i misfatti
del padre decide di cambiare radicalmente vita, dopo un inevitabile periodo di
sbandamento; la sorella sfigata che ha un compagno sfigato e che quando trova
l’uomo che le potrebbe assicurare uno stile di vita migliore tradisce il compagno
sfigato ma poi prende una fregatura e si accorge che il vero amore era quello
del compagno sfigato e allora torna sui suoi passi. Nulla ci spiazza in
questo film che restituisce un Allen effettivamente più vivo, ma non abbastanza
caustico e profondo. In poche parole, ci sorbiamo una storiella
prevedibile, quasi superficiale, all’insegna del già visto e della misoginia.
Oscar alla Blanchett quasi assicurato se si pensa che le interpretazioni di
pazzi ed esauriti piacciono sempre molto a pubblico e addetti ai lavori.
Voto:
2 su 5
(Film visionato il 17 dicembre 2013)
Philomena
di Stephen Frears
con Judi Dench, Steve Coogan, Sophie Kennedy
Clark, Anna Maxwell Martin
Drammatico, 98 min., Gran Bretagna, USA, 2014
Martin
Sixsmith (Coogan), ex giornalista silurato dall’establishment di Blaire, vive
una crisi professionale che sembra non avere fine. Ma, ad un party, un amico lo
fa incontrare con la direttrice di un tabloid e la Vita lo mette in contatto con
Philomena, anziana signora che convive con i demoni di un figlio strappatole
dalle suore in giovane età e dato in adozione. L’equazione è presto fatta:
Martin seguirà Philomena nella ricerca del figlio per scrivere un articolo che
potrebbe riabilitarlo professionalmente. Steve Coogan e Jeff Pope, gli
sceneggiatori, sono partiti da fatti
realmente accaduti per dare vita ad una storia avvincente, profonda,
coinvolgente. Storia impreziosita da due principali fattori: la regia asciutta e puntuale di Stephen
Frears e la magistrale interpretazione
di Judi Dench. È soprattutto grazie alla controllata maestria di questi due
artisti che il portato della sceneggiatura viene amplificato a tal punto che
possiamo dire di trovarci di fronte ad un’opera
accessibile e, quel che è più importante, pregna di significati. C’è una riflessione profonda sulla
religione: il fatto di credere nonostante le avversità che la vita riserva e
l’importanza dell’agire nella fede; il ruolo dei religiosi e quello dei fedeli.
C’è anche una grande riflessione sull’imperscrutabilità e la necessaria
accettazione di certi momenti bui della Vita, sul rispetto e le differenze
sociali nella società di ieri e di oggi. Talvolta si rimane un po’ spiazzati
dalla velocità con la quale sono stati sviluppati certi passaggi del film,
soprattutto i momenti di raccordo, ma la qualità di scrittura è talmente buona
che tutto scorre senza intoppi, per un risultato
finale che ormai difficilmente si vede sul grande schermo.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 10 dicembre 2013)
Venere in pelliccia
di Roman Polanski
con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Drammatico, 96 min.,
Francia, Polonia, 2013
L’esperienza si vede quando si fa tanto con poco. Come
quando con poche pennellate Picasso dava vita alle sue opere. Come quando con pochi
dialoghi e scarne descrizioni Carver scriveva uno dei suoi racconti. Come
quando Robert Bresson con qualche sguardo ed esili trame partoriva i suoi
capolavori. Rispetto a questi artisti, Polanski procede per altre forme di
semplificazione e quello che ne esce rimane comunque Cinema, del più bello e
coinvolgente. Egli opera per sottrazione: in Carnage erano quattro personaggi in un appartamento; in Venere in pelliccia sono due persone in
un teatro. Troppo poco? No, il giusto. Anche in quest’ultima opera la base di
partenza è una riuscitissima pièce teatrale, non così originale e dirompente
come quella del film precedente ma sicuramente raffinata e culturalmente
pregna. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non siamo di fronte né
ad un film minimalista né ad una semplice trasposizione dell’opera più
conosciuta di Sacher-Masoch, bensì a un’intelligente rielaborazione di
quest’ultima che mette al centro della riflessione il rapporto tra uomo e
donna, nel presente e nel passato. Ottime le interpretazioni di Amalric e
Seigner, anche se la seconda non risulta sempre nella parte a causa della sua
fisicità sì da Venere ma un po’ attempata e artefatta. Versione italiana
“rovinata” dal doppiaggio.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 31 novembre 2013)
Il passato
di Asghar Farhadi
con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet
Drammatico, 130
min., Francia, 2013
Ahmad (Mosaffa) torna dall’Iran a Parigi richiamato dall’ex
moglie Marie (Bejo) che vuole formalizzare il divorzio. Marie non ha prenotato
una camera d’albergo per l’ex marito, che è dunque costretto a vivere per
qualche giorno sotto lo stesso tetto dell’ex moglie e del nuovo compagno, tra figli
acquisiti e avuti da precedenti matrimoni. Il soggiorno evidenzierà una
situazione tesa, ingarbugliata, dove i rapporti tra i personaggi risultano
fondamentali per lo svolgimento della trama. Farhadi si conferma un
equilibrista della parola. La sua qualità di scrittura, a livello di dialoghi e
di costruzione d’intreccio, riesce a riprodurre i meccanismi più complicati
della vita in società mettendo i personaggi sempre di fronte ad un futuro che
non conoscono e non conosciamo ma che siamo certi riserverà sorprese. Era ciò
che accadeva in Una separazione, dove
la narrazione di una vicenda famigliare dava vita a sviluppi inaspettati come nella
migliore tradizione dei thriller psicologici, ed è ciò che accade nel Passato.
Ma in quest’ultima prova manca parte di quello che avevamo visto nel capitolo
precedente. Là c’era quella sensazione di “sazietà” che solo i film completi
sanno dare. Si partiva dalle vicissitudini di un marito e di una moglie per
arrivare a quelle di una famiglia e approfondire i ruoli dei genitori, dei
figli, dei secondi in relazione ai primi e viceversa. In più c’era la storia
tangente di un’altra famiglia, scaturigine del grande colpo di scena. Il tutto
in un contesto social-politico-religioso particolare: quello iraniano.
Con il Passato cambia l’ambientazione ma non il punto di partenza e l’idea di
fondo. Siamo sempre nella contemporaneità, ma a Parigi. Anche qui si comincia
dal rapporto tra due ex coniugi per poi allargare il cono visuale ai parenti
che gravitano loro intorno. Qui però ci
accorgiamo troppo presto che anche in questo caso ci sarà un colpo di scena e già
sappiamo quali saranno le reazioni dei personaggi, non così definiti come
nell’opera precedente. Certo, i torti tra questi ultimi sono egregiamente
distribuiti e ogni dialogo è
assolutamente coerente con il titolo. Ma ci si mette un finale fin troppo retorico
a convincerci che il nostro ultimo giudizio deve essere un po’ ridimensionato.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 23 novembre 2013)
The
Canyons
di Paul Schrader
con Lindsay Lohan,
James Deen, Nolan Gerard Funk, Tenille Houston
Thriller, 99 min., USA, 2013
Prima
di cominciare con l’analisi del film è bene ricordare una cosa: il film è stato
realizzato con soli 250mila dollari.
Non 25milioni (costo di un film hollywoodiano di fascia medio-bassa). Solo una
combinazione di talento e spregiudicatezza può sopperire a una tale mancanza di
risorse. Diretto da Paul Schrader e
sceneggiato da Bret Easton Ellis (i
nomi dicono tutto, chi non li conosce si informi), il film è un ritratto cinico
e spietato della società contemporanea. Per essere più precisi, The Canyons è un documento socio-antropoligico dalle connotazioni catartiche
(secondo l’accezione aristotelica applicata alla tragedia greca). La narrazione
è acida e iperrealistica, i personaggi incarnano il “lato oscuro” della società
che tendiamo ad escludere dal nostro cono ottico benché sia ben vivo e
presente, forse più della sua controparte sana. I luoghi (le immagini dei
cinema abbandonati, gli interni freddi, i campi lunghissimi con le ville
solitarie delle colline di Hollywood) accentuano il senso di isolamento di una vita che è sempre più connessa
virtualmente a quella degli altri ma mai così distante. Non è un caso che i
personaggi le cui vicissitudini innervano la pellicola ci vengono presentati attorno
ad un tavolo in un locale dove vengono serviti cocktail tutti uguali mentre
comunicano tra loro a monosillabi perché incollati ai propri smartphone touchscreen.
Una vera a propria dipendenza dalle
nuove tecnologie che per la prima volta si fa costante all’interno di una narrazione
cinematografica andando quasi a scalzare altre “debolezze” come alcol, droga e
pornografia. Elementi comunque presenti in una storia di ricatti (economici e sessuali), giochi di potere, omicidi e
bugie che finisce per mettere a nudo le contraddizioni proprie della nostra
società, ma in modo inconsueto. Nel senso che qui non ci sono buonismi né filtri, per un risultato che ci fa
percepire la totale indipendenza del processo creativo da qualsiasi regola
della macchina produttiva hollywoodiana. Ciò non vuol dire che il percorso non abbia
presentato ostacoli. Sono risapute le difficoltà con le quali Schrader e Ellis
hanno dovuto fare i conti, non ultimo il budget ridottissimo che li ha
obbligati ad affidare le parti principali a due outsider. Ma, in fin dei conti,
il valore aggiunto dell’opera, nonché lungimirante operazione pubblicitaria, è
proprio rappresentato dal fatto che James
Deen e Lindsay Lohan si rivelano inaspettatamente perfetti, sempre nella parte.
Il primo con la sua faccia da bravo ragazzo, che accentua l’atrocità dei
ricatti e degli abusi che il suo personaggio perpetra. La seconda con la sua
fisicità che svela definitivamente, sul doppio piano della realtà e della
finzione cinematografica, come divismo e popolarità (amplificati a dismisura da
internet e social network) abbiano definitivamente sostituito qualsiasi
oggettivo valore culturale, etico ed estetico.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il
16 novembre 2013)
La vita di Adele
di Abdel Kechiche
con Léa
Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Jeremie Laheurte, Catherine Salée
Drammatico, 179
min., Francia, 2013
La protagonista è lei, Adele (Adèle Exarchopoulos). La
telecamera è fissa sul suo volto, sul suo corpo. Già dalle prime inquadrature
l’attenzione si concentra sulla bocca, sulle labbra aperte e carnose, i denti
perfetti e imperfetti allo stesso tempo (bianchi candidi ma con gli incisivi un
po’ pronunciati), gli zigomi rotondi e lisci, gli occhi nocciola. Kechiche si sofferma poi sul suo corpo liscio, sodo, giovane. La narrazione diventa quindi un tutt’uno con il personaggio.
Importa solo cosa Adele fa, dove va, cosa prova. Lesbica? Bisessuale? Una ragazza
insicura e disorientata? Chi è la protagonista? Non lo sappiamo. Ma non è una
resa. È proprio l’incessante ricerca
della sua essenza che continua a scavarci dentro. Certo, il prezzo che dobbiamo
pagare è alto. Dobbiamo sopportare una trama scontata, qualche imprecisione
narrativa di troppo, scene di sesso spinte sin quasi al ridicolo, scelte
registiche alquanto discutibili: situazioni e personaggi inverosimili
(soprattutto nel finale), il pube depilato che rende Adele ancora più “bambina”,
il continuo indugiare del regista sulla bocca schiusa, le gambe aperte ed il
sedere mentre dorme a pancia in già. Kechiche
sa come sfruttare a vantaggio suo e della sua opera i meccanismi del “morboso”:
il voyeurismo delle scene di sesso, il processo d’identificazione con il
personaggio e il suo grande portato di ambiguità (siamo veramente sicuri che si
tratti di una storia lesbica?). È grazie a questo che il regista salva il film.
Perché Adele tocca vette di bellezza che
solo le donne dei dipinti di Francois Boucher erano riuscite ad incarnare.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 30 ottobre 2013)
Anni felici
di Daniele Luchetti
con Kim Rossi Stuart, Micaela
Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo
Drammatico, 100 min., Italia, 2013
Guido
e Serena hanno due figli e vivono nella Roma degli anni Settanta. Lui è un
aspirante artista che cerca di emergere più coi modi da maudit che attraverso
le proprie capacità, lei una casalinga che crede ciecamente nel marito e si
annulla pur di non perderlo. La relaziona comincia ad avere degli alti e bassi
sempre più frequenti quando lui non riesce a sfondare e lei realizza di non
avere una propria personalità. La situazione precipita quando Serena si
allontana dal marito fedifrago e ormai fallito, con figli al seguito, per un
soggiorno in un campeggio femminile marxista dove ha una relazione con la
gallerista del compagno. Al suo ritorno la coppia si sfalda e Guido vive una
fase di depressione che riuscirà ad incanalare in una spinta creativa che lo
riscatterà agli occhi dei critici. Qui il film poteva finire e invece,
attraverso le reazioni dei figli, Luchetti rimarca il fatto che erano “anni
felici ma che nessuno se ne era accorto”. La voce fuori campo di Dario adulto
che introduce gli eventi ci spinge ad immedesimarci in lui, a pensare che
quello che stiamo per vedere è il ricordo della sua infanzia. Effettivamente
l’intento dichiarato del regista era quello di dare vita ad un opera sì romanzata ma dall’impianto
autobiografico. E invece ciò che ne esce non è la ricostruzione di una
situazione famigliare dalla prospettiva di un bambino, quanto una sorta di Scene da un matrimonio “all’italiana” che
si concentra ora sulle reazioni della moglie, ora su quelle del marito, ora su
quelle dei figli. Questa continua
indecisione prospettica (che svuota di pathos la scena più importante del
film), unitamente alla poca distanza del regista dagli eventi narrati, alla
mancanza di soluzioni registiche degne di nota e all’assenza di una storia
sulla famiglia veramente capace di appassionare e di dire qualcosa di più rispetto
a quello che già è stato detto (non basta l’escamotage di una storia lesbica
per attualizzare e rendere accattivante la narrazione) sono elementi che non
permettono al film di decollare, nonostante l’eccellente recitazione di Rossi
Stuart e della Ramazzotti e l’ottima ricostruzione dei costumi e degli interni (tuttavia
si nota la tendenza a chiudere le inquadrature, soprattutto negli esterni, per
evitare di riprendere elementi architettonici contemporanei). Un film dunque poco a fuoco, come le
opere del padre Guido: troppo accademiche
per “rapire” l’attenzione degli spettatori, troppo convenzionali per risultare
memorabili.
Voto: 2 su 5
(Film visionato l’11 ottobre 2013)
Sacro
GRA
di
Gianfranco Rosi
Documentario, 93 min., Italia, 2013
Il Grande
Raccordo Anulare, ovvero la grande autostrada urbana che abbraccia Roma, e chi
attorno ad esso vive ed opera sono i protagonisti di questa pellicola. C’è un
nobile decaduto che vive in un monolocale con la figlia, un paramedico con una
madre affetta da Alzheimer, un nobile che affitta la propria dimora a chi
realizza fotoromanzi, un botanico che combatte per la sopravvivenza delle
palme, un pescatore d’anguille, ragazze immagine che lavorano in un bar,
transessuali, prostitute e clienti. Film o documentario? Realtà o finzione? Svaniscono i confini di genere in quest’opera
che è stata presentata al pubblico come documentario. Ma lo è? Ammettendo che i personaggi siano reali, scovati dal
regista in due anni di peregrinazioni attorno al Sacro GRA, sorge comunque un
dubbio legato al modo in cui l’autore ha deciso di filmare le situazioni. Le inquadrature sono studiate nei minimi
particolari, come pure la disposizione dei personaggi in scena e, talvolta, i
loro dialoghi (si pensi alle riflessioni a voce alta del pescatore su un
articolo di giornale incentrato, guarda caso, sulle anguille che cattura ogni
giorno o alla scena strappalacrime del congedo del paramedico dalla madre
malata). Sotto il punto di vista narrativo il regista decide di operare almeno
tre “giri di valzer”: uno per la presentazione del GRA e di chi lo “abita”, uno
per aiutarci a distinguere tra comparse e protagonisti, l’ultimo per rendere
questi ultimi (i più interessanti?) indimenticabili. L’operazione ha una forza
dirompente limitatamente al primo “giro”. Poi, nonostante ottime scene
impreziosite da memorabili battute di qualche personaggio, diventa ridondante e
si comincia ad avvertire la mancanza di una storia che eviti il calo di
attenzione del già visto e del già sentito. È dunque necessaria una riflessione
sulla decisione della giuria capitanata da Bernardo Bertolucci di premiare
l’opera con il Leone d’Oro dell’ultimo
Festival di Venezia. Questo perché è altamente improbabile che nella
competizione non ci fosse un film di pura fiction avvincente e ben realizzato
che si potesse aggiudicare il riconoscimento. Probabilmente è stata premiata la
novità di un’opera che ibrida i generi, che (s)corre sul confine tra realtà e
finzione valicandolo più e più volte, che ridimensiona con il suo valore
artistico i video caricati in rete che si elevano a vera testimonianza della
realtà. Con quest’opera Rosi ha certamente cercato di rendere epica la presenza
di una periferia che esiste, che è al centro del mondo ma spesso fuori dal
nostro cono ottico. Novità tecnica e contenutistica, dunque. Forse è per questo nuovo linguaggio che l’autore
ha conquistato il gradino più alto del podio.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 2 ottobre 2013)
Bling Ring
di Sofia Coppola
con Katie Chang, Israel Broussard, Emma Watson, Taissa Farmiga
Drammatico, 87 min., USA 2013
Los Angeles. Un gruppo di ragazzi ruba abbigliamento e gioielli dalle case dei Vip per un valore di tre milioni di dollari. Vengono condannati e incarcerati. Il film si presenta come una “Sofia Coppola’s version” dei fatti ricostruiti da un articolo di Nancy Jo Sales pubblicato su Vanity Fair con il titolo evocativo The Suspects Wore Loboutins (I sospetti indossavano Loboutins). Un mockumentary? No. E forse è questo il problema. Perché abbiamo sulla scena una mezza dozzina di ragazzetti (ottima ancora una volta, dopo Noi siamo infinito, Emma Watson) che non conosceremo mai fino in fondo (e questo, in un film di fiction, è peccato mortale). Sapremo solo che hanno tutto e che, nonostante questo, vogliono sentirsi almeno una volta come i Vip che idolatrano. Colpa delle famiglie poco presenti? Sì. Colpa della loro condizione sociale di privilegiati viziati e annoiati? Anche. Colpa dei media che esaltano la vita “al massimo” di Vip indecenti e impenitenti?
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 28 settembre 2013)
The
Grandmaster
di Wong Kar-wai
con Tony Leung, Zhang Ziyi, Cung Le
Biografico, 123
min., Cina, Hong Kong, 2013
La cifra stilistica di Wong Kar-wai è
inconfondibile. Immagini leggermente rallentate costruiscono epiche scene di
raccordo, una storia d’amore che non si risolve innerva la narrazione nobilitandola,
la costruzione dell’inquadratura rasenta la perfezione. Grazie all’abilità del
regista seguiamo qui la storia di Ip Man (interpretato da un bravissimo Tony
Leung), primo maestro dell’arte marziale Wing Chun. Per intenderci, tra i suoi
allievi figurava il giovanissimo Bruce Lee. Il film non segue però la
formazione del suo più celebre allievo, quanto la vita travagliata del maestro,
che fu al centro di una disputa per succedere al maestro Gong Baosen e protagonista
di alterne fortune durante la guerra cino-giapponese che sconvolse il paese ad
inizio Novecento. I giochi di luce, il turbinio controllato dei sentimenti (l’amore,
la morte, la sconfitta) e l’aver scelto come coreografo dei combattimenti Yuen Wo
Ping (che ricordiamo per Matrix e Kill Bill) determinano uno sviluppo della
narrazione che è come una sinfonia. Similitudine avvalorata dal lirismo che il
regista conferisce al cuore della propria opera ancora una volta grazie ad un
brano indimenticabile. In In the Mood for Love era Yumeji’s Theme,
qui è lo Stabat Mater di Stefano Lentini. La musica rimane così nella nostra
mente sottolineando i movimenti perfetti dei combattimenti che sembrano quasi
balletti con il loro occupare gli spazi in maniera perfetta e il loro sfruttare
fino in fondo gli elementi: l’acqua che cade dal cielo, la neve che copre la
terra, il legno che riempie gli edifici. Wong Kar-wai ci insegna che
l’individuo è al centro dello spazio e che nelle arti marziali si fonde col
tutto, perche tutto sente (è l’avvertire lo spostamento d’aria di un pugno sull’abito
che ti permette di parare il colpo). Così è anche l’amore.
Voto: 3 ½ su 5
(Film
visionato il 21 settembre 2013)
Rush
di Ron Howard
con Chris Hemsworth, Daniel Bruhl, Olivia Wilde, Pierfrancesco Favino
Drammatico/Biografico, 123 min., USA, GB, Germania, 2013
Il film concentra l’attenzione sulla rivalità tra l’austriaco Niki Lauda e l’inglese James Hunt, due piloti automobilistici agli antipodi. Il primo, soprannominato “computer” per la sua capacità di sentire ogni centimetro quadrato della monoposto, era razionale e determinato. Il secondo, playboy dedito all’alcol e alle droghe, molto più impulsivo ed emotivo. Furono i protagonisti di uno dei più avvincenti campionati mondiali di Formula 1 che si siano mai visti. La stagione 1976, che si era aperta con un netto predominio dell’austriaco, aveva infatti visto lo stesso essere protagonista di un incidente al Nurburgring che lo ridusse in fin di vita e che permise ad Hunt di recuperare terreno in classifica. Lauda si rimise in gioco a soli 42 giorni dall’incidente centrando un incredibile quarto posto. La stagione si decise all’ultimo Gran Premio, con colpo di scena. Ron Howard porta sullo schermo una sceneggiatura di Peter Morgan (The Queen, Hereafter) che si concentra sull’amicizia umana e rivalità sportiva di due anime “dannate” e diametralmente opposte della storia della Formula 1. Ne esce un film che è puro intrattenimento, dove più di una battuta e inquadratura rimarcano la differenza tra il modo di vivere il mondo delle corse (che diventa metafora della visione della vita) di Lauda e quella del rivale di sempre nonché “amico ritrovato” Hunt. Ci si perde poco nei dettagli, preferendo ricostruire le battaglie in pista con gli effetti speciali e circondando i due protagonisti di personaggi un po’ troppo stereotipati. Ciò che preme a Howard e Morgan è mettere al centro dell’attenzione il rapporto tra i due protagonisti per la ricostruzione di un pathos che nel film, in ultima analisi, è ben presente e che
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 16 settembre 2013 all’Electric Cinema di Portobello Road. Se siete amanti del cinema e vi capita di passare da Londra…)
Effetti collaterali
di Steven Soderbergh
con Jude Law,
Rooney Mara, Catherine Zeta-Jones, Channing Tatum
Thriller, 106 min., USA, 2013
Il Dottor Banks (un ottimo Jude Law), psichiatra di successo, durante un turno
in ospedale visita una paziente che ha tentato il suicidio schiantandosi con
l’auto contro il muro del parcheggio di casa. Colpito dal gesto inconsueto e
dalla giovane età della ragazza la invita a presentarsi nel suo studio, per
individuare e contrastare le cause di un male oscuro che sembra non avere ragion
d’essere. Emily (Rooney Mara), questo il nome della ragazza, è una giovane
sposa che ha appena riabbracciato il marito, uscito di prigione dopo una
reclusione per insider trading. Il Dottor Banks crede ciecamente negli
antidepressivi, pertanto prescrive alla sua paziente medicine sempre più
mirate. Emily si sente meglio, ritrova l’intesa con il marito e con la vita, ma
uno di questi medicinali sembra provocare in lei qualche effetto collaterale di
troppo. Come quello di uccidere il marito e di non ricordarsi più nulla. Subito
il Dottor Banks viene messo sotto processo da corte e colleghi, fino a quando
l’interessato penserà di essere stato incastrato e comincerà ad indagare.
Soderbergh si riconferma un ottimo regista che riesce a mettere in scena trame
profondamente radicate nella contemporaneità senza per questo tradire le
movenze e le regole dei generi cinematografici tradizionali, in questo caso il
thriller psicologico (alla Hitchcock, per intenderci). Qui la contemporaneità è
rappresentata dal contesto in cui si sviluppa l’azione, ovvero gli USA che
accusano il colpo della crisi economica (la moglie di Banks che non riesce a
trovare lavoro, il marito di Emily incarcerato per truffa finanziaria) e il
conseguente abuso di psicofarmaci nella popolazione. Su questo palcoscenico si
consuma il fatto di sangue, determinato dalle storture di questa società incontrollabile
perché perennemente “drogata”. Chi è il vero colpevole? La paziente o la
medicina? Lineare nel suo sviluppo, non privo di colpi di scena, il film ci
fornisce tutte le risposte arrivando ad una conclusione che non ci spiazza ma
ci soddisfa (anche se un po’ ci ricorda Schegge
di paura).
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 9 agosto 2013)
Pacific Rim
di Guillermo del Toro
con Charlie Hunnam, Idris
Elba, Rinko Kikuchi
Fantascienza, 113 min., USA, 2013
Mostri alieni aprono un
varco interdimensionale sul fondo dell’oceano Pacifico e da lì emergono per
conquistare la Terra. La
guerra è senza esclusione di colpi, milioni i morti. Di fronte all’emergenza,
gli Stati del pianeta si coalizzano per contrastare la minaccia una volta per
tutte. Per questo viene varato il progetto Pacific Rim che prevede la
costruzione di enormi robottoni, gli Jaeger, controllati simultaneamente da due
piloti le cui menti sono collegate da una rete neurale. Va dato atto a Travis
Beacham, sceneggiatore, di aver saputo attualizzare sapientemente la tradizione
dei film di Kaiju (Godzilla, per intenderci) per farne qualcosa che potesse permettere
agli effetti speciali di mostrare tutte le loro potenzialità. Ed effettivamente
questi impreziosiscono notevolmente la narrazione, per una miscela d’azione e avventura
che supera di gran lunga quella dei capitoli di Transformers. Peccato che l’entusiasmo
per le idee di Beacham si sia declinato esclusivamente in una buona narrazione
dei combattimenti tra Jaeger e Kaiju, lasciando spazi narrativi colmati con troppa
superficialità: dialoghi abbozzati, storia d’amore stiracchiata, momenti comici
fuori luogo, carrettate di stereotipi (su tutti i russi, coi capelli ossigenati
come l’Ivan Drago di Rocky). Il film procede così proprio come un robottone,
bello a vedersi ma privo d’anima.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 31 luglio
2013)
Vogliamo vivere! - To Be or
Not to Be
di Ernst Lubitsch
con Carole Lombard, Jack Benny, Robert Stack, Felix
Bressart
Commedia, 99 min., USA, 1942
Nell'ufficio di Billy
Wilder campeggiava la scritta "How would Lubitsch have done
it?". Ecco, se non sapete chi sono Wilder e Lubitsch, o se
non avete mai visto almeno un loro film, allora c'è un problema. Un
grossissimo problema. Perchè il primo era bravissimo e si ispirava al secondo, che era un genio. Vogliamo vivere! - To Be or Not to
Be ne è la prova. La pellicola è talmente coinvolgente che sembra di
entrare in un'altra dimensione, dove diventiamo quasi parte
integrante della compagnia di attori polacchi capeggiata da Maria e Josef
Tura (gli straordinari Benny e Lombard) che si rende protagonista
delle più spassose peripezie che si siano mai viste al cinema. Qui, è bene
puntualizzare, non si parla di battute che strappano becere risate, ma di vere
e proprie situazioni comiche perfettamente studiate e calibrate che si
risolvono in uno spasso crescente. Un divertimento puro che il
cinema contemporaneo non è più capace di creare. Se poi si pensa che l'azione
si svolge durante l'occupazione nazista della Polonia (l'opera è del
1942 !) e che gli attori cercano di salvare le proprie vite
"recitando", allora si intuisce che il film è
doppiamente grande, perchè riesce a parlare in modo tangenziale (e
dunque ancora più efficace) del valore salvifico dell'arte. Da mirare
e rimirare.
Voto: 5 su 5
(Film visionato il 30 luglio 2013)
La parte degli angeli
di Ken
Loach
con Roger Allam, John Henshaw, William Ruane, David Goodall
Commedia, 106
min., GB, Francia, Belgio, Italia, 2012
Chapeau! Ancora una volta Ken Loach
vince il premio coerenza con una storia semplice, misurata, sensata, mai
banale. Ci troviamo infatti di fronte ad un'opera che è alla portata
di tutti, emblema di un cinema che vuole ancora veicolare qualche insegnamento
senza piagnistei e/o retorica. Stile asciutto, dunque, che rimarca i
nobilissimi valori perseguiti dal suo autore. E' il cinema degli ultimi,
con le loro vite tragicomiche che esaltano il puro eroismo della
Scelta. In questo caso: come potersi affrancare da una vita
maledetta, avara di soddisfazioni ma piena di violenza? Robbie, cresciuto a pugni
e droga nella periferia di Glasgow, riesce ad avere nella nascita di un figlio
la sua prima e vera ragione di riscatto e non vuole gettare al
vento la possibilità di dare alla compagna Leonie e al suo
primogenito una vita migliore. Come riuscirci? Sfruttando la propria passione
per il whisky, che gli farà conoscere una botte di inestimabile
valore. Ne esce un furto sui generis che mette in luce l'umanità di
Robbie e dei suoi tre simpatici complici che, aiutandosi a vicenda,
riusciranno a superare qualsiasi difficoltà.
Voto: 3 su 5
(Film
visionato il 24 luglio 2013)
Passioni e desideri
di Fernando Meirelles
con Anthony Hopkins, Ben Foster, Jude Law, Rachel Weisz
Drammatico, 115 min, GB, Francia, Austria, Brasile, 2011
Catena di storie sul valore della scelta, qui declinata in un compendio della casistica sentimental/amorosa. C'è il sesso di chi sceglie di vendersi per denaro, l'amore finito di chi sceglie di lasciare e di chi viene lasciato, il senso di colpa e la voglia di redenzione di chi stava tradendo e ha scelto di non farlo, il sesso deviato e la scelta di controllarsi, l'amore paterno di chi ha perso una figlia e ogni giorno sceglie di cercarla in sé stesso. Come anticipato, ognuna di queste situazioni è rappresentata da un episodio e ogni episodio è legato all'altro da un personaggio in comune, in un movimento circolare (da qui il titolo originale 360). Il riferimento è ovviamente ai film di Altman e Inarritu, ma in questo caso ogni storia, magistralmente diretta, lascia con una sensazione di incompiutezza che sfocia in un risultato non pienamente soddisfacente. C'è chi potrebbe obiettare che un film sul valore della scelta non avrebbe mai potuto esaurire il tema, ma lo sceneggiatore (Peter Morgan: The Queen, Hereafter e Frost/Nixon) e il regista non riescono a conferire all'intreccio delle storie e alla loro circolarità una risoluzione densa di significato. America oggi, ad esempio, si chiude con un terremoto che nobilita ciò che abbiamo visto nelle quasi tre ore precedenti. Similmente, i film scritti da Arriaga e girati da Inarritu si risolvono in una crescita interiore dei personaggi. Qui, invece, non ci affezioniamo granchè ai personaggi, forse perchè non c'è un loro vero e proprio percorso.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 21 luglio 2013)
Il lato positivo
di David O. Russell
con Bradley Cooper, Jennifer lawrence, Robert De Niro, Chris Tucker
Commedia romantica, 112 min., USA, 2012
Commedia romantica dall'impianto tradizionale. Pat Solitano (B. Cooper) ha mandato in frantumi il proprio matrimonio e, soprattutto a causa di un disturbo bipolare, ha passato otto mesi in un istituto psichiatrico. Uscito grazie alle garanzie dei genitori, Pat torna a vivere nella casa dei suoi ma vive le giornate tra attacchi d'ira e la dannata speranza di riconquistare l'ormai ex moglie. Nonostante lei lo abbia tradito, nonstante su di lui penda un'ordinanza restrittiva, nonostante i due (verremo a sapere) non si fossero mai amati. La sua è una vera e propria ossessione, che si attenuerà fino a scomparire solo dopo aver frequentato una ragazza problematica quanto lui. Dicevo commedia romantica dall'impianto tradizionale perché abbiamo due personaggi simili ma di sesso opposto che si trovano e, "puntellandosi" a vicenda, imparano ad amare/amarsi. Peccato che il frutto del loro percorso non venga presentato come qualcosa di graduale, ma piuttosto come una "deflagrazione" nel finale: è come se il protagonista rinsavisca "di colpo", abbandonando improvvisamente il ricordo della moglie per tornare normale grazie al sentimento (corrisposto) che prova per la "sconosciuta". Per il resto è la tipica comicità americana canonizzata da Ti presento i miei, ovvero giocata sulle contrapposizioni, sui genitori ossessivi/compulsivi e su battute più urlate che recitate. Qualche soluzione interessante in regia, vanificata però da grossolani errori, come la catenina d'oro che in un gioco di campi e controcampi ora è dentro ora è fuori dalla canottiera del protagonista.
Voto: 2 1/2 su 5
(Film visionato il 17 luglio 2013)
La frode
di Nicholas Jarecki
con Richard Gere, Susan Sarandon, Tim Roth, Letitia Casta
Thriller, 100 min., USA, 2012
A metà tra i due capitoli di Wall Street e Margin Call, il film di Jarecki è un thriller che ha il merito di mettere in scena una storia che sta in piedi senza particolari impacci grazie ad una trama lineare impreziosita da una buona dose di suspance (almeno nella prima parte). Robert Miller, interpretato da un buon Richard Gere, è un milionario in procinto di vendere la propria società salvata anni prima grazie ad una frode finanziaria. L'operazione, portata avanti grazie alla sua corazza forgiata da anni e anni di esperienza nel mare di squali della finanza, viene messa in seria discussione dalla concomitanza di due avvenimenti: la figlia scopre che la società non ha i conti in regola; in una fuga d'amore Miller causa la morte dell'amante con conseguente indagine della polizia che potrebbe mettere in seria discussione la cessione milionaria della società. Il castello di carte vacilla sempre più pericolosamente durante lo sviluppo degli avvenimenti ma Miller farà di tutto per non farlo cadere. E' grande la sua prova di equilibrismo, e funzionale a ribadire che spesso chi ha i soldi rischia solo di perdere il proprio status sociale, non la libertà. Finale non banale.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 13 luglio 2013)
La migliore offerta
di Giuseppe Tornatore
con Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Sylvia Hoeks
Thriller/Drammatico, Italia, 124 min., 2013
Se qualche giorno fa ho avuto il piacere di parlare di Viva la libertà come di un film che si eleva dalla palude della mediocrità in cui galleggiano i film italiani, ora vi parlerò di un'opera che purtroppo ne fa parte. La migliore offerta, questo il titolo della pellicola esaltata da gran parte del pubblico, è banale. Ma di una banalità sconcertante. Vediamo nel dettaglio il perché, analizzando la storia e considerando che tecnicamente il film è comunque girato bene. Abbiamo un battitore d'aste, Virgil Oldman (nomen omen, che fantasia!), che è il migliore nel suo campo ma non ha mai avuto una relazione con una donna. La cosa è rimarcata dal fatto che, sfruttando un amico infiltrato nelle aste da lui condotte, compra a prezzi bassi ritratti femminili di inestimabile valore per poi stiparli nel suo lussuoso appartamento, in una stanza segreta che gli permette di raccogliere in un solo luogo i simboli di un amore desiderato ma mai provato. La raccolta procede spedita fino a quando, un giorno, il suo studio riceve la telefonata di una donna che lo prega di inventariare la casa dei genitori recentemente scomparsi allo scopo di vendere i pezzi pregiati contenuti in essa. Dopo una prima resistenza Oldman viene rapito dall'insistenza di Claire, questo il suo nome, e decide di recarsi sul posto per un sopralluogo. Lei non si fa mai vedere, interagendo con lui per interposta persona, e lui è sempre più attratto da cotanto mistero. Intanto, durante le sue numerose visite alla casa, Oldman trova alcuni ingranaggi non meglio identificati e scopre che la donna è in verità una ragazza che si nasconde in una stanza segreta. Lei dice di soffrire di agorafobia e un tarlo comincia a lavorare nel cervello di lui: come fare per farla uscire? Essendo un disastro in fatto donne decide di chiedere consiglio a Robert, giovane restauratore di fiducia interpellato soprattutto per aggiustare oggetti meccanici. Lo stesso Robert che sta assemblando gli ingranaggi di cui sopra dopo aver scoperto che appartengono ad un automa antropomorfo di inestimabile valore di Vaucanson. Ecco, a questo punto avete tutti gli elementi e vi invito, prima di proseguire, ad ipotizzare il resto della storia tenendo in considerazione che c'è il colpo di scena. Avete fatto? Bene, perchè ora scoprirete che la vostra fantasia supera di gran lunga quella del regista. Ebbene, dopo decine di tentativi in cui Oldaman cerca di far uscire la ragazza dalla stanza, alla fine ci riesce e fa di tutto per "conquistarla". A questo punto per lei bei vestiti, sfilate e cene romantiche nella casa abbandonata, anellone, baci e scena di sesso patinata (lui vecchio, lei giovanissima) che neanche in un film anni ottanta. Ovviamente avevamo già capito dall'inizio che è tutta una trappola perchè un vecchio ricco e solo in un film non aspetta altro che farsi truffare da una donna. Noi speravamo in una badante dell'est e invece, guardacaso, sono gli unici tre personaggi presenti nella pellicola oltre al protagonista ad essersi messi d'accordo per svuotare la stanza segreta. Quel che è peggio è che, tra enormi sbadigli durante i quali il film procedeva sempre più lentamente sembrando infinito, avevamo già pensato a questa opzione ma l’avevamo scartata immediatamente, pensando che fosse veramente troppo troppo banale. E il colpo di scena? Beh, ma è il fatto che i tre fossero d’accordo (sfruttando il gergo calcistico, l'imbroglio più "telefonato" della storia del cinema). David di Donatello al miglior film (a scapito di Viva la libertà) nonchè "fiore all'occhiello" della produzione italiana da esportare all'estero. P.s. La pioggia scrosciante viene usata per introdurre e fare da sfondo alle scene tragiche. Il protagonista, alla fine, impazzisce e rimane solo. La vera Claire è un'autistica che passa le sue giornate nel bar di fronte alla villa ma il protagonista se ne accorge solo alla fine. Tre peculiarità che di certo non hanno contribuito a svecchiare la narrazione di una storia sorpassata, ripetitiva, fin troppo lineare e, per tutti questi motivi, soporifera.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 2 luglio 2013)
di Giuseppe Tornatore
con Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Sylvia Hoeks
Thriller/Drammatico, Italia, 124 min., 2013
Se qualche giorno fa ho avuto il piacere di parlare di Viva la libertà come di un film che si eleva dalla palude della mediocrità in cui galleggiano i film italiani, ora vi parlerò di un'opera che purtroppo ne fa parte. La migliore offerta, questo il titolo della pellicola esaltata da gran parte del pubblico, è banale. Ma di una banalità sconcertante. Vediamo nel dettaglio il perché, analizzando la storia e considerando che tecnicamente il film è comunque girato bene. Abbiamo un battitore d'aste, Virgil Oldman (nomen omen, che fantasia!), che è il migliore nel suo campo ma non ha mai avuto una relazione con una donna. La cosa è rimarcata dal fatto che, sfruttando un amico infiltrato nelle aste da lui condotte, compra a prezzi bassi ritratti femminili di inestimabile valore per poi stiparli nel suo lussuoso appartamento, in una stanza segreta che gli permette di raccogliere in un solo luogo i simboli di un amore desiderato ma mai provato. La raccolta procede spedita fino a quando, un giorno, il suo studio riceve la telefonata di una donna che lo prega di inventariare la casa dei genitori recentemente scomparsi allo scopo di vendere i pezzi pregiati contenuti in essa. Dopo una prima resistenza Oldman viene rapito dall'insistenza di Claire, questo il suo nome, e decide di recarsi sul posto per un sopralluogo. Lei non si fa mai vedere, interagendo con lui per interposta persona, e lui è sempre più attratto da cotanto mistero. Intanto, durante le sue numerose visite alla casa, Oldman trova alcuni ingranaggi non meglio identificati e scopre che la donna è in verità una ragazza che si nasconde in una stanza segreta. Lei dice di soffrire di agorafobia e un tarlo comincia a lavorare nel cervello di lui: come fare per farla uscire? Essendo un disastro in fatto donne decide di chiedere consiglio a Robert, giovane restauratore di fiducia interpellato soprattutto per aggiustare oggetti meccanici. Lo stesso Robert che sta assemblando gli ingranaggi di cui sopra dopo aver scoperto che appartengono ad un automa antropomorfo di inestimabile valore di Vaucanson. Ecco, a questo punto avete tutti gli elementi e vi invito, prima di proseguire, ad ipotizzare il resto della storia tenendo in considerazione che c'è il colpo di scena. Avete fatto? Bene, perchè ora scoprirete che la vostra fantasia supera di gran lunga quella del regista. Ebbene, dopo decine di tentativi in cui Oldaman cerca di far uscire la ragazza dalla stanza, alla fine ci riesce e fa di tutto per "conquistarla". A questo punto per lei bei vestiti, sfilate e cene romantiche nella casa abbandonata, anellone, baci e scena di sesso patinata (lui vecchio, lei giovanissima) che neanche in un film anni ottanta. Ovviamente avevamo già capito dall'inizio che è tutta una trappola perchè un vecchio ricco e solo in un film non aspetta altro che farsi truffare da una donna. Noi speravamo in una badante dell'est e invece, guardacaso, sono gli unici tre personaggi presenti nella pellicola oltre al protagonista ad essersi messi d'accordo per svuotare la stanza segreta. Quel che è peggio è che, tra enormi sbadigli durante i quali il film procedeva sempre più lentamente sembrando infinito, avevamo già pensato a questa opzione ma l’avevamo scartata immediatamente, pensando che fosse veramente troppo troppo banale. E il colpo di scena? Beh, ma è il fatto che i tre fossero d’accordo (sfruttando il gergo calcistico, l'imbroglio più "telefonato" della storia del cinema). David di Donatello al miglior film (a scapito di Viva la libertà) nonchè "fiore all'occhiello" della produzione italiana da esportare all'estero. P.s. La pioggia scrosciante viene usata per introdurre e fare da sfondo alle scene tragiche. Il protagonista, alla fine, impazzisce e rimane solo. La vera Claire è un'autistica che passa le sue giornate nel bar di fronte alla villa ma il protagonista se ne accorge solo alla fine. Tre peculiarità che di certo non hanno contribuito a svecchiare la narrazione di una storia sorpassata, ripetitiva, fin troppo lineare e, per tutti questi motivi, soporifera.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 2 luglio 2013)
Viva la libertà
di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Anna Bonaiuto
Commedia/Drammatico, 94 min., Italia, 2013
Guardando questo film (opera prima tratta dal libro Il trono vuoto dello stesso Andò) abbiamo capito molte cose. Abbiamo capito che il cinema italiano è agonizzante ma ancora vivo. Abbiamo capito che può competere con quello francese senza uscire con le ossa rotte dalla "competizione". Abbiamo capito che Toni Servillo funziona molto meglio nelle commedie con quella sua faccia che sembra un mascherone e quelle movenze che meglio si prestano ad una macchietta che non ad un personaggio alla Lincoln (tradizione De Curtis?). Abbiamo capito che gli italiani, certi italiani, sono ancora capaci di fare una commedia intelligente, molto intelligente, con due lire e tanta cultura. In questa storia, che ha come fulcro uno scambio di persona, si citano Brecht, Shakespeare, Epimenide per parlare dei problemi della politica con piglio agrodolce. Ne esce un film più profondo e ragionato del Ministro di Schoeller, più riuscito e completo della Grande Bellezza di Sorrentino. Oltre al discorso politico ci sono infatti le vicende umane dei due protagonisti (entrambi interpretati da Servillo). Da una parte Enrico Olivieri, che decide di tagliare per un po' i ponti con il partito e la moglie per ritrovare sé stesso (va in Francia, ma ci passiamo sopra). Dall’altra Giovanni Ernani, il fratello gemello filosofo appena uscito da un manicomio, che ne prende il posto e che con la sua umanità e il suo acume rivoluziona la politica italiana restituendo il giusto significato alle parole e ridefinendo la scala di priorità della vita, personale e sociale. Si ride e si riflette, ritornando così ad un'arte che ha qualcosa da dire e che, per questo, forma. Peccato per la regia, un po’ troppo didascalica.
Voto: 3½ su 5
(Film visionato il 29 giugno 2013)
Solo Dio perdona
di N.W. Refn
con Ryan Gosling, K.S. Thomas, V. Pansringarm
Thriller, Drammatico, 90 min., Francia, Danimarca, 2013
Giochi di ombre svelano e nascondono personaggi robotici. Essi incedono con passo mi(s)tico tra ambienti asettici, perfettamente studiati (Ozu). Le luci al neon esaltano la plasticità della mise en scène ed estetizzano la violenza. Troppi sentimenti, nessun sentimento. Duelli western (Colizzi, Leone, Corbucci) rivisitati alla luce della tradizione cinematografica orientale (Kurosawa, Miike). Predominano rosso (sangue fresco) e nero (sangue rappreso), negli ambienti e sui corpi. Conflitto edipico, vendetta, redenzione, inerzia: esistenzialismo? Una porta che si apre sul buio, una mano che entra nel ventre squarciato della madre e nella vagina della compagna, moncherini, aste di ferro che inchiodano braccia e mani e bucano timpani e tagliano occhi. Esplosioni di violenza. Al ralenti. Poche battute (scontate). Momenti karaoke (assomigliano tanto a quelli di Blue Velvet, ma meglio metterlo tra parentesi). Bambina risparmiata. Dedica finale a Jodorovsky.
Voto: 2 1/2 su 5
(Film visionato il 6 giugno 2013)
La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
con Toni Servillo, Carlo Verdone, Isabella Ferrari, Sabrina Ferilli
Drammatico, 150 min., Italia-Francia, 2013
Un esercizio onanistico con pretese pseudo-intellettuali che dimostra quanta poca cultura ci sia non tanto nell’opera ma in chi l’ha concepita. Sorrentino mette in piedi un ambiziosissimo film sul Nulla che si risolve in una prova inconfutabile della sua incapacità narrativa (a livello di sceneggiatura, non d’immagini) e che ci lascia sinceramente afflitti e indifferenti. Afflitti perché si sta parlando di un film di punta del cinema italiano che si rivela terribilmente sorpassato e, quel che è peggio, inutile. La caratterizzazione dei personaggi è inesistente, i dialoghi scarni e imbarazzanti (stiamo un’ora col fiato sospeso per sapere cosa ha detto la ragazza della perdita della verginità al protagonista per poi scoprire che la frase è un banalissimo “Ti voglio fare vedere una cosa”), le immagini tradiscono un delirio citazionistico e, quel che è peggio, autocitazionistico (Fellini saccheggiato a piene mani; qualche rimando a Malick; la scena dell’incontro erotico tra il protagonista e Isabella Ferrari è un calco dello spot Yamamay con la stessa “attrice” che è passato qualche tempo fa in TV). Come se non bastasse, di Roma ne sappiamo quanto prima: le scene si svolgono quasi tutte in interni o su 2 o 3 terrazzi, i protagonisti delle serate mondane purtroppo li conosciamo già (Serena Grandi interpreta sé stessa e Sabrina Ferilli pure), e per quel che riguarda la fauna delle feste è necessario dire che un lettore assiduo di Dagospia ne avrebbe tratteggiata una più interessante stando comodamente seduto al computer di casa. Non bastano certo una nana, una giraffa e una santa per avvolgere il film in un’aura di onirica magia. Aridatece Fellini! Aridatece Mastroianni!
Voto: 1 ½ su 5
(Film visionato il 24 maggio 2013)
Il grande Gatsby
di Baz Luhrmann
con Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire
Drammatico, 143 min., USA, Australia, 2013
È estremamente difficile dare un giudizio su quest’opera. Da una parte si rimane folgorati dalla storia: onesta (secondo l’accezione hemingwayana), senza tempo, perfetta. Dall’altra c’è la messa in scena del regista. E, assodato che la base è un’opera letteraria la cui grandiosità non può essere messa in discussione, è proprio su quest’ultima (e solo su quest’ultima) che bisogna focalizzarsi. Ci si trova indiscutibilmente di fronte ad un’opera postmoderna, dove il contesto storico in cui si svolge l’azione accoglie elementi “estranei” al fine di risultare più accattivante. E allora gli usi e i costumi cercano di essere quelli degli anni venti, mentre la musica e alcuni comportamenti dei personaggi giungono direttamente dalla contemporaneità. Passo falso del regista? Non proprio. Luhrmann evita di creare confusione nello spettatore inserendo elementi attuali (come le musiche di Jay-Z) di preferenza solo nelle scene corali (le feste nella magione di Gatsby o le “orge” negli appartamenti di città), diventando di contro strenuo difensore della più conservatrice lettura dell’opera fitzgeraldiana nella messa in scena della travagliata storia d’amore tra Gatsby e Daisy. Ne esce così un’opera didascalica, neanche troppo coraggiosa, che ha sì il merito di farci apprezzare l’universalità dell’opera di F.S. Fitzgerald anche grazie al 3D (qui marcia in più) ma che non ci permette né di respirare la vera essenza degli anni venti (troppo poco sesso, alcool, coca e charleston!) né di evocare la deriva valoriale della società occidentale contemporanea. Periodi non a caso sfocianti in due tremende crisi economiche mondiali.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 18 maggio 2013)
Il Ministro – L’esercizio dello Stato
di Pierre Schoeller
con Olivier Gourmet, Michel Blanc, Zabou Breitman, Laurent Stocker
Drammatico, 112 min., Francia-Belgio, 2011
Il Ministro dei Trasporti francese Bertrand Saint-Jean sogna una donna perfetta, completamente nuda, che si infila tra le fauci di un alligatore. Il Ministro dei trasporti Sain-Jean viene svegliato nel cuore della notte da una telefonata del proprio segretario personale che lo informa di un incidente mortale che ha coinvolto un bus pieno di bambini. Il Ministro dei trasporti Sain-Jean si reca immediatamente sul luogo del disastro (gli fanno cambiare la cravatta perché quella blu è più adatta ad un “appuntamento istituzionale”) e cerca di dare l’impressione che lo Stato non abbandonerà i ragazzi sopravvissuti e le famiglie. Mentre, sulla strada del ritorno, l’addetto stampa si sincera che le uscite dei media sull’accaduto rendano giustizia al suo assistito, il Ministro dei trasporti Sain-Jean chiede di fermare la macchina per vomitare a bordo strada. Non ha neppure il tempo di riposarsi che deve, in sequenza: concedere un’intervista ad una televisione nazionale, affrontare la questione della privatizzazione delle stazioni ferroviarie, non trascurare la famiglia, tenete in piedi flebili rapporti istituzionali e personali, cercare di non fare schifo a sé stesso. Il Ministro – L’esercizio dello Stato ha il pregio di far vedere allo spettatore cosa significhi lavorare a certi livelli. In un momento in cui le persone odiano qualsiasi tipo di rappresentante politico, questo film cerca di mostrare quanta fatica ci sia nel cercare di conciliare l’”esercizio dello stato” con la vita personale, mettendo a nudo l’impotenza di un uomo davanti a organizzazioni pachidermiche (fatte di migliaia di regole e uomini) come quelle delle politica nazionale. Oltre a questo, però, il film non risulta efficace come “Il Divo” di Sorrentino. L’obiettivo (ovvero la rappresentazione dell’influenza dello Stato su un suo servitore e come questo rapporto possa “svuotare” quest’ultimo) è infatti ben delineato all’inizio dell’opera, ma poi i suoi confini si fanno sempre più evanescenti fino a rischiare di sparire del tutto. Resta dunque un sapore di incompiutezza che però non inficia il buon risultato finale.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 21 aprile 2013)
Un giorno devi andare
di Giorgio Diritti
con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Sonia Gessner
Drammatico, 110 min., Italia-Francia, 2013
Deludente. Non ci sono altre parole per descrivere sinteticamente l’ultimo film di Giorgio Diritti, uno dei migliori registi italiani in attività. Certo, era difficile rimanere sui livelli de L’uomo che verrà. Ma qui il bersaglio è lontano, e di parecchio. Vuoi per la recitazione dei personaggi, alquanto approssimativa, vuoi per la costruzione del racconto, alquanto inefficace. Inefficace perché la trama, che c’è e si fa sentire nella prima parte, svanisce progressivamente dalla seconda metà in poi della pellicola facendo mancare sostegno alle riflessioni sulle importanti tematiche trattate (la vita, la religione, il valore della scelta nell’agire quotidiano), che finiscono così con l’essere toccate in modo superficiale e tangenziale lasciando nello spettatore una sensazione di non costruttiva incompiutezza. Il film, dunque, non risolve e non si risolve, rimanendo in bilico tra un’opera di Terrence Malick (i panorami della foresta amazzonica dovrebbero essere il protagonista in più) e la tradizione riflessiva del cinema nordico (le considerazioni sulla religione proprie del cinema di Dryer e Bergman). Qualche scena fuori contesto (soprattutto quelle di ballo proprie della retorica morettiana, sempre e comunque inutili) e qualche banale errore (un’edizione Adelphi dell’Attesa di Dio di Simone Weil che sembra impermeabile alle piogge torrenziali e un iPhone sempre funzionante, anche dopo giorni di viaggio su un’imbarcazione) ridimensionano ulteriormente l’ambizione di un’opera che, speriamo, possa dimostrarsi come la necessaria “opera di transizione” prima di un altro capitolo degna di nota.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 31 marzo 2013)
Spring Breakers – Una vacanza da sballo
di Giorgio Diritti
con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Sonia Gessner
Drammatico, 110 min., Italia-Francia, 2013
Deludente. Non ci sono altre parole per descrivere sinteticamente l’ultimo film di Giorgio Diritti, uno dei migliori registi italiani in attività. Certo, era difficile rimanere sui livelli de L’uomo che verrà. Ma qui il bersaglio è lontano, e di parecchio. Vuoi per la recitazione dei personaggi, alquanto approssimativa, vuoi per la costruzione del racconto, alquanto inefficace. Inefficace perché la trama, che c’è e si fa sentire nella prima parte, svanisce progressivamente dalla seconda metà in poi della pellicola facendo mancare sostegno alle riflessioni sulle importanti tematiche trattate (la vita, la religione, il valore della scelta nell’agire quotidiano), che finiscono così con l’essere toccate in modo superficiale e tangenziale lasciando nello spettatore una sensazione di non costruttiva incompiutezza. Il film, dunque, non risolve e non si risolve, rimanendo in bilico tra un’opera di Terrence Malick (i panorami della foresta amazzonica dovrebbero essere il protagonista in più) e la tradizione riflessiva del cinema nordico (le considerazioni sulla religione proprie del cinema di Dryer e Bergman). Qualche scena fuori contesto (soprattutto quelle di ballo proprie della retorica morettiana, sempre e comunque inutili) e qualche banale errore (un’edizione Adelphi dell’Attesa di Dio di Simone Weil che sembra impermeabile alle piogge torrenziali e un iPhone sempre funzionante, anche dopo giorni di viaggio su un’imbarcazione) ridimensionano ulteriormente l’ambizione di un’opera che, speriamo, possa dimostrarsi come la necessaria “opera di transizione” prima di un altro capitolo degna di nota.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 31 marzo 2013)
Spring Breakers – Una vacanza da sballo
di Harmony Korine
con Vanessa Hudgens, James Franco, Selena Gomez, Ashley Benson, Heather Morris, Rachel Korine
Drammatico, 94 min., USA, 2012
Tu noi sai perché sei seduta nell’aula di un campus universitario a far finta di ascoltare una lezione sui diritti dell’uomo. E invece eccoti qua, e non puoi fare altro che pensare che ormai si avvicina la pausa primaverile e che vuoi andare a tutti i costi in Florida allo Spring Break perché tutti ci vanno e tutti si divertono un sacco e conoscono un sacco di gente. Ma c’è un piccolo problema: ti mancano i soldi. In un anno tu e le tue amiche avete messo da parte solo 300 dollari che non bastano neanche per una notte in albergo e allora pensi che l’unica soluzione sia quella di fare finta di essere in un film e fare una rapina, magari incappucciate e armate con quelle pistole ad acqua che spesso usate per spruzzarvi tequila in bocca quando la sera fate baldoria con l’erba e la coca che vi fanno andare su di giri e che vi fanno pensare a come sia monotona la vostra vita, come sia prevedibile, e a come sarebbe bello movimentarla un po’ per non essere più così sfigate. Lo Spring Break è l’evento perfetto. Lì trovereste gente come voi. Gente simpatica, che si vuole divertire, che per qualche giorno vuole solo conoscere gente nuova. Gente più interessante di quella del campus. E tu finalmente potresti toglierti la maschera da brava ragazza per farti vedere per quella che sei realmente. Magari potresti perdere la verginità con un bel ragazzo, o anche con una ragazza. Magari ti potresti ubriacare tutti i giorni, essere perennemente strafatta, partecipare a un concerto sulla spiaggia dove la gente balla nuda e sudata, farti sniffare la coca tra le chiappe da uno sconosciuto, farlo rizzare ogni giorno a un tipo diverso senza dargliela, andare in prigione. E poi potresti diventare la donna di un pezzo grosso, magari uno che gestisce un traffico di stupefacenti talmente ampio da avere un sacco di soldi, di armi, di vestiti firmati. Con lui ti sentiresti protetta e importante, perché lui sarebbe come uno Scarface moderno che però ha un cuore d’oro: a bordo piscina avrebbe un pianoforte con cui cantarti “Everytime” di Britney Spears, la tua canzone d’amore preferita, non tante guardie del corpo vestite di nero con i mitra a tracolla. Le tue amiche sarebbero lì con te, così belle con i loro corpi ancora un po’ acerbi coperti solo da bikini e impreziositi da orecchini Hello Kitty. Forse qualcuna di loro potrebbe avere un po’ di paura a lasciarsi andare e vorrebbe tornare a casa. Ma non avrebbe capito che è ora di farla finita con il mondo patinato della Disney e delle preghiere in chiesa. Qui si tratta di fare il salto, di maturare, di diventare donne. E se per farlo bisogna uccidere e uccidersi facendo implodere tutta la cultura che c’è in te e intorno a te, non ci sono problemi. L’importante è imparare giorno dopo giorno a “fottersi di paura”, con il solo obiettivo di diventare forti e trovare il coraggio di essere veramente indipendenti e liberi. Niente più ansie. Solo tanto divertimento. Spring Break… per sempre!
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 7 marzo 2013)
Anna Karenina
di Joe Wright
con Keira Knightley, Aaron Johnson, Jude Law, Matthew Macfayden
Drammatico, 130 min., Gran Bretagna, Francia, 2012
Nonostante le smorfie di una Karerina/Knightley non completamente nella parte e di un Vronsky/Johnson poco affascinante (c’è chi obietterà che l’amore non risponde a logiche legate all’estetica e alla razionalità), il film di Joe Wright non snatura il messaggio dell’opera tolstoiana (smascherare le ipocrisie della società russa della seconda metà dell’Ottocento) presentandolo con notevole maestria tecnica e ottimo ritmo: la passione amorosa che lega i due protagonisti è come la luce di un treno che corre veloce nella neve travolgendo tutto quello che trova davanti a sé (le convenzioni sociali e la stessa protagonista). Tutto questo è possibile grazie alla coraggiosa scelta di ambientare parte della vicenda all’interno di un teatro, servendosi di scenografie mutanti e movimenti di macchina che enfatizzano il crescendo drammatico degli avvenimenti. Peccato che i due protagonisti non siano riusciti a veicolare adeguatamente il sentimento della passione amorosa più travolgente (attualizzando, la tensione sessuale). Solo così la rappresentazione sarebbe stata davvero memorabile. Buono il contrappeso della storia parallela tra Konstantin e Kitty, nota dolce che celebra il valore sovversivo di una vera scelta d’amore.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 2 marzo 2013)
Re della terra selvaggia
di Benh Zeitlin
con Quvenzhané Wallis, Dwighty Henry, Levy Easterny, Lowell Landes
Drammatico, 91 min., USA, 2012
Avere sei anni e dover crescere velocemente, imparando a prendere coscienza della natura e a resistere ai problemi della vita. E' possibile, anche in giovane età, accorgersi che la poesia si cela anche nei più insignificanti esseri viventi. E' possibile, anche in giovane età, prendersi cura si sé e degli altri. Basta avere tanto coraggio. E questo coraggio a Hushpuppy, la protagonista dell'opera prima di Benh Zeitlin, non manca. La vederemo allora resistere ad un uragano, sopportare il padre malato prendendosene cura, sopravvivere allo scorrere dei giorni senza l'amore di una madre e avere anche la forza di cercarla. C'è chi ha accostato l'opera a The Tree of Life. Non scherziamo. Il rapporto tra Natura e uomo viene trattato ottimamente nella prima parte, ma poi il film si allontana dall'obiettivo perdendosi in troppe "variazioni sul tema" che non riescono a mantenere il lirismo iniziale ma lo risolvono in un finale che è un calco stanco e patetico se confrontato a quello dell'opera malickiana precedentemente citata. Ma spezziamo una lancia. Anche più di una. Siamo infatti di fronte ad un esordio comunque notevole che impone Zeitlin all'attenzione del panorama cinematografico mondiale e dimostra come negli USA anche le tragedie contemporanee possano fare da sfondo a storie avvincenti ed esportabili. In questo senso, da noi si avverte un vuoto un po' troppo pneumatico.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 9 febbraio 2013)
Zero Dark Thirty
di Kathryn Bigelow
con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle
Thriller, 157 min., USA, 2012
Un film perfettamente calibrato che non presenta punti deboli evidenti. Dopo due ore e mezza, dove la tensione permea la sala, sappiamo infatti: chi è la protagonista Maya, giovane ufficiale della CIA più forte della burocrazia e dei colleghi maschi; come lavora l’intelligence americana, comprese gerarchie, errori e risultati raggiunti; qual è il lavoro che c’è stato dietro la cattura di Osama Bin Laden. Merito di una sceneggiatura che si sposa perfettamente con lo stile documentaristico della Bigelow. Merito di una ricostruzione efficacissima che azzera qualsiasi distanza con la realtà e ci presenta ogni avvenimento come se fosse l’avvenimento, e la storia non come se fosse quella di Maya bensì quella di tutto l’occidente. Ma Zero Dark Thirty è qualcosa di più: ogni volontà di fare intrattenimento cede sempre il passo alla descrizione di un’ossessione, non di una situazione.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 16 febbraio 2013)
Lincoln
di Steven Spielberg
con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Joseph Gordon-Levitt
Biografico, 150 min., USA, 2012
L’inizio del film ci ha fatto temere il peggio. Guerra Civile con soldati che recitano a memoria i discorsi del Presidente presente in penombra e successiva scena all’interno della Casa Bianca con Lincoln che si accoccola di fianco al figlio minore dormiente. Poi, fortunatamente, il pericolo del solito-film-di-propaganda-USA-melenso-e-prevedibile viene sfatato. L’ottima sceneggiatura di Tony Kushner (è vero che il Presidente sognava spesso una nave e che intratteneva gli interlocutori con aneddoti; è vero che Thadeus Stevens chiamava “rettili” gli avversari politici) si concentra infatti sul pragmatismo politico del 16° Presidente degli Stati Uniti d’America (più ottimo avvocato che idealista) e sul percorso d’approvazione del XIII emendamento (quello dell’abolizione della schiavitù) attraverso promesse di incarichi e, più in generale, corruzioni. Sullo sfondo il dramma famigliare della perdita di un figlio in guerra, l’intenzione del primogenito ad arruolarsi, le crisi di una first lady che mal sopporta la Casa Bianca, i cerimoniali e il peso delle continue responsabilità. Da una parte abbiamo una sceneggiatura completa, quasi perfetta, fatta di dialoghi misurati e articolati che ben ricostruiscono il clima socio-culturale del tempo nonché l’estrema complessità di una rivoluzione di portata storica; dall’altra, invece, una regia giustamente accademica che però tende a sfruttare artifici retorici (v. scene di cui sopra) più azzeccati per una figura ascetica che per un politico sì lungimirante ma cinico e, è il caso di dirlo, baro. Ne nasce dunque una frizione che non ci permette di gridare al capolavoro, ma va comunque rilevato come il film abbia il grande pregio di insegnarci che cosa sia realmente la politica. Da sottolineare, infine, la prova maiuscola di Tommy Lee Jones, culminante in una scena di mirabile delicatezza. P.s. Come con ogni grande film, durante la visione si schiudono in noi numerosi interrogativi, e qualche importante considerazione sulla situazione italiana del 2013, politica e culturale. Grazie al cinema, che come sappiamo crea consenso e senso di appartenenza, sappiamo praticamente tutto sulla storia politica americana (da Lincoln a Nixon passando per JFK e Roosvelt) mentre non sappiamo quasi nulla su Mazzini, Cavour, De Gasperi. Sarà per la nostra mancanza di abitudine al ricordo di un Politico vero che gran parte delle persone in sala ha dormito per quasi tutta la durata della pellicola?
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 26 gennaio 2013)
Pazze di me
di Steven Spielberg
con Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Joseph Gordon-Levitt
Biografico, 150 min., USA, 2012
L’inizio del film ci ha fatto temere il peggio. Guerra Civile con soldati che recitano a memoria i discorsi del Presidente presente in penombra e successiva scena all’interno della Casa Bianca con Lincoln che si accoccola di fianco al figlio minore dormiente. Poi, fortunatamente, il pericolo del solito-film-di-propaganda-USA-melenso-e-prevedibile viene sfatato. L’ottima sceneggiatura di Tony Kushner (è vero che il Presidente sognava spesso una nave e che intratteneva gli interlocutori con aneddoti; è vero che Thadeus Stevens chiamava “rettili” gli avversari politici) si concentra infatti sul pragmatismo politico del 16° Presidente degli Stati Uniti d’America (più ottimo avvocato che idealista) e sul percorso d’approvazione del XIII emendamento (quello dell’abolizione della schiavitù) attraverso promesse di incarichi e, più in generale, corruzioni. Sullo sfondo il dramma famigliare della perdita di un figlio in guerra, l’intenzione del primogenito ad arruolarsi, le crisi di una first lady che mal sopporta la Casa Bianca, i cerimoniali e il peso delle continue responsabilità. Da una parte abbiamo una sceneggiatura completa, quasi perfetta, fatta di dialoghi misurati e articolati che ben ricostruiscono il clima socio-culturale del tempo nonché l’estrema complessità di una rivoluzione di portata storica; dall’altra, invece, una regia giustamente accademica che però tende a sfruttare artifici retorici (v. scene di cui sopra) più azzeccati per una figura ascetica che per un politico sì lungimirante ma cinico e, è il caso di dirlo, baro. Ne nasce dunque una frizione che non ci permette di gridare al capolavoro, ma va comunque rilevato come il film abbia il grande pregio di insegnarci che cosa sia realmente la politica. Da sottolineare, infine, la prova maiuscola di Tommy Lee Jones, culminante in una scena di mirabile delicatezza. P.s. Come con ogni grande film, durante la visione si schiudono in noi numerosi interrogativi, e qualche importante considerazione sulla situazione italiana del 2013, politica e culturale. Grazie al cinema, che come sappiamo crea consenso e senso di appartenenza, sappiamo praticamente tutto sulla storia politica americana (da Lincoln a Nixon passando per JFK e Roosvelt) mentre non sappiamo quasi nulla su Mazzini, Cavour, De Gasperi. Sarà per la nostra mancanza di abitudine al ricordo di un Politico vero che gran parte delle persone in sala ha dormito per quasi tutta la durata della pellicola?
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 26 gennaio 2013)
Pazze di me
di Fausto Brizzi
con Francesco Mandelli, Loretta Goggi, Chiara Francini, Valeria Bilello
Commedia, 93 min., Italia, 2013
«E adesso, sono cazzi tuoi». Questa la frase che apre e chiude Pazze di me, il nuovo film di Fausto Brizzi in uscita proprio in questi giorni nelle sale italiane. Ed è questa la frase che ha segnato l’esistenza del giovane Andrea (il Solito Idiota Francesco Mandelli) sin da quando, bambino, se la sente rivolgere come un oscuro presagio dal padre (Flavio Insinna) scoperto nel bel mezzo della notte a scappare di casa. Non tarderà molto a scoprirne il significato Andrea, alle prese con una famiglia di sette donne impossibili: la madre (Loretta Goggi), soprannominata Sergente Hartman per il suo carattere burbero; la nonna, una ex professoressa di matematica ormai totalmente rimbambita; la badante Bogdana che, pretende di eseguire esclusivamente compiti consoni a una «dama di compagnia»; e infine le tre sorelle Beatrice, Veronica e Federica, che incarnano rispettivamente il prototipo dell’egocentrica perfettina, della femminista convinta, della svampita sbadata. Corona questo esercito di sole donne il cane, un bulldog femmina, manco a dirlo, arrivato in famiglia per puro caso. Al centro di questo uragano di estrogeni si trova il povero Andrea che, vittima delle varie disavventure create dalle sue donne, cercherà di fare sopravvivere l’effimera storia d’amore con la dolce Giulia (Valeria Bilello), alla quale racconterà addirittura di essere orfano. E così, tra tradimenti e relazioni adultere, bagni in mare e convegni motivazionali stile “l’utero è mio e lo gestisco io", la vicenda si dipana senza troppe complicazioni, con battute simpatiche ma mai memorabili e alcune scene capaci di strappare il sorriso, come quella in cui Beatrice, reduce da abbandono sull’altare e conseguente attacco depressivo, canta Non son degno di te in una fontanella con una bottiglia d’acqua a mo’ di microfono, accompagnata da un gruppo di violinisti. Infine, l’emancipazione del protagonista resa possibile dall’obiettivo, riuscito, di redimere le sue donne. Ne esce un film leggero, nel complesso gradevole, che ha il pregio di indurre lo spettatore a rilassarsi e scollegare il cervello, a patto che si assuma la benedetta logica del patto finzionale capace di rendere verosimili anche fatti impossibili a credersi. Solo così si può accettare il ruolo da latin lover cucito addosso a un Mandelli sottotono, e solo così si può passar sopra la stereotipizzazione dell’universo femminile, popolato da personaggi tanto insopportabili quanto acidi, nevrotici ed eccessivi nei loro difetti e debolezze. E’ certamente questo il maggior limite della sceneggiatura scritta a sei mani da Fausto Brizzi con l’inseparabile Marco Martani e Federica Bosco, ovvero aver creato un immaginario di macchiette senz’anima, che come burattini agiscono senza motivazioni profonde e senza legami con la realtà.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 21 gennaio 2013)
Django Unchained
di Quentin Tarantino
con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson
Western, 165 min., USA, 2012
Cosa si aspetta il pubblico da Tarantino? Semplice: dialoghi strampalati, scene pulp, mexican standoff, tonnellate di citazioni filmiche, un suo cameo. Questo è il comune denominatore dei suoi ultimi film (Kill Bill e Inglorious Basterds), questo è praticamente il canovaccio di Django Unchained nonché suo grande limite (prima parte appagante, seconda che sfiora il tedioso). Certo, dopo aver riempito di significato l’aggettivo “tarantiniano”, il regista si sta meritatamente divertendo come un bambino al luna park che non deve pagare per salire sulle giostre o mangiare zucchero filato. Giusta ricompensa al merito di aver rivoluzionato il linguaggio del cinema con Le iene (1992) e Pulp Fiction (1994). Ma da un regista che ora dispone di denaro e capacità ci si aspetterebbe un po’ più di coraggio nel valicare la propria cifra stilistica sperimentando nuove strade. Un “passo indietro” su tutti: Tarantino ha contribuito ad estetizzare la violenza tramite immagini di violenza assurda, fine a sé stessa. Ora, che bisogno c’è di rassicurare il pubblico giustificando le esplosioni di violenza attraverso le contrapposizioni nazisti/ebrei e schiavisti/uomini di colore? Paura di inimicarsi la folla adorante? (A proposito: quanti finti tarantiniani in sala, che credono che conoscere un regista “figo” voglia dire conoscere la storia del Cinema!). È bene ripeterlo: chi ha smesso di essere coraggioso non è più così interessante.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 19 gennaio 2013)
The Master
di Paul Thomas Anderson
con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams
Drammatico, 137 min., Usa, 2012
Se The Tree of Life di Malick è stato da molti accostato a 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, noi possiamo ricondurre l’ultimo film di P.T. Anderson ad Arancia Meccanica (1971). Già il suo protagonista, Freddie Quell, sembra un alter ego di Alex DeLarge. Violento, disadattato, ubriaco di un intruglio da lui prodotto che sembra una versione più ruvida e meno futuristica del lattepiù kubrickiano, Freddie ha la personalità perfetta per essere manipolato da qualcuno. Per A. Burgess, autore del libro A Clockwork Orange, questo qualcuno poteva essere Dio, il Diavolo o lo Stato onnipotente. P.T. Andreson sceglie la dimensione religiosa, rappresentata da una setta nata nel dopoguerra (siamo nel 1950-‘51) pronta a sfruttare la debolezza e lo spaesamento sociale del momento (problema dei reduci e Guerra Fredda su tutti) per plasmare nuovi adepti grazie a teorie che mescolano psicoanalisi, religiosità e (fanta)scienza. Il grande burattinaio è il capo spirituale Lancaster Dodd (interpretato da un egregio P.S. Hoffman), alter ego del fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, che prende Freddie sotto la sua ala protettiva al fine di dimostrare a sé e agli altri che le sue teorie (più frutto d’improvvisazione che di ricerca) possano dare sollievo anche ai casi più disperati. Solo e bisognoso di affetto, Freddie (superbamente interpretato da J. Phoenix) diventa la cavia perfetta per testare nuovi “trattamenti”, sedute pseudo-psicoanalitiche condotte con domande inventate sul momento che fanno parlare il “paziente” facendolo sentire semplicemente meno solo. (E qui scatta un altro parallelismo con Arancia Meccanica: proprio come Alex durante il Trattamento Ludovico, a Freddie è proibito chiudere gli occhi). P.T. Anderson scrive e dirige una pellicola che si distingue per la perfezione delle immagini ma non riesce a rendere la storia memorabile. Certo, la maestria tecnica è da considerare come un valore aggiunto, tuttavia essa risulta molto meno funzionale alla narrazione rispetto a quanto fatto da Malick in The Tree of Life. Per il resto bisogna specificare che, pur con tutti i suoi limiti, la storia non è così “irrilevante” come molti critici hanno scritto. Semmai il problema è il contrario: il regista affronta troppi temi importanti (le conseguenze della guerra, la religione, la società americana del dopoguerra, la Guerra Fredda, l’amore, la pazzia, il tema del doppio) in una volta sola, rimanendo inevitabilmente in superficie e risolvendo il tutto (ovviamente non vi svelo il finale) in modo un po’ banalotto.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 5 gennaio 2013)
Moonrise Kingdom
di Wes Anderson
con Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Tilda Swinton
Drammatico, 94 min., Usa, 2012
Carrello laterale iniziale, inquadrature simmetriche, jump cut che giustifica sviluppi narrativi altrimenti improbabili, ralenti, colori pastello, e “i cattivi non sono cattivi e i nemici non sono nemici e anche i buoni non sono buoni”. Con Moonrise Kingdom la poetica di Wes Anderson raggiunge la sua piena maturità tecnica e stilistica e dà vita ad una riflessione sulla (pre)adolescenza che mette a nudo i limiti dell’età adulta: la fuga d’amore tra due ragazzini “diversi”, “emarginati”, vuole essere il pretesto per parlare dell’innocenza in un sentimento, quello d’amore, che negli adulti si perde, inevitabilmente. A metà tra favola e fiaba in immagini, il film (“tutto tenerezza e finali agrodolci”) evidenzia una leggera frizione tra lo stile assolutamente personale del regista, che a livello visivo propone effettivamente qualcosa di nuovo ed inconfondibile, ed una mancanza di originalità a livello di trama. Certo, ci sono delicate metafore come quella dei buchi nelle orecchie della protagonista femminile (allusione alla perdita della verginità) e tributi alla tradizione cinematografica più raffinata, ma poi non bastano vestiti bizzarri, giradischi e un gattino nella cesta di vimini per confondere le acque e vendere come nuovo qualcosa di obiettivamente già visto.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 14 dicembre 2012)
Killer Joe
di William Friedkin
con Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Juno Temple, Gina Gershon
Drammatico 103 min., Usa, 2011
Guardando questo film una sola parola può venire in mente allo spettatore. Questa parola è “cattivo”. Il film di Friedkin è molto cattivo e, considerato il regista, non poteva essere altrimenti. Già con Il braccio violento della legge (1971), L’esorcista (1973) e Vivere e morire a Los Angeles (1985) Friedkin aveva definito il suo stile: la contrapposizione tra fiction (personaggi e situazioni inventate) e ambientazioni documentaristiche dava vita ad una frizione che faceva scattare il meccanismo della verosimiglianza. In quest’ultima opera l’operazione viene perfezionata e ciò che viene messo in scena acquista forza proprio grazie a questo assottigliamento dei limiti tra finzione e realtà. In questo caso abbiamo una famiglia disastrata della periferia di Dallas che si impantana in una storiaccia che esplode in un finale di inaudita violenza fisica e verbale. Ma quel che più colpisce è la splendida atmosfera che il regista è riuscito a creare, aiutato da un’ottima prova degli interpreti (tutti credibili, tutti nella parte) e da un’ambientazione più che azzeccata. Tutto merito di Friedkin, dunque, che ha sfruttato una sceneggiatura di Tracy Letts da molti definita “alla Tarantino” e l’ha fatta dipanare in una di quelle periferie americane talmente disastrate che poco si possono discostare dalla realtà. E qui, infatti, tutti cercano di fregare tutti, ma quando qualcuno cerca di fregare “Killer” Joe Cooper, assoldato da un ragazzo con debiti di droga per uccidere la madre e riscuotere l’assicurazione sulla vita, si scatena il putiferio. I personaggi vengono progressivamente risucchiati agli inferi e devono fare i conti con la legge del contrappasso: la lussuriosa viene umiliata attraverso una coscia di pollo fritto; l’ignavo trova una morte subdola, più subdola della sua vita; il delinquente/barattiere cade vittima della propria stoltezza. In tutto questo “Killer” Joe non funge, come si potrebbe pensare, da semplice delinquente corrotto, bensì da giustiziere postmoderno che accelera e perfeziona il processo di espiazione.
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 5 dicembre 2012)
Il sospetto
di Thomas Vinterberg
con Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Susse Wold, Annika Wedderkoop
Drammatico, 115 min., Danimarca,
Voto: 4 su 5
(Film visionato l’1 dicembre 2012)
Skyfall
di Sam Mendes
con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem, Ralph Fiennes
Azione, 145 min., UK, Usa, 2012
Una pallottola buca il torace dell’agente segreto più famoso al mondo mettendo in luce tutta la sua vulnerabilità e svelando la “dichiarazione di poetica” del regista. Lo 007 di Mendes non è invulnerabile. Lo 007 di Mendes non è l’uomo-automa dei capitoli precedenti. Peccato che l’opera non sviluppi il proponimento, presentandoci una versione di Bond che determina una frizione tra quello che dovrebbe essere (e che tale rimane) e quello che è. Ne esce così, se è possibile, una versione di 007 ancora più artefatta delle precedenti le quali, in confronto, conservavano una loro coerenza di fondo. Doveva essere un Bond più umano, dunque, ma sin dalle prime scene si intuisce che la musica è la stessa. Pensiamo ad esempio che ad inizio pellicola il protagonista rischia la morte ma viene immediatamente salvato da… una morettona che gli si concede (eh certo, lui è Bond!). Come se non bastasse ritroviamo spesso l’agente interpretato da un Daniel Craig pompato più che mai e impeccabilmente vestito, anche nelle (poche) scene d’azione, sempre più bloccato in pose plastiche che accentuano la volontà di non recidere il cordone ombelicale con la tradizione. Tradizione rappresentata anche da prodotti che hanno fatto la storia della serie (Martini e Aston Martin su tutti). Qui la lista viene riproposta e ampliata, per un’indigestione di marchi che rasenta l’indecenza. Durante la visione vengono citati, più o meno esplicitamente: Bmw, Volkswagen Beatle, Omega Seamaster, Range Rover, Audi e via dicendo, per una colossale operazione di product placement che si dipana lungo tutto il film. E se bambole e marchi trendy abbondano, lo stesso non si può dire delle scene d’azione, ridotte all’osso e comunque debitrici nei confronti di altre pellicole ben più memorabili di questa. L’orizzonte filmico al quale Mendes si ispira è presto ricostruito: Apocalypse Now (F. F. Coppola, 1979), Cane di paglia (S. Peckimpah, 1971) e Il cavaliere oscuro (C. Nolan, 2008). Soprattutto quest’ultimo viene riproposto in maniera massiccia: Bond sembra Bruce Wayne ma non ne ha il tormento (non è sufficiente una dipendenza da alcol per farlo sembrare più umano); Bardem è Joker, con la stessa voglia di vendetta e la medesima menomazione facciale; Londra è una Gotham City sì più luminosa ma ugualmente sfregiata e in balia delle forze oscure. Usciti dal cinema ho esposto queste ragioni alla mia ragazza. La risposta, pragmatica e puntuale, è stata: «Ma 007 è così. È un figo, c’ha le gnocche… Non è che si può innovare più di tanto». Ho pensato che in fondo avesse ragione. Nulla però mi vieta di continuare a pensare che ciò che ho visto rimane una pacchianata nemmeno troppo di classe.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 10 novembre 2012)
Amour
di Michael Haneke
con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
Drammatico, Francia, Austria, Germania, 125 min., 2012
Tenendoci per mano
abbiamo cadenzato
i nostri passi lievi
con lacrime d'intesa.
Voto: 5 su 5
(Film visionato l'1 novembre 2012)
Reality
di Matteo Garrone
con Aniello Arena, Loredana Simioli, Claudia Gerini, Ciro Petrone, Nunzia Schiano
Drammatico, 115 min., Italia, 2012
Reality è un film a metà. Da una parte abbiamo un’opera formalmente ineccepibile, costituita da sequenze perfette di inquadrature perfette impreziosite dalla bellissima fisicità di attori dalla recitazione convincente e verosimile (basta questo per comprendere perché il film abbia ricevuto il Gran Premio della Giuria a Cannes). Dall’altra abbiamo, ahimè, un’opera narrativamente stanca e irrimediabilmente sorpassata che sta in bilico tra una riproposizione di The Truman Show (P. Weir, 1998) e una rivisitazione di Bellissima (L. Visconti, 1951). I primi dubbi sorgono durante le scene iniziali, tratteggianti un inizio da capolavoro che nasconde però un qualcosa di già visto: il film, che parla degli effetti diretti e indiretti del programma televisivo Grande Fratello, riprende un altro programma televisivo, il Testimone di Pif, che già ci aveva mirabilmente raccontato l’affascinante mondo partenopeo dei matrimoni e dei cantanti neomelodici mettendo in luce tutta la poesia e la cafonaggine di un popolo (quello napoletano) che sembra vivere più per la fama che per il lavoro. Ed è proprio per la fama che il protagonista, il pescivendolo Luciano (l’ottimo Aniello Arena), rischia di perdere la testa e la famiglia. Ecco, la trama del film si esaurisce qui. Con l’aggravante che non c’è un vero finale e che il tema viene trattato con il solito ritardo (e proprio nell’anno in cui il Grande Fratello non andrà in onda).
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 29 settembre 2012)
Il cavaliere oscuro – Il ritorno
di Christopher Nolan
con Christian Bale, Gary Oldman, Morgan Freeman, Michael Caine, Anne Hathaway
Azione, 164 min., USA, GB, 2012
Uno spettro si aggira per Gotham City: quello spettro è Batman Scusate se rielaboro la celeberrima sentenza marxiana ma, in questo modo, riesco in un sol colpo a darvi qualche indizio su ciò che funziona e ciò che non funziona nell’ultimo film di Nolan, che passo a presentarvi per punti. Ciò che non funziona: 1) Sceneggiatura semplice. Troppo semplice. Mi stupisco di tutti quei critici che hanno consigliato più di una visione per sviscerare i contenuti del film. Io declino l’invito con un bel “No grazie”, perché non riuscirei a rivedere tre ore di frasi fatte e luoghi comuni come “Non è importante il corpo ma l’anima”, “Per aumentare la forza bisogna avere paura della morte” e via dicendo. Come non riuscirei a vedere ancora il grande eroe tormentato del secondo capitolo ridotto al rango di macchietta. In questo capitolo la scena gli viene rubata da personaggi di contorno che non ci colpiscono più di tanto e i suoi tormenti lasciano il posto a situazioni poco plausibili. Qualcuno dirà che è giusto così. Ma c’è anche chi pensa, e io sono tra questi, che Il cavaliere oscuro - Il ritorno segni un passo indietro importante nell’evoluzione del genere ed elimina con un veloce colpo di spugna la novità che il capitolo precedente aveva presentato. 2) Come anticipato i personaggi non funzionano. Principalmente perché, se nel capitolo precedente l’attenzione era focalizzata sui due protagonisti (Batman e Joker), qui la selva è stata ampliata all’inverosimile senza conferire al film le peculiarità di un film corale. Le varie figure non vengono pertanto approfondite a sufficienza e l’interesse per loro scema precipitosamente. A Batman (C. Bale) manca il tormento, a Catwoman (A. Hathaway) le ragioni del suo sex appeal, a Bane (T. Hardy) la credibilità di cattivo (da qui si capisce la levatura della prova di Joker-H. Ledger) a Miranda Tate (M. Cotillard) la malizia 3) Zero pathos, nessun combattimento o scena memorabile (vi ricordate, invece, la rapina con cui si apre il capitolo precedente?), nonché numerose riproposizioni di scene già viste. Qualche esempio? La bomba (e come viene trattata) l’avevamo già vista in Spider-Man 2; la modalità con cui Batman deve uscire dalla prigione/pozzo sembra il “salto nella fede” di Indiana Jones e l’ultima crociata (1989, S. Spielberg); Bruce Wayne torna a vincere il male soprattutto grazie alle sue attrezzature come accade con il protagonista di Iron Man 2. Come se non bastasse i combattimenti sono alquanto irreali. Si pensi che quando Batman è circondato gli avversari armati sembrano aspettare di essere sconfitti non sparando neanche un colpo. 4) Il finale (che mi vergogno ad esplicitare) sembra una presa in giro e schiude scenari che non vorremo vedere. Cosa poteva funzionare (e non ha funzionato): La critica sociale. Ad un certo punto del film parteggiamo per il cattivone Bane perché sembra mettere in piedi una sommossa popolare per il riscatto proletario contro lo strapotere dei ricconi di Gotham (che poi è New York) che hanno corrotto la città (e il mondo intero). Assistiamo dunque a una vera e propria Rivoluzione d’ottobre con immancabile attacco al Palazzo d’Inverno (qui la Borsa ) e processi sommari che ci fanno sperare in una sterzata in senso politico del film intero e, magari, in un finale politically uncorrect che abbia la forza di rivoluzionare il tradizionale conservatorismo dei blockbusteroni hollywoodiani. E invece… E invece il tutto si risolve in una critica proprio alla sollevazione popolare, che genera solo anarchia e maggiori ingiustizie e che si scopre essere nient’altro che un piano per una vendetta personale.
Voto: 2 ½ su 5
(Film visionato il 1 settembre 2012)
Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
di Jacques Audiard
con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Bouli Lanners, Céline Sallette
Drammatico, 120 min., Belgio, Francia, 2012
L’impressione è che al film di Audiard manchi qualcosa (stessa cosa pensata anche dopo la visione del Profeta). Questo qualcosa non è certamente la tecnica registica. In Un sapore di ruggine e ossa la presenza della macchina da presa si avverte, ma è certamente un valore aggiunto. Qualche esempio: la luce del mare sfiora i volti dei protagonisti (Alì e Stephane) e anche a noi sembra di avvertirla; le mani ci fanno male quando Alì frantuma le sue contro una lastra di ghiaccio. Lastra di ghiaccio che rompe e taglia come un’affettatrice. Quest’ultima ci fa venire in mente The Wrestler (D. Aronofsky, 2008), e il paragone tra le due pellicole scatta inevitabile (anche in questo caso il protagonista è uno spiantato, vive per la lotta e prova a fare un lavoro onesto senza risultati, impara ad amare una donna senza tanto badare alla sua condizione e cerca di costruire un rapporto con la prole). È a questo punto che il film di Audiard comincia a mettere a nudo i suoi limiti. Avevo definito The Wrestler come "film dell’epidermide", in quanto legato indissolubilmente alla corporeità del suo protagonista. Ecco, qui l’effetto viene raddoppiato (ci sono un uomo e una donna al centro dell’attenzione) e la dirompenza del tema trattato ne esce inevitabilmente dimezzata. In tutto questo la sceneggiatura mette a nudo alcune incoerenze che uno spettatore accorto non può non rilevare: prima tra tutte il fatto che una donna devastata emotivamente a causa della perdita delle gambe abbia il piglio di chiamare un buttafuori conosciuto una sera di mesi e mesi prima; poi il fatto che quello stesso buttafuori la scopi (perché di scopate si tratta) senza fare una piega; inoltre che lei diventi la referente per le scommesse legate alle lotte clandestine alle quali partecipa il suo lui; per ultimo il finale (che non svelo così nessuno si incazza). Senza contare che lo stile “dardenniano” stride un po’ con queste situazioni poco verosimili. Certo, qualcuno invocherà la cara e vecchia “licenza poetica”. Ma io domando: “tout se tient” non è un’espressione francese?
Voto: 3 ½ su 5
(Film visionato il 21 agosto 2012)
Il primo uomo
di Gianni Amelio
con Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès
Biografico, 100 min., Italia, Francia, Algeria, 2011
E pensare che Il primo uomo è nato come una sorta di “ripiego”. Gianni Amelio doveva girare un film sull’immigrazione paterna in Argentina ma sembra che produttori e committenti lo abbiano piantato in asso. La conseguente necessaria virata lo ha fatto approdare alla trasposizione dell’ultimo incompiuto romanzo omonimo di Albert Camus. Ne è uscita un’opera asciutta, misurata, delicata, profonda. Una sorta di romanzo di formazione in immagini che poggia sull’educazione alla vita e ai sentimenti di Jacques Cormery (Jacques Gamblin), il protagonista. Questi è uno scrittore algerino di successo che dalla Francia torna al suo paese d’origine ufficialmente per una conferenza all’università ma, in fondo, per ricongiungersi con i suoi cari. Come una madeleine proustiana, è il letto sul quale Jacques si mette a dormire che fa scattare il meccanismo del ricordo che ci porterà a conoscere l’Algeria colonizzata d’inizio XX secolo ed il bambino che era. Grazie all’ottima prova degli attori (su tutti Gamblin, ma anche il Jacques bambino Nino Jouglet) e alla sobrietà del racconto, veniamo assorbiti da quella che è un’ottima riflessione sull’identità (chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo) senza mai dimenticare che essa è profondamente legata al nostro luogo d’origine. Un gradino sopra Terraferma (Emanuele Crialese, 2011), molti rispetto a Baarìa (Giuseppe Tornatore, 2009), Amelio ha creato una piccola e perfetta perla che nobilita il cinema italiano del 2012.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 20 luglio 2012)
Paradiso amaro (The Descendants)
con George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Nick Crause
Drammatico, 115 min., USA, 2011
Sono due le cose che colpiscono di questo film. Da una parte le atmosfere create e quindi la regia, dall’altra la sceneggiatura. In quest’ultimo caso è rilevante constatare che benché gli sceneggiatori abbiano utilizzato un linguaggio (anche dei corpi) semplice e talvolta sopra le righe (soprattutto nei comportamenti degli adolescenti del film) la storia è interessante e per niente banale: una famiglia per varie ragioni disastrata ritrova sé stessa grazie ad una tragedia, in questo caso una madre morente e fedifraga che spinge tutti i personaggi a fare i conti in primis con loro stessi e successivamente con i loro consanguinei. Come in Little Miss Sunshine (Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006) e I ragazzi stanno bene (The Kids Are Allright, 2010), la sobrietà della regia e la recitazione degli attori danno vita ad un quadro multiforme: tragico e simpatico allo stesso tempo, ma senza mai cadere nel grottesco, il film scorre senza mai un momento di difficoltà verso un finale ampiamente prevedibile, ma non per questo vuoto di significato. Sono poi le atmosfere dei luoghi in cui si muovono i personaggi e il conseguente gioco di contrasti che si viene a creare tra le emozioni dei personaggi e i cambiamenti climatici e i colori delle Hawaii il vero valore aggiunto dell’opera, a rimarcare l’essenza di una vita che è gioia e dolore, amore e morte, una corsa disperata in mocassini su una strada bagnata.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 17 luglio 2012)
Quasi amici - Intouchables
di Eric Toledano e Olivier Nakache
con Francois Cluzet, Omar Sy, Anne Le Ny
Commedia, 112 min., Francia, 2011
Non voglio ripercorrere qui la storia narrata dalla pellicola (già ampiamente conosciuta anche da chi il film non l’ha visto), ma voglio sfruttare l’occasione per ricordare un assunto fondamentale del cinema. Per chi ancora non lo sapesse, l’ingrediente fondamentale per fare una buona commedia è la morte. Il senso di morte deve attraversare tutta la pellicola, fungendo da spauracchio da irridere e sbeffeggiare con costanza e dedizione. Quasi amici mette mirabilmente in scena questo assunto, ormai dimenticato dal cinema italiano, avvalendosi del piglio secco del racconto, del passaggio dalla comicità al dramma e, soprattutto, del “sempreverde” gioco di contrasti. In questo caso: handicap fisico/handicap sociale, ricchezza/povertà, voglia di morire nonostante la ricchezza/voglia di vivere nonostante la povertà, ironia/severità. Qualcuno penserà che tutto questo sia banale. Lo è, ma funziona.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 7 luglio 2012)
I giorni della vendemmia
di Marco Righi
con Lavinia Longhi, Marco D’Agostin, Gian Marco Tavani, Maurizio Tabani, Claudia Botti
80 min, Italia, 2010
È un buon esordio quello di Marco Righi. Il suo “I giorni della vendemmia”, film che prima ha ottenuto riconoscimenti fuori dall’Italia e che ora viene presentato in giro per le piccole sale d’essai della penisola, si lascia guardare dall’inizio alla fine, pur mettendo a nudo numerose “ombre” comunque intervallate da impennate stilistiche e/o narrative degne di nota. Si parte subito bene con una decina di minuti di riuscito affresco emiliano. L’opera è infatti ambientata nell’estate del1984 in una casa della campagna reggiana (il regista è di San Polo d’Enza, provincia di Reggio Emilia) animato da una madre beghina, da un padre berlingueriano, una nonna silenziosa e arguta (il personaggio di contorno più riuscito) e un figlio sedicenne che ascolta dischi, fuma di nascosto e si masturba (rigorosamente in bagno, di spalle). Già dalle prime scene, caratterizzate da un’interessante dilatazione dei tempi narrativi, impariamo a conoscere i personaggi e soprattutto ad immedesimarci nel gracile adolescente Elia (Marco D’Agostin), la cui occupazione è quella di raccogliere l’uva dai filari di famiglia. (Attività quasi subito interrotta dall’arrivo della nonna che prima si fa dare un bacio e poi lo rimprovera dolcemente in dialetto reggiano: “Dam un bes” e, ancora, “Mo vienmi a trovare più spesso”. Chi non si è mai sentito dire queste parole?). Fin qui tutto bene. Anzi, considerando che il film è a budget irrisorio e girato in solo due settimane, il termine corretto da utilizzare sarebbe “sorprendente”: buoni i movimenti di macchina (soprattutto quelli che valorizzano agli ambienti in cui si muovono i personaggi), buona la recitazione, ottima la fotografia (Alessio Valori) e le musiche (Roberto Rabitti), buona la caratterizzazione e la valorizzazione dei personaggi. Fortunatamente questo è il trend dell’intera pellicola, che però comincia a mettere a nudo i primi problemi di natura narrativa a partire dal momento in cui entra in scena Emilia (Lavinia Longhi), spudorata universitaria figlia di amici che si vuole procurare un po’ di soldi offrendo il proprio aiuto al padre di Elia per la vendemmia. Bella e spudorata, Emilia non solo sconvolge la quotidianità dell’imberbe Elia, facendogli scoprire la tensione sessuale (nulla di più), ma anche l’intero film. Da qui, infatti, la struttura della sceneggiatura comincia a scricchiolare pericolosamente, pur non cadendo mai. Cos’è dunque che disattende le premesse del bell’inizio? Un dubbio, che si fa strada a partire dall’entrata in scena di Emilia, personaggio straripante, quasi sempre sopra le righe e poco armonizzato con il contesto in cui comincia a muoversi. Tutto dipende dalle sue battute, quasi sempre eccessive e per questo delineanti un personaggio che è quasi un “corpo estraneo” rispetto alla narrazione. È a causa sua che, quasi per uno strano effetto domino, comincia a sorgere il dubbio che quello che stiamo guardando, in realtà, non sia ambientato nel 1984. Il problema ora riguarda ciò che stiamo osservando, non più come ci viene proposto. Per stessa ammissione del regista le letture che lo hanno influenzato sono state quelle di Pier Vittorio Tondelli (il film si apre con una citazione tondelliana, il protagonista legge “Altri Libertini” e il fratello maggiore è una sorta di alter ego del reale PVT), Enrico Palandri e Gianni Celati. Tutti autori che hanno sì operato negli anni Ottanta ma che, soprattutto nelle loro prime opere, hanno raccontato gli ultimi anni del decennio precedente. Ed è proprio dagli anni Settanta che sembrano uscire questi personaggi: pur avendo una carica sessuale più reazionaria che rivoluzionaria, Emilia che “viene dalla città” sembra essere distante anni luce dalla cultura delle discoteche e dei locali in cui impazzava il new romantic, la new wave o il punk dei CCCP mirabilmente descritto da Tondelli nel suo “Weekend postmoderno”; Samuele (Gian Marco Tavani), fratello maggiore di Elia, sembra appena uscito dal ’77, con i suoi capelli lunghi, le canne (negli anni ottanta impazzava la coca. Chiedere ad Ellis che nel 1984 scriveva Less Than Zero) e un’identita gay troppo poco tormentata; infine una serie di tributi a pellicole di fine anni Settanta, come Novecento di Bertolucci (1976, per il tema della masturbazione e il contesto), Taxi Driver di Scorsese (1976, per il monologo del protagonista all’interno dell’auto), ecc. Degli anni Ottanta resta solo un’azzeccatissima polo Lacoste indossata dal protagonista nel finale. La sensazione è che Righi sia rimasto parzialmente vittima del suo slancio creativo. Quasi come se un’urgenza lo abbia spinto ad avere a tutti i costi una storia (certo, che funziona, e con qualche spunto simpatico e interessante) per poter dimostrare il prima possibile cosa avrebbe potuto fare con la macchina da presa. Peccato, perché con una sceneggiatura un po’ più attenta l’esordio sarebbe potuto essere notevole. Ora, la vera sfida è quella di parlare della campagna, la nostra magnifica campagna emiliana, magari quella che sta ai piedi delle colline dell’Appennino, con una storia maggiormente sobria e delicata, ambientata nella contemporaneità. P.s. Come al solito finale stucchevole e scontato. Ma ormai è la prassi.
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 26 giugno 2012)
di Marco Righi
con Lavinia Longhi, Marco D’Agostin, Gian Marco Tavani, Maurizio Tabani, Claudia Botti
80 min, Italia, 2010
È un buon esordio quello di Marco Righi. Il suo “I giorni della vendemmia”, film che prima ha ottenuto riconoscimenti fuori dall’Italia e che ora viene presentato in giro per le piccole sale d’essai della penisola, si lascia guardare dall’inizio alla fine, pur mettendo a nudo numerose “ombre” comunque intervallate da impennate stilistiche e/o narrative degne di nota. Si parte subito bene con una decina di minuti di riuscito affresco emiliano. L’opera è infatti ambientata nell’estate del
Voto: 2 su 5
(Film visionato il 26 giugno 2012)
Cosmopolis
di David Cronenberg
con Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Paul Giamatti, Mathieu Almaric
Drammatico, 105 min., Canada, Francia, 2012
Non ho voglia di perdere troppo tempo nello scrivere di un film come questo. Mi limiterò pertanto ad argomentare, per punti, le ragioni di una disfatta partendo da una domanda che penso molti ammiratori del regista abbiano formulato durante e dopo la visione. Cronenberg, cosa ti abbiamo fatto per meritarci questo? Regia Quasi due ore di campo/controcampo. Per il resto un’accozzaglia di scene, di cui almeno tre stucchevoli: l’esame della prostata a cui si sottopone l’ansimante protagonista e due scene di sesso fatte talmente male che la pornografia in confronto è più poetica. Mi chiedo perché DeLillo abbia affermato, in un’intervista concessa alla «Repubblica» circa due settimane fa, che la trasposizione del suo romanzo lo soddisfa. Spero stesse scherzando o che, almeno, l’abbia fatto per soldi. Tema Non voglio generalizzare e/o dire inesattezze ma, a logica, il tema trattato dal film (e quindi dal libro, v. riferimento alle dichiarazioni di DeLillo) mi sembra un tantino sorpassato. Critica al capitalismo? Ok, c’è. Ma qui siamo a livello di “fiumi di parole”, contro buoni trattamenti metaforici (e la metafora e i correlativi oggettivi al cinema sono tutto, più dei dialoghi) messi in scena ben prima rispetto a queste opere: per un romanzo Cosmopolis del 2003 c’è un American Psycho del 1991 (!); per un film Cosmopolis del 2012 c’è un Wall Street (1987), un Wall Street - Il denaro non dorme mai (2010) e uno Shame (2011) che, in modo più o meno diretto, mettono a nudo le contraddizioni socio-economiche del capitalismo sotto molteplici e ben più riusciti punti di vista. Attori Stendiamo un velo pietoso sulla prova di Pattinson, capace solo di smorfie vampiresche. La Binoche è la seconda vera delusione. Un’attrice di primo livello avrebbe rifiutato di girare una scena così inutile e imbarazzante. P.s. Quatto persone hanno lasciato la sala (mezza deserta, del multiplex più importante di Parma) prima della fine del film. Due hanno trovato subito la via d’uscita. Gli altri, quasi intrappolati, hanno vagato per la sala tradendo visibili segnali d’insofferenza. Effetti del film.
Voto: 1 su 5
(Film visionato il 2 giugno 2012)
Margin Call
di J. C. Chandor
con Kevin Spacey, Jeremy Irons, Paul Bettany, Zachary Quinto
Thriller, 109 min., Usa, 2011
Homo homini lupus. In un passato ormai remoto le persone dirimevano le questioni con la violenza. Poi è arrivato il denaro. E com’è andata a finire? Che nulla è cambiato: che i più forti (i ricchi) sono quelli che hanno più probabilità di sopravvivere. Questo è ciò che ci insegna Margin Call, buona cronaca delle 24 ore che precedono il recente e catastrofico crollo della borsa di Wall Street. Tutto parte quando il capo dell’Ufficio Controllo Rischi di una banca d’investimenti viene licenziato su due piedi e, di conseguenza, obbligato a lasciare l’edificio. Prima di uscire egli riesce però a lasciare una chiavetta usb con una ricerca incompleta a un giovane collega, il quale scoprirà la sera stessa che il crollo del sistema è molto più vicino di quanto si potesse immaginare. Da questo momento il film si trasforma in una lunga girandola di riunioni di vertice in cui cominciano a “cadere teste” (di dipendenti e di manager utilizzati come capri espiatori) e si cercano soluzioni. Come andrà a finire lo sappiamo tutti: la società d’investimenti si libererà dei prodotti nocivi in fretta e furia mettendo in seria difficoltà i mercati e i risparmiatori.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 19 maggio 2012)
A Simple Life
di Ann Hui
con Andy Lau, Deanie Ip, Wang Fuli, Quin Hailu
Drammatico, 117 min., Hong Kong, 2011
Da sessant’anni, e per ben quattro generazioni, Ah Tao è l’amah (la domestica) di una famiglia di Hong Kong. Eccellente cuoca e provetta “padrona di casa”, Ah Tao ritrova Roger, figlio primogenito del padrone ormai defunto, dopo il ritorno di quest’ultimo dagli Usa. L’infarto subito dalla domestica farà in modo che Roger possa ripagare la sua “madrina” di tutto quello che negli anni lei ha fatto per lui, in un crescendo di reciproco affetto e riconoscenza. Ann Hui colpisce con una storia sorprendente, profonda, delicata, complessa nella definizione della galleria dei personaggi che popolano l’opera e nella costruzione delle scene. Ogni movimento, e con esso ogni espressione (anche la meno percettibile), viene valorizzato dalla macchina da presa, tratteggiando e riempiendo di significato una realtà sociale che non è più solo quella dell’oriente, ma che si caratterizza per un alto grado di universalità. Questo haiku in immagini ci fa dunque tornare alla mente Departures (Yojiro Takita, 2008), altro film capolavoro che come questo ha il merito di dimostrare come la vicinanza della morte possa servire a ritrovare la dolcezza e la pienezza di una vita trascorsa nell’affetto delle persone care.
Voto: 4/5
(Film visionato l’11 aprile 2012)
Cesare deve morire
di Paolo e Vittorio Taviani
Docu-Fiction, Italia, 2012
Il “Giulio Cesare” di Shakespeare diventa il pretesto per riflettere sulla condizione dei carcerati e sui motivi che li hanno privati della libertà. Ignoranza, sete di potere (che nella contemporaneità è sete di denaro) e vendetta sono i temi che avvicinano la rappresentazione del drammaturgo inglese alla vita di chi la mette in scena, abbattendo la barriera della finzione e spingendoci a credere che congiure e delitti si stiano realmente svolgendo nel carcere di Rebibbia. La regia è ottima, la recitazione sorprendente, come pure l’intuizione del parallelismo. Peccato per quei momenti retorici (gli inutili commenti delle guardie, alcune considerazioni degli attori sulla loro vita) che spezzano la tensione narrativa (la compenetrazione tra passato e presente, tra recitazione e vita vera) e banalizzano il nobile intento dei fratelli Taviani: l’arte libera la mente di chi è imprigionato, ma aggrava la sua condizione di recluso poiché lo spinge a riflettere sui propri errori. Memorabili le presentazioni dei reclusi al casting iniziale.
Voto: 3,5 su 5
(Film visionato il 24 marzo 2012)
L’arte di vincere
di Bennett Miller
con Brad Pitt, Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman
Drammatico, 126 min, USA, 2011
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che non può contare su importanti budget come quello a disposizione dei New York Yenkees. Al termine di una stagione sopra le aspettative il loro general manager Billy Beane (B. Pitt) viene addirittura costretto dalla società a cedere tre giocatori importanti e l’esigenza di rimpiazzarli è limitata dal bassissimo tesoretto a sua disposizione. È a questo punto che un incontro, quello con il neolaureato Peter Brand (J. Hill), lo mette in condizione di poter sovvertire questa problematica situazione. Brand, infatti, è un profondo conoscitore delle teorie di Bill James, secondo le quali non servono i soldi per vincere ma bastano solo i giusti giocatori con le giuste medie (di battuta, di ricezione, ecc.) nei giusti ruoli. Gli Oakland Athletics costruiti in base a calcoli economici e matematici riusciranno nell’impresa di vincere il loro girone e magari l’intero campionato? Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare Moneyball (questo il titolo originale) è un film che parla di baseball inquadrando il diamante di gioco il meno possibile. La narrazione si concentra sui “dietro le quinte” dell’ambiente, focalizzando l’attenzione sulla metafora sportiva che scandisce la vita del protagonista. Beane, interpretato da un ottimo Pitt, è un perdente che insegue un’utopia. La sua “asticella”, come lui la definisce, è la vittoria del campionato e ogni mezzo è lecito per superarla: dove non arrivano i soldi e la bravura dei giocatori può arrivare il calcolo (in questo caso matematico), la fantasia e la dedizione. L’insoddisfazione e la scaramanzia sono le sue compagne di vita (le motivazioni che ne stanno alla base sono descritte magistralmente), gli attacchi d’ira la sua valvola di sfogo, le limitate risorse il suo pungolo. Il più vincente dei perdenti ci aiuta, finalmente senza retorica, a ragionare non solo sul mondo dello sport (dove quasi sempre vince il più ricco) ma anche sull’esigenza di fare, prima o poi, i conti con se stessi.
di Bennett Miller
con Brad Pitt, Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman
Drammatico, 126 min, USA, 2011
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che non può contare su importanti budget come quello a disposizione dei New York Yenkees. Al termine di una stagione sopra le aspettative il loro general manager Billy Beane (B. Pitt) viene addirittura costretto dalla società a cedere tre giocatori importanti e l’esigenza di rimpiazzarli è limitata dal bassissimo tesoretto a sua disposizione. È a questo punto che un incontro, quello con il neolaureato Peter Brand (J. Hill), lo mette in condizione di poter sovvertire questa problematica situazione. Brand, infatti, è un profondo conoscitore delle teorie di Bill James, secondo le quali non servono i soldi per vincere ma bastano solo i giusti giocatori con le giuste medie (di battuta, di ricezione, ecc.) nei giusti ruoli. Gli Oakland Athletics costruiti in base a calcoli economici e matematici riusciranno nell’impresa di vincere il loro girone e magari l’intero campionato? Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare Moneyball (questo il titolo originale) è un film che parla di baseball inquadrando il diamante di gioco il meno possibile. La narrazione si concentra sui “dietro le quinte” dell’ambiente, focalizzando l’attenzione sulla metafora sportiva che scandisce la vita del protagonista. Beane, interpretato da un ottimo Pitt, è un perdente che insegue un’utopia. La sua “asticella”, come lui la definisce, è la vittoria del campionato e ogni mezzo è lecito per superarla: dove non arrivano i soldi e la bravura dei giocatori può arrivare il calcolo (in questo caso matematico), la fantasia e la dedizione. L’insoddisfazione e la scaramanzia sono le sue compagne di vita (le motivazioni che ne stanno alla base sono descritte magistralmente), gli attacchi d’ira la sua valvola di sfogo, le limitate risorse il suo pungolo. Il più vincente dei perdenti ci aiuta, finalmente senza retorica, a ragionare non solo sul mondo dello sport (dove quasi sempre vince il più ricco) ma anche sull’esigenza di fare, prima o poi, i conti con se stessi.
Voto: 4 su 5
(Film visionato il 22 febbraio 2012)
Hugo Cabret
di Martin Scorsese
con Asa Butterfield, Ben Kingsley, Sacha Baron Cohen
Avventura, 125 min., USA, 2011
Il cinema è memoria e magia. Questo sembra volerci dire Martin Scorsese con il suo Hugo Cabret, storia di un orfanello che aggiusta gli orologi della stazione di Parigi e che ha un unico sogno: risvegliare l’uomo robot che suo padre stava riparando appena prima di morire. Tra una fuga dal vigilante che lo vuole rinchiudere in un orfanotrofio e i ricordi del padre, passando per l’attenta osservazione della fauna che popola l’ecosistema della Gare de Lyon, Hugo entra in contatto con un misterioso uomo di mezza età che vende giocattoli. Quest’uomo si scoprirà poi essere nientemeno che il regista George Méliès. Prendendo spunto da un’opera letteraria, Scorsese ha creato un film che vuole essere un omaggio al cinema e ad uno dei suoi padri fondatori. (Se i fratelli Lumiere hanno inventato la cinepresa, Méliès è stato tra i primi a credere nelle capacità del mezzo avendo anche il coraggio di innovare. Basti pensare che ad oggi viene considerato il padre degli effetti speciali, di certa punteggiatura cinematografica e del cinema a colori). Ne esce un film che, attraverso un buon 3D, cerca di emulare la magia delle pellicole del grande cineasta d’inizio secolo. Questo sforzo, unitamente alla ricostruzione per immagini della vita del maestro francese e ai costumi, impreziosisce di molto una narrazione a tratti sconfinante nel già visto che cerca di fare leva su una classica galleria di personaggi di sicuro impatto emotivo (l’orfano, il genio caduto ingiustamente in miseria, le accennate storielle d’amore) che riescono a smuovere emozioni nello spettatore ma che talvolta scadono nel retorico. In ultima analisi il film è indubbiamente gradevole, ma se non fosse per l’interessante riferimento alla vicenda biografica di Méliès non sarebbe neanche degno di menzione. 11 nomination sono tante. 5 oscar sono troppi. P.s. Non sono più così sicuro che basti la maestria tecnica per fare dei buoni film. Avatar, in questo senso, insegna. Direte voi: “Tutto è già stato scritto e tutto è già stato detto” pertanto solo le innovazioni tecniche possono innovare. Io vi rispondo affermando che Méliès rischiò di cadere nel dimenticatoio proprio perché puntava molto (forse troppo) sulla tecnica.
di Martin Scorsese
con Asa Butterfield, Ben Kingsley, Sacha Baron Cohen
Avventura, 125 min., USA, 2011
Il cinema è memoria e magia. Questo sembra volerci dire Martin Scorsese con il suo Hugo Cabret, storia di un orfanello che aggiusta gli orologi della stazione di Parigi e che ha un unico sogno: risvegliare l’uomo robot che suo padre stava riparando appena prima di morire. Tra una fuga dal vigilante che lo vuole rinchiudere in un orfanotrofio e i ricordi del padre, passando per l’attenta osservazione della fauna che popola l’ecosistema della Gare de Lyon, Hugo entra in contatto con un misterioso uomo di mezza età che vende giocattoli. Quest’uomo si scoprirà poi essere nientemeno che il regista George Méliès. Prendendo spunto da un’opera letteraria, Scorsese ha creato un film che vuole essere un omaggio al cinema e ad uno dei suoi padri fondatori. (Se i fratelli Lumiere hanno inventato la cinepresa, Méliès è stato tra i primi a credere nelle capacità del mezzo avendo anche il coraggio di innovare. Basti pensare che ad oggi viene considerato il padre degli effetti speciali, di certa punteggiatura cinematografica e del cinema a colori). Ne esce un film che, attraverso un buon 3D, cerca di emulare la magia delle pellicole del grande cineasta d’inizio secolo. Questo sforzo, unitamente alla ricostruzione per immagini della vita del maestro francese e ai costumi, impreziosisce di molto una narrazione a tratti sconfinante nel già visto che cerca di fare leva su una classica galleria di personaggi di sicuro impatto emotivo (l’orfano, il genio caduto ingiustamente in miseria, le accennate storielle d’amore) che riescono a smuovere emozioni nello spettatore ma che talvolta scadono nel retorico. In ultima analisi il film è indubbiamente gradevole, ma se non fosse per l’interessante riferimento alla vicenda biografica di Méliès non sarebbe neanche degno di menzione. 11 nomination sono tante. 5 oscar sono troppi. P.s. Non sono più così sicuro che basti la maestria tecnica per fare dei buoni film. Avatar, in questo senso, insegna. Direte voi: “Tutto è già stato scritto e tutto è già stato detto” pertanto solo le innovazioni tecniche possono innovare. Io vi rispondo affermando che Méliès rischiò di cadere nel dimenticatoio proprio perché puntava molto (forse troppo) sulla tecnica.
Voto: 2,5 su 5
(Film visionato l’8 febbraio 2012)
Le idi di marzo
di George Clooney
con Ryan Gosling, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei, Paul Giamatti
Drammatico, 101 min., Usa, 2011
Breve premessa. "È tardi è tardi è tardi". In questo periodo, tra tesi e lavoro, mi sento un po’ come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie. Pertanto eccovi, per forza di cose, una recensione flash che più flash non si può. Trama. (Per il riassunto vedere la pagina Wikipedia del film o quella miriade di blog che vi propongono una recensione che altro non è che un riassunto dell’intera vicenda). In quest’opera clooneyana i colpi di scena non mancano, ma la trama sembra un filino troppo semplice e lineare. E, fidatevi, non è un pregio. È un vero peccato che il tema "comunicazione&politica", che aveva già dimostrato di essere molto affascinante (v. L’uomo nell’ombra di Roman Polanski, 2010), sia stato trattato in modo così approssimativo, quando invece avrebbe meritato di essere portato in primo piano (è proprio il caso di dirlo) e sviscerato. Dopo Good Night, and Good Luck (2005) Clooney riconferma sì di voler parlare di temi forti (qui le ipocrisie e le bugie dell’ambiente politico), ma non riesce a conferire alla pellicola quell’incisività necessaria per renderla memorabile. (E mentre sto scrivendo penso: sai che novità per noi italiani parlare delle bugie e delle nefandezze della politica!) Recitazione. Avevamo ormai capito che Clooney non è un attore molto versatile. Gosling, qui protagonista, è sulla stessa strada (e per questo giudizio considero anche la prova di Drive). Che poi è la stessa di tutti gli attori "monofaccia" (v. John Cusack, Christian Bale, ecc.). Paul Giamatti e Philip Seymour Hoffman, invece, impreziosiscono questo film con due piccole ma efficacissime parti secondarie. Qui mi fermo, in attesa di tempi migliori. Anche cinematografici. Certo questo film, benché buono, farà fatica a rimanere nella nostra memoria.
Voto: 2½ su 5
(Film visionato il 25 gennaio 2012)
Shame
di Steve McQueen
con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie
Drammatico, 99 min., G.B., 2011
Cosa vuol dire non avere la forza di amare veramente? Ce lo spiega McQueen, tratteggiando con estrema lucidità un vortice, quello della dipendenza dal sesso, che spinge chi ne è affetto sempre più giù, verso la “vergogna” (la parola del titolo), rendendogli quasi impossibile la risalita. Costituita da masturbazione meccanica e sistematica, incessante fruizione di pornografia e selvaggi incontri con prostitute, tale caduta è graduale e inesorabile, sfociante in un senso di inadeguatezza e di vuoto interiore che impedisce a chi ne soffre di intraprendere normali relazioni. Certo, sulle dipendenze molto è già stato detto (v. Giorni perduti di B. Wilder per l’alcol; per la droga la filmografia è sterminata), ma quello del sesso rimaneva un territorio poco esplorato. McQueen ci spiega tutto, proprio tutto, attraverso la perfetta costruzione delle scene (alcune memorabili), una sceneggiatura impeccabile (raro film con dialoghi misurati) e un ottimo rapporto musica/immagini (la colonna sonora è strepitosa). Le immense prove di Fassbender e Mulligan, due veri antieroi postmoderni, aiutano il film a non scadere quasi mai nel retorico. I personaggi che interpretano sono infatti più che verosimili e caratterizzati da una rara umanità che fa risaltare problemi condivisi: entrambi non amano pur facendo regolarmente sesso; entrambi sono soli, lei per colpa di poca autostima, lui per colpa delle sue dipendenze. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Shame non è il classico “pugno nello stomaco”. È, piuttosto, un’opera d’arte che tratta un tema delicato. Grazie agli attori e all’abilità registica il messaggio arriva ed è chiaro: si può avere difficoltà ad amare non solo perché ci si sente inadeguati, ma anche perché, pur essendo persone con tutte le carte in regola, ci si sente “sporchi”, soli, non meritevoli della gratuità di un sentimento. “Retorica”, penserete probabilmente voi. Invece, non c’è nulla di più vero. McQueen ha colpito nel segno.
Voto: 4,5/5
(Film visionato il 18 gennaio 2012)
J. Edgar
di Clint Eastwood
con Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Harmie Hammer, Judi Dench
Biografico, 137 min., USA, 2012
Non è che sull’ultima opera di Eastwood ci sia poi molto da dire. La storia parla infatti della vita di J. Edgar Hoover (Leonardo Di Caprio), colui che per oltre mezzo secolo ha lavorato per l’FBI dando un fondamentale contributo al suo perfezionamento: l’accademia nazionale per l’addestramento degli agenti, l’immenso archivio delle impronte digitali, i laboratori scientifici sono sue intuizioni. Da questo si evince che dire che questo film parla della sua vita vuol anche dire che parla del suo lavoro. Ebbene, è proprio questo il limite del film. Lo spettatore si aspetta di vedere l’evoluzione della polizia federale con una narrazione che si addentra nelle pieghe più recondite dei rapporti di potere, magari arricchita da qualche chicca riguardante i moderni sistemi d’investigazione. Invece l’evoluzione della struttura dell’FBI è solo il pretesto per farci conoscere un uomo, solo, omosessuale, represso, che per non esporsi o dover fare i conti con la sua condizione si consacra totalmente al lavoro. Ecco, in questo il film funziona, ma ad un certo punto la sceneggiatura comincia a mettere a nudo forse troppe debolezze. Perché farci vedere il protagonista vestito da donna davanti ad uno specchio quando è già stato esplicitato più volte che egli ama, ricambiato, l’avvenente collega Clyde (Harmie Hammer), colui che si dimostrerà la sua vera anima gemella? Perché fare scadere i dialoghi al livello di frasi fatte che cercano goffamente di delineare i sentimenti che intercorrono tra i due? Certo, la recitazione di Di Caprio è buona (sorprendono invece Harmie Hammer e la perfetta Judi Dench), la regia anche, ottimi i costumi e le ricostruzioni, i momenti teneri non mancano. Ma non basta. La sensazione di incompiutezza rimane. Per non bocciare questo film lo si potrebbe interpretare come parente di Brokeback Mountain (Ang Lee, 2005). Resta il fatto che da Clint, dopo gli exploit di Gran Torino (2008) e Lettere da Iwo Jima (2006), ci aspettiamo sempre molto di più, anche se i successivi Invictus (2009) e Hereafter (2010) non si sono dimostrati all’altezza. La sua parabola registica è irrimediabilmente discendente?
Voto: 3/5
(Film visionato l’11 gennaio 2012)
The Artist
di Michel Hazanavicious
con Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman
Drammatico, 100 min., Francia, 2011
Italia-Francia 0-1. Ancora una volta la leggerezza e la maestria del cinema francese surclassano l’ampollosità e la monotonia del cinema italiano contemporaneo, e così il potente Harvey Weinstein ha preferito lanciare nella corsa agli Oscar questa perla di Hazanavicious invece di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino, la cui uscita americana è stata ormai spostata a primavera. E dire che, a detta di alcuni, le stesse caratteristiche di The Artist avrebbero potuto giocargli contro. Muto, in bianco e nero, ambientato negli anni Venti e con una storia in cui abbondano i tanto ripudiati “buoni valori”, nessuno si aspettava che potesse dimostrarsi un film così riuscito. Ma vediamo nel dettaglio i suoi punti di forza. La ricostruzione storica e i protagonisti sono praticamente perfetti. Jean Dujardin possiede una bellezza d’altri tempi e occupa la scena come pochi: sempre sorridente e spalleggiato da un cagnolino con il quale vive in simbiosi, interpreta un divo del cinema muto che, dopo aver conosciuto la gloria, si scontra con il passaggio del cinema al sonoro cadendo progressivamente nel dimenticatoio. Chi non cade nel dimenticatoio è invece colei che diventerà la sua amata, una Bérénice Bejo che interpreta una donna decisa, emancipata, ma sempre aperta al sentimento. A livello stilistico, invece, il bianco e nero, le didascalie, la gamma infinita dei grigi a seconda degli stati d’animo del protagonista e, ancora, a livello narrativo, le scene da melò, da love-story e da dramma sono una vera e propria dichiarazione d’amore per il cinema classico hollywoodiano, non solo quello dell’epoca del muto. Infine, a livello citazionistico, ritroviamo capolavori come Quarto potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto di Billy Wilder (la parabola discendente della star, sempre accompagnata dal suo fedele autista), È nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. Allegro, furbo, riuscito, The Artist è un’opera irresistibile (anche un po’ ruffiana dato che Hazanavicious attinge a piene mani dalla “tradizione” per un’operazione che tanto ricorda quella di Tarantino con i b-movies) che ha il merito di far conoscere il cinema e la sua storia a chi ancora non se n’era interessato.
Voto: 4/5
(Film visionato il 21 dicembre 2011)
Midnight in Paris
di Woody Allen
con Owen Wilson, Rachel McAdams, Marion Cotillard, Michael Sheen, Adrien Brody
Commedia, 94 min., USA, Spagna, 2011
Gil Pender (Owen Wilson) è uno sceneggiatore hollywoodiano alle prese con la travagliata stesura del suo primo romanzo e prossimo alle nozze con Inez (McAdams), figlia di un esponente del Tea Party repubblicano. Durante una vacanza con fidanzata e futuri suoceri a Parigi, Gil si innamora perdutamente del luogo, sino a maturare l’idea di trasferircisi. Più che per la città contemporanea, la sua è una vera e propria esigenza di fuga dal presente. Obiettivo: la Parigi degli anni ’20, crocevia culturale di scrittori, musicisti, pittori e registi. Ed è così che, una sera, trascurato dalla compagna che gli preferisce un amico di vecchia data tuttologo e pedante, decide di camminare tra le stradine di Parigi. È qui che, allo scoccare della mezzanotte, la sua nostalgia produce un cortocircuito temporale che lo porterà, sera dopo sera, a partecipare a feste in case private animate dai più grandi artisti del periodo: da Ernest Hemingway a Cole Porter, passando per Pablo Picasso, Buñuel, Dalì e tanti altri. Tutti caratterizzati dai loro tic, dalla loro personalissima genialità e dalla nostalgia per il passato. Un mondo bellissimo è raccontato dal protagonista attraverso il suo sogno, la sua immaginazione. Che è poi l’immaginazione dello stesso Allen. I grandi cineasti, musicisti, pittori e scrittori che popolano le notti parigine sono infatti quelli incontrati nella sua infanzia. Le loro battute, i loro atteggiamenti, non sono altro che una generalizzazione di ciò che tutti conoscono. E così Dalì vuole dipingere un rinoceronte, Hemingway vuole boxare, Porter suona Let’s Do It (Let’s Fall in Love) al pianoforte. Sullo sfondo Parigi. E non poteva essere altrimenti. Stereotipi? Forse, ma in questo caso l’intento non è quello di descrivere analiticamente la capitale francese. È che l’“operazione nostalgia” poteva avere luogo solo nella città che nel giro di mezzo secolo è stata per ben due volte (Belle Epoque e anni Venti) il cuore artistico e culturale dell’Europa e del mondo. Pertanto, è solo nella cornice della capitale che Allen poteva muovere il suo protagonista. Lo fa con ritmo (è il caso di dirlo data la splendida colonna sonora) e leggerezza, le battute sono meno fulminanti rispetto alle opere precedenti, ma questa volta l’intento è quello di fare un film di classe conferendo risalto al messaggio finale. Come ha dichiarato lo stesso Allen: «La vita è tragica e brutale e quindi tutti immaginiamo un altrove fisico o temporale dove avremmo potuto stare meglio. In realtà le cose non migliorano mai davvero. Il mondo è sempre stato un luogo molto duro e se riesci a mettere da parte la nostalgia e guardi più da vicino a quegli anni, ti accorgi che non c’era una cura per la tubercolosi, che i bambini morivano per la polio e che la gente si beccava la sifilide». Certo Allen non ci fa vedere questa negativa sfaccettatura del passato, preferisce charleston e champagne, ma il messaggio arriva.
Voto: 3½ / 5
(Film visionato l’8 dicembre 2011)
Miracolo a Le Havre
di Aki Kaurismäki
con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin
Commedia, 93 min., Finlandia, Francia, Germania, 2011
Dopo Philippe Lioret (Welcome, 2009) e Emanuele Crialese (Terraferma, 2011), anche Aki Kaurismäki si misura con il tema dell’immigrazione. La materia trattata dai tre registi è dunque la stessa, gli approdi assolutamente diversi. Il film dell’italiano è sicuramente il meno riuscito: molta retorica, attori non sempre nella parte, facili sentimentalismi. Quello di Lioret è un capolavoro di sobrietà. Il film del maestro finlandese è invece tanto particolare quanto riuscito. Innanzitutto Kaurismäki ha uno stile inconfondibile: colori pastello, scene da teatro di posa, dialoghi quasi da teatro dell’assurdo. Ma d’assurdo nel suo film ce n’è ben poco. Il protagonista è l’umile lustrascarpe Marcel Marx che vive con l’amata moglie Arletty e la furbissima cagnolina Laika. Un giorno due avvenimenti sconvolgono la sua modesta ma serena vita: il ricovero in ospedale della moglie a causa di una grave malattia; l’incontro con Idrissa, ragazzino immigrato dall’Africa arrivato in Francia in un container e sfuggito alla polizia. Tra una visita all’ospedale e quella successiva, Marcel si prodiga per aiutare Idrissa a superare la Manica al fine di raggiungere la madre in Inghilterra. Lo aiutano i vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – e, inaspettatamente, un detective della polizia professionale ma non integerrimo. Riuscirà Idrissa a raggiungere la sua destinazione? Quale sarà il futuro della moglie di Marcel? La storia è stata concepita come una fiaba: Le Havre potrebbe essere una qualsiasi cittadina di mare; i personaggi non sono caratterizzati psicologicamente ma proprio per questo si caratterizzano per un’intrinseca universalità; di retorica non ce n’è traccia (v. la condizione degli immigrati nel container). Senza contare che certi personaggi e certi dialoghi farebbero impallidire anche il Woody Allen più in forma. In poche parole il miglior Kaurismäki ha trovato la ricchezza nella povertà, il miracolo in un mondo impossibile che tuttavia si ispira (o addirittura rispecchia) quello reale. Finale struggente: un ciliegio in fiore. P.s. Anche in questo film, come in This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, c’è la scena di un concerto. Funzionale, simpatica, ben girata, non tediosa. Bravo Kaurismäki.
Voto: 4/5
(Film visionato il 30 novembre 2011)
Una separazione
di Asghar Farhadi
con Babak Karimi, Leila Hatami, Merila Zarei, Peyman Moaadi, Sareh Bayat
Drammatico, 123 min., Iran, 2011
Vincitore dell’Orso d’oro e dei riconoscimenti riservati agli attori protagonisti e a tutto il cast (non era mai successo), Una separazione è il film che ha dominato l’ultimo Festival di Berlino. Con quest’opera Asghar Farhadi rappresenta la condizione della società iraniana: i vincoli famigliari, la presenza (o meglio, l’ingerenza) della religione, la condizione delle donne, l’opprimente (onni)presenza dello stato. Per tutte queste tematiche si potrebbe parlare di una sorta di “nuovo realismo” iraniano, al fine di indicare un modo di fare cinema che punta tutto sulla capacità di rendere ancora più labili i confini tra realtà e fiction. In Una separazione c’è, infatti, una finzione densa di realtà che tradisce un meccanismo per il quale la seconda si confonde nella prima. E così gli attori sembrano interpretare persone più che verosimili e l’intero contesto sembra corrispondere al più meticoloso identikit della società iraniana, carica di costrizioni e contraddizioni. Dunque, senza mai tradire una sola denuncia esplicita, il film si trincera dietro l’infallibilità della ricostruzione di una situazione possibile: le sequenze sono scandite da porte aperte o chiuse, da scorci di stanze o da finestre in cui spesso appare un terzo personaggio che ascolta in silenzio due dialoganti e funge da alter ego dello spettatore. Noi ci sentiamo allo stesso tempo sodali e giudici ma non di un aspetto della vicenda, bensì dell’intera storia. Una badante ha avuto un grave incidente durante un diverbio con il datore di lavoro. Ogni personaggio offre la propria versione dei fatti, facendo emergere questioni problematiche: la disoccupazione, le leggi sul lavoro, il sistema giudiziario. Avremo il coraggio di giudicare o di parteggiare per una delle due fazioni coinvolte? Nelle lunghe sequenze di dialoghi la tensione è altissima (c’è chi ha parlato di thriller) e finalmente, dopo tanto tempo, rimaniamo incollati allo schermo per sapere come andrà a finire.
Voto: 4½/5
(Film visionato il 5 novembre 2011)
Faust
di Aleksandr Sokurov
con Johannes Zeiler, Stefan Weber, Anton Adasinsky, Hanna Schygulla, Isolda Dychauk, Georg Friedrich
Drammatico, 134 min., Russia, 2010
Non c’è altro modo di iniziare a parlare del Faust di Aleksandr Sokurov se non quello di mettere subito in chiaro una cosa: è riduttivo parlare di film perché siamo di fronte ad un’opera d’arte. Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia il lavoro sintetizza cultura e maestria tecnica, per un risultato che ci fa tornare alla mente vette della cinematografia mondiale quali Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957) e Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979). Lontano dalla spiritualità del Faust di Goethe, quello delineato da Sokurov è un protagonista sì pieno di conoscenza ma profondamente legato alla dimensione terrena, caratterizzata dalla voglia di soddisfare gli istinti primari della fame e del sesso. Come lui anche Mauricius è un Mefistofele molto terreno, asessuato, dal ventre flaccido e l’aspetto ripugnante, che fa l’usuraio e non si cura né dei sentimenti né della cultura. Il mondo in cui i due si muovono è corrotto dalla violenza e dalla miseria, permeato da odori di cadaveri, sporcizia e flatulenze. Per la precisione l’azione si svolge all’inizio dell’Ottocento in un villaggio dell’Europa centrale (Germania?), in cui abitazioni e locande sono state arredate facendo attenzione anche ai minimi particolari. L’operazione di meticolosa ricostruzione degli ambienti si lega anche alla volontà di recuperare le atmosfere e lo spirito popolare originario della leggenda del Faust che, nata da una figura di alchimista forse realmente esistito, si era diffusa in Germania attraverso i Volksbuch (libri del popolo) a partire dalla fine del XXVI secolo e fu tradotta in rappresentazioni comico-farsesche da compagnie popolari e di marionette (Goethe era entrato in contatto con l’opera di Marlowe proprio grazie a queste ultime). La meticolosità di Sokurov si manifesta, pertanto, sia nella recitazione degli attori, che potrebbe essere a tratti ricondotta a quella dei guitti e dei giullari medievali, che nello spirito grottesco e alchemico della tradizione popolare tedesca. Non c’è allora da stupirsi dei molteplici riferimenti dotti riguardanti la cultura del periodo disseminati in tutta l’opera: una dissertazione sulle piante del bosco porta Faust a far notare a Margarete la mandragola (che sappiamo essere pianta dall’essenza afrodisiaca o all’occorrenza mortale); Wagner, allievo ormai folle di Faust, porta con se un homunculus. Come i riferimenti alla cultura del tempo non si esauriscono di certo in questi due esempi, anche i nessi con una certa tradizione cinematografica sono molteplici e rilevanti. Se l’atmosfera e i temi trattati rimandano, come anticipato, al Settimo sigillo di Ingmar Bergman, la struttura dell’opera e l’impianto narrativo richiamano invece il cinema di Andrej Tarkovskij. Non a caso l’acqua e la terra, due dei cinque elementi prepotentemente presenti nella seconda parte del film, sono proprio rimandi a Stalker e Nostalghia (1983). Sokurov è dunque riuscito nel difficilissimo proponimento di reinterpretare visivamente la complessità dell’opera goethiana, anche attraverso l’uso “pittorico” di lenti speciali (molte scene ricordano quelle dei dipinti di Hieronymus Bosh). Come ha dichiarato il regista stesso: «Abbiamo usato strumenti ottici di grandi dimensioni e lenti speciali originali, realizzate in Russia, che il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha usato per la prima volta. L’ispirazione viene dalla pittura europea dei primi decenni dell’Ottocento, soprattutto quella tedesca. I colori, i volti dei personaggi, l’immagine della città e i dettagli della vita quotidiana si riferiscono a quel tipo di iconografia ottocentesca. Per riprodurne l’atmosfera abbiamo cercato oggetti d’epoca in Austria, in Germania, in tutta Europa, ricostruendo esattamente dettagli anche minuti della vita quotidiana, come i vestiti, i cuscini, le lenzuola, le tazze e il cibo. I cavalli che si vedono nel film sono frisoni, la razza equina più antica, di cui ormai sopravvivono solo sessanta esemplari nel mondo. Partivamo dal presupposto che l’uomo è una razza in evoluzione ed è molto importante avere memoria del nostro passato. Uno dei compiti principali del cinema è far rinascere il tempo, con tutti i suoi particolari». Avevamo il timore che dopo la morte di Bergman un certo tipo di cinema (ricercato, erudito, ineccepibile) fosse andato perduto. Con quest’opera Sokurov lo ha salvato.
(Film visionato il 30 ottobre 2011)
This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton
Drammatico, 118 min., Italia, Francia, Irlanda, 2011
L’11 ottobre scorso Antonio D’Orrico, il Fabio Fazio del «Corriere della Sera» (sì, perché come il conduttore di Che tempo che fa anche lui è entusiasta di tutto quello che recensisce), ha pubblicato nel sito online della testata di via Solferino un articolo dal titolo roboante: Quello che non dimenticherò mai di Sorrentino. Il pezzo, dal sottotitolo ancora più altisonante (Le 19 cose imprescindibili di This Must Be the Place), propone una lista di 19 particolarità che dovrebbero farci ricordare per sempre della pellicola in questione. Il problema, però, è che D’Orrico ha compiuto due gravissimi errori: ha portato lo spettatore completamente fuori strada; non ha aiutato il regista ad aprire gli occhi. Sì, perché This Must Be the Place è un film che inizia benino ma finisce veramente male, in un crescendo di errori tanto palesi quanto ingenui. Dal regista del Divo non ce lo saremmo mai aspettato. Quindi ora, per rendergli un servizio e per tentare di riparare agli errori del giornalista, proporrò di seguito la vera lista di motivi per cui ci dimenticheremo prest(issim)o di questo film. 1) Tipologia di film. Road movie? Sicuramente no. Film di formazione? Potrebbe, ma il percorso di maturazione del protagonista non si vede. 2) Trama. Nella prima parte del film ci viene presentato Cheyenne (Sean Penn), un’ex rockstar usurata dagli stravizi del passato che vive in una villa irlandese con la sua amata moglie e passa le giornate tra la noia e l’apatia. Fino a questo punto (contrariamente a quello che potrebbe far pensare l’esilità della trama) l’interesse dello spettatore viene stuzzicato da una miriade di domande che sorgono spontanee: chi è veramente Cheyenne? Chi si nasconde dietro la sua maschera? Perché, lui che è una rockstar, ama così tanto la moglie e le è fedele? Perché non ha avuto figli? Dov’è la sua famiglia? Ecc. Tutto cambia dopo che il protagonista viene raggiunto dalla notizia dell’aggravarsi della malattia del padre e decide di spostarsi negli USA alla ricerca di un aguzzino nazista. Qui inizia infatti una sorta di seconda parte simil on the road in cui vengono celermente risolti tutti gli interrogativi che ci avevano fatto affezionare al protagonista. Così il suo alone di mistero svanisce e del suo futuro non ce ne può più fregar di meno. 3) Temi trattati. Purtroppo (e dico purtroppo perché dal primo film internazionale di Sorrentino ci aspettavamo molto di più) viene detto poco se non addirittura niente. Quel poco che viene detto (come il rapporto padre/figlio) o viene trattato male o è addirittura già stato approfondito (e meglio) in altre pellicole. 4) Dialoghi. I dialoghi sono assolutamente irreali (addirittura più del personaggio Cheyenne), con frasi slegate tra loro che sembrano aforismi da biscotto della fortuna. Per un po’ il giochino funziona, poi diventa ridondante. 5) Regia. Dal regista del Divo tutti si aspettavano il botto. E invece Sorrentino passa da scene inutili (v. il concerto di David Byrne) a sequenze alla Sofia Coppola (ma illogiche e/o venute male). Carina la fotografia, ma ormai a certi livelli è la regola. Stucchevoli le scene della donna a mollo nella piscina e della band che suona nel centro commerciale con i passanti che muovono la testa a tempo di musica. 6) Protagonista. Il personaggio che Penn ha dovuto interpretare (lo ha fatto con talento) è e rimane una macchietta. Infatti, come recita la pagina di Wikipedia, un personaggio per essere ben riuscito deve mostrare tre diverse facce: come sembra, com’è in realtà e come diverrà (lungo l’arco della storia). La macchietta, invece, ha una sola faccia: il come sembra. Cheyenne è quindi un personaggio piatto, non approfondito psicologicamente. 7) Artifici narrativi. I ralenti sono scontati e sicuramente non epici, il montaggio sconclusionato. Inclassificabile, invece, il rapporto musica/immagini, sfruttato come peggio non si potrebbe. 8) Il finale. Per ovvi motivi non lo espliciterò. Vi basti sapere che è inutile, privo di pathos e puerile. Qualcosa di buono rimane in quella che sembrerebbe essere una valle di lacrime? Sì. Come già accennato la prima parte del film, con le sue domande, e la recitazione di Penn. Poi una scena: quella del ping pong.
Voto: 2/5
(Film visionato il 19 ottobre 2011)
Final Destination 5 (3D)
di Steven Quale
con Nicholas D’Agosto, Emma Bell, Miles Fisher
Horror, 92 min., Usa, 2011
Il copione si ripete per la quinta volta. Un ragazzo ha una premonizione, grazie a questa riesce a salvare sé stesso e qualche altro amico da una catastrofe, ma così facendo cambia il disegno della morte e allora quest’ultima li rincorre e cerca di farli fuori tutti nella sequenza in cui nella premonizione li aveva sottratti alla vita. A livello di trama, nulla è cambiato dal primo capitolo della serie. Final Destination 5, però, riesce a fare un passo in avanti. Final Destination 5 riesce laddove il 4 (anch’esso in 3D) aveva fallito e fa compiere al genere un salto di qualità. Il che, data la situazione in cui versano i film horror/splatter, non è poco. I suoi punti di forza sono almeno due. In primis le coincidenze negative che portano alla morte dei vari personaggi sono sempre più imprevedibili e benché si sappia che qualcosa di veramente brutto accadrà non si sa né quando né come. Ed è così che la tensione è crescente e finisce con il non mancare quasi mai. In secondo luogo c’è il vero valore aggiunto del film, un asso nella manica che molti registi non sono riusciti a sfruttare: il 3D. Steven Quale, già supervisore degli effetti speciali di Avatar, ha superato di gran lunga lo scadente risultato in tre dimensioni del film con gli omoni blu e qui è invece riuscito a dare vita ad una prospettiva veramente “da paura” che (finalmente) riesce a dare allo spettatore l’illusione di partecipare alla vicenda. Come se non bastasse il realismo delle tragedie è accresciuto dai numerosi dettagli tridimensionali che abitano la scena e da particolari anatomici assolutamente realistici. In poche parole un film già visto che però, grazie alla tecnologia, riesce ancora a stupire proprio grazie a quel 3D che ormai rischiava di diventare un semplice escamotage per alzare il prezzo dei biglietti. P.s. Non si può considerare la possibilità di guardare e recensire questo film senza averlo visto al cinema in tre dimensioni. Sarebbe come andare a fare una passeggiata al parco invece di fare un giro sul Blu Tornado.
Voto: 2½/5
(Film visionato il 12 ottobre 2011)
Drive
di Nicolas Winding Refn
con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Albert Brooks
Thriller, 95 min., Usa, 2011
Non stupisce che Nicolas Winding Refn sia uno dei registi più corteggiati da Hollywood. Ed infatti il suo film fa sorgere il dubbio che sia una sorta di novello Quentin Tarantino. «Come?», direte voi. Non mi riferisco tanto allo stile, anche perché a Refn sembra mancare la capacità tarantiniana di dare vita a dialoghi tanto spassosi quanto sconclusionati, quanto alla sua maestria nel dare vita ad un film pieno zeppo di citazioni. «Ma è tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis!», esclamerete. Sì, ma non è detto che la trasposizione cinematografica non possa cogliere l’occasione per riproporre alcuni meccanismi che su celluloide hanno dimostrato di funzionare egregiamente. Ed è così che in Drive si possono ritrovare le caratteristiche di almeno quattro o cinque film famosissimi e ormai consolidati nella tradizione cinematografica mondiale. Due di questi, poi, sembrerebbero proprio essere la base dell’intera storia. Questi sono Leon (Luc Besson, 1994) e A History of Violence (David Cronenberg, 2005). Del primo ritorna il rapporto “platonico” tra un killer e una donna (ma qui già sposata e con un bambino), con quest’ultima che risveglia nel protagonista il sentimento d’amore. Del secondo invece viene ripreso quasi in toto l’impianto: in un crescendo di violenza abbiamo un personaggio dal passato oscuro che sa però come uccidere e lo fa con chirurgica precisione (ma là Viggo Mortensen era egregio, qua Ryan Gosling è troppo poco credibile). Noi siamo spinti a chiederci: chi è?; come fa ad uccidere con quella maestria?; quale sarà il suo futuro? Come nel film di Cronenberg non ci è dato sapere. Continuando con il gioco dei rimandi non stupisce poi che la pellicola si apra con una rapina, e qui è inutile elencare la lunga lista di film che principiano in questo modo (da ultimo Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, 2008), e finisca con un incidente che assomiglia a quello dell'inizio di Mulholland Drive (David Lynch, 2001). Come se non bastasse, a livello stilistico la musica e i continui ralenti sono una presenza costante. Ed è così che la mente torna alle Regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Certo, la scelta è funzionale a rendere epiche anche le scene di collegamento che rischierebbero di essere fiacche ma in questo modo il regista palesa il suo timore di non riuscire a tenere alta la soglia d’attenzione nello spettatore. Un (mal)celato segno di debolezza che dimostra quanto la storia sia in fondo già vista. Dopo il Cigno nero di Darren Aronofsky (2010) avanti dunque con un’altra accoppiata film/regista che desidera più compiacere il pubblico in tutto e per tutto che proporre qualcosa di nuovo. In poche parole un ottimo prodotto senza cuore.
Voto: 3/5
(Film visionato il 7 ottobre 2011)
A Dangerous Method
di David Cronenberg
con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel
Drammatico, 93 min., Gran Bretagna, Germania, Canada, 2011
È vero che dopo due bellissimi film come A History of Violence e La promessa dell’assassino non ci si poteva aspettare che Cronenberg continuasse a sfornare un capolavoro dopo l’altro. Ma il suo ultimo film fa sorgere nello spettatore accorto troppi dubbi. Per prima cosa A Dangerous Method non riesce a fotografare l’epoca in cui si svolge l’azione. Siamo nella Zurigo d’inizio XX secolo ma poco traspare dell’importantissima e feconda cultura mitteleuropea del periodo (magistralmente ricostruita invece nel Nastro Bianco di Michael Haneke, 2009). Già questo è molto grave perché le scoperte freudiane e junghiane rimangono orfane del contesto in cui sono state sviluppate. Come se non bastasse, lo spettatore che non possiede un’infarinatura di tali teorie non riuscirà a comprendere fino in fondo la querelle tra Freud e Jung e neppure come quest’ultimo riesce a curare con le scoperte del primo la giovane ebrea-russa Sabina Spielrein. Che dire degli attori che li interpretano? A Viggo Mortensen non basta l’onnipresente sigaro per sembrare Freud, come non riesce ad essere fino in fondo nel personaggio Michael Fassbender, credibile nella prima parte del film ma troppo poco tormentato nel finale. Completamente inadeguata, invece, Keira Knightley troppo ostentatamente isterica per assomigliare alla sofferente Sabina Spielrein. Che dire delle situazioni? Immaginarsi un Jung che ad inizio secolo “sculaccia”(!) la Spielrein è veramente un insulto all’intelligenza dello spettatore e, come se non bastasse, gran parte dei dialoghi risultano troppo poco credibili per l’epoca. Discutibile anche la figura di Otto Gross (Vincent Cassel), che come una sorta di Lucignolo spinge l’amico e collega Jung nel vortice di sesso e trasgressione del rapporto adultero con l’ex paziente e futura collega Spielrein. Qualcosa di positivo rimane? Sì, la scena di “medicina pionieristica” in cui Jung analizza la psiche della moglie tramite associazioni mentali e una sorta di proto-macchina della verità (potete vedere stralci della scena all’inizio del trailer). Come avete potuto capire la sceneggiatura di Christopher Hampton, basata su un suo lavoro teatrale del 2002, non regge più di tanto. Non siamo dunque poi così sicuri di imputare tutte le colpe a Cronenberg. Certo il tema aveva già mietuto una vittima: Roberto Faenza e il suo Prendimi l’anima.
Voto: 2½ /5
(Film visionato il 5 ottobre 2011)
Carnage
di Roman Polanski
con Jodie Foster, Christoph Waltz, John C. Reilly, Kate Winslet
Drammatico, 79 min., Francia, Germania, Polonia, Spagna, 2011
Senza usare troppi giri di parole, è giusto mettere subito in chiaro che Carnage è un film ineccepibile. «Come?», direte voi. E io vi ripeto che sì, è impeccabile. Per vari motivi che espliciterò qui di seguito e in modo schematico. Vediamoli. La storia Nei titoli di testa si legge che la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani. Nella voce figurano infatti i nomi del regista Roman Polanski e di una donna, Yasmina Reza. Drammaturga, scrittrice e attrice francese la Reza ha scritto per il teatro nel 2007 Le Dieu du carnage (Il Dio del massacro o Il Dio della carneficina), opera dalla quale è stato tratto il film in questione. Come si può intuire Polanski avrà certamente giocato un ruolo fondamentale nel rendere il testo conforme ai tempi filmici. Ma la sostanza non cambia. La storia della Reza è molto calibrata, capace di mettere a nudo i difetti e le carenze di una generazione di genitori di mezz’età che vivono sempre di più avulsi dalla realtà dei loro figli. Per colpa del lavoro, per presunzione, per il loro meschino idealismo o per ignoranza ed egoismo. E la scrittura della Reza non mette in luce solo questo. Accentua infatti anche le differenze tra uomini e donne con sottile e caustica ironia. Insomma, una sceneggiatura assolutamente completa che fa dei dialoghi il suo punto di forza. Gli attori Tutti praticamente perfetti. C’è chi risalta di più, come Jodie Foster e Christoph Waltz, c’è chi sembra coprire il ruolo di comprimario e invece è altrettanto importante, come John C. Reilly e Kate Winslet. Come se non bastasse nessuno di loro è sprovvisto del phisique du role. Riassumendo: tutti bravi, tutti credibili. La regia La vicenda si svolge in quattro (ribadisco, 4) ambienti: salotto, pianerottolo, cucina e bagno. Nonostante questo il film non ha niente a che vedere con le tragedie italiane tutte crisi esistenziali, salotto con immancabile credenza della nonna, un tavolo e quattro sedie. Questo non solo perché l’arredamento è differente, ma soprattutto perché le scene sono state girate con assoluta maestria. Le riprese e il montaggio, infatti, fanno in modo che le immagini seguano le battute, all’occorrenza enfatizzandole, e il ritmo che ne deriva è perfettamente omogeneo e bilanciato. Da notare che non c’è un’inquadratura che duri più di dieci secondi e l’uso sapiente della messa a fuoco che, all’occorrenza, esclude o include i personaggi disposti in primo o secondo piano. E così Polanski ha creato un’opera pienamente cinematografica schivando uno ad uno i riverberi della messa in scena teatrale.
Voto: 4/5
(Film visionato il 21 settembre 2011)
Terraferma
di Emanuele Crialese
con Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello
Drammatico, 88 min., Italia, Francia, 2011
Come nella seconda pala di un dittico, ovvero dopo aver parlato in Nuovomondo (2006) dell’immigrazione italiana negli USA ad inizio Novecento, Crialese tratta in Terraferma il tema dei viaggi disperati degli africani che cercano di arrivare in Europa (la terraferma del titolo). Prima tappa obbligata del percorso le isolette che gravitano attorno alla Sicilia. Ed è proprio in una di queste (Linosa, ma tutti sono portati a pensare a Lampedusa) che si svolge l’azione. Azione che, a pensarci bene, si articola in un lungo elenco di contrapposizioni (abitanti-villeggianti, abitanti-immigrati, villeggianti-immigrati, pescatori-finanza, speranza-rassegnazione, ecc.) che è possibile palesare parlando brevemente di ciò che accade nel film. Filippo (Filippo Pucillo), giovane uomo orfano di padre, vive con la madre Giulietta (Donatella Finocchiaro) e il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio). Durante una battuta di pesca i due uomini prestano soccorso ad alcuni immigrati che rischiano di affogare. Tra di loro figurano anche una donna gravida ed il suo figlioletto. Seguendo la "legge del mare" Ernesto decide di dare asilo alla donna, che gli partorisce in casa la stessa notte. La mattina seguente iniziano i problemi: la guardia di finanza sequestra al vecchio la barca, con l’accusa di aver aiutato alcuni immigrati; i villeggianti sono sempre più spaventati dalla situazione ma pretendono comunque di essere serviti e riveriti; i pescatori vivono momenti di tensione con i rappresentanti di una legge che gli chiede di contravvenire alla legge del mare "girandosi dall’altra parte" alla vista di persone in difficoltà. È da notare come ogni situazione abbia un personaggio emblematico di riferimento. Nino (Beppe Fiorello) è il rappresentante di una nuova generazione che vede il futuro solo nel turismo e che è pronta a negare ogni evidenza (gli sbarchi) pur di non perdere il denaro dei vacanzieri-clienti. Filippo, interpretato da un Pucillo che nella recitazione ricorda molto il Ninetto Davoli dei film di Pasolini, vive la tensione tra i valori tramandatigli dal nonno e le pulsioni giovanili. Nonno Ernesto, nella presenza fisica e nella generosità, è una figura ieratica che si distingue dalle altre (ma non da quelle dei pescatori della sua generazione) per carità innata. Infine Giulietta è il simbolo della compassione, lei che dopo aver superato una prima reticenza si lega alla donna cui ha dato asilo grazie alla comune sensibilità materna. Come si è potuto capire l’opera di Crialese è, nella sua apparente semplicità, complessa e ramificata a livello tematico. Inoltre (onore al merito) la regia è notevole: anche questa volta ci rimarranno impresse almeno un paio di sequenze (v. l’immagine della locandina). Quello che non funziona fino in fondo è un cortocircuito che nasce dal rapporto tra la recitazione della Finocchiaro e quella di Cuticchio. La prima, pur nella sua bravura, rappresenta un cinema fatto da divi che male si sposa con le tematiche trattate. Ovvero, anche se la Finocchiaro è stata diretta con l’intento di ricordare Anna Magnani (soprattutto nella fisicità più che nella recitazione) l’effetto è quello di una falsa isolana troppo poco cotta dal sole e consumata dalla salsedine. Il secondo è invece il personaggio che funziona di più, soprattutto in rapporto al tema e al contesto. È sublime la riunione dei vecchi pescatori, nella quale è tra i protagonisti, che ci fa ripensare alla tradizione del Neorealismo che i giovani registi cercano troppo spesso di evitare (senza successo). Cosa resta da dire? I sentimenti ci sono, i valori anche, come pure gli interrogativi. I dubbi però rimangono di fronte all’ennesimo tentativo di stiparli (è proprio il caso di dirlo) tutti dentro un’unica opera.
Voto: 3½/5
(Film visionato il 14 settembre 2011)
The Tree of Life
di Aleksandr Sokurov
con Johannes Zeiler, Stefan Weber, Anton Adasinsky, Hanna Schygulla, Isolda Dychauk, Georg Friedrich
Drammatico, 134 min., Russia, 2010
Non c’è altro modo di iniziare a parlare del Faust di Aleksandr Sokurov se non quello di mettere subito in chiaro una cosa: è riduttivo parlare di film perché siamo di fronte ad un’opera d’arte. Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia il lavoro sintetizza cultura e maestria tecnica, per un risultato che ci fa tornare alla mente vette della cinematografia mondiale quali Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957) e Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979). Lontano dalla spiritualità del Faust di Goethe, quello delineato da Sokurov è un protagonista sì pieno di conoscenza ma profondamente legato alla dimensione terrena, caratterizzata dalla voglia di soddisfare gli istinti primari della fame e del sesso. Come lui anche Mauricius è un Mefistofele molto terreno, asessuato, dal ventre flaccido e l’aspetto ripugnante, che fa l’usuraio e non si cura né dei sentimenti né della cultura. Il mondo in cui i due si muovono è corrotto dalla violenza e dalla miseria, permeato da odori di cadaveri, sporcizia e flatulenze. Per la precisione l’azione si svolge all’inizio dell’Ottocento in un villaggio dell’Europa centrale (Germania?), in cui abitazioni e locande sono state arredate facendo attenzione anche ai minimi particolari. L’operazione di meticolosa ricostruzione degli ambienti si lega anche alla volontà di recuperare le atmosfere e lo spirito popolare originario della leggenda del Faust che, nata da una figura di alchimista forse realmente esistito, si era diffusa in Germania attraverso i Volksbuch (libri del popolo) a partire dalla fine del XXVI secolo e fu tradotta in rappresentazioni comico-farsesche da compagnie popolari e di marionette (Goethe era entrato in contatto con l’opera di Marlowe proprio grazie a queste ultime). La meticolosità di Sokurov si manifesta, pertanto, sia nella recitazione degli attori, che potrebbe essere a tratti ricondotta a quella dei guitti e dei giullari medievali, che nello spirito grottesco e alchemico della tradizione popolare tedesca. Non c’è allora da stupirsi dei molteplici riferimenti dotti riguardanti la cultura del periodo disseminati in tutta l’opera: una dissertazione sulle piante del bosco porta Faust a far notare a Margarete la mandragola (che sappiamo essere pianta dall’essenza afrodisiaca o all’occorrenza mortale); Wagner, allievo ormai folle di Faust, porta con se un homunculus. Come i riferimenti alla cultura del tempo non si esauriscono di certo in questi due esempi, anche i nessi con una certa tradizione cinematografica sono molteplici e rilevanti. Se l’atmosfera e i temi trattati rimandano, come anticipato, al Settimo sigillo di Ingmar Bergman, la struttura dell’opera e l’impianto narrativo richiamano invece il cinema di Andrej Tarkovskij. Non a caso l’acqua e la terra, due dei cinque elementi prepotentemente presenti nella seconda parte del film, sono proprio rimandi a Stalker e Nostalghia (1983). Sokurov è dunque riuscito nel difficilissimo proponimento di reinterpretare visivamente la complessità dell’opera goethiana, anche attraverso l’uso “pittorico” di lenti speciali (molte scene ricordano quelle dei dipinti di Hieronymus Bosh). Come ha dichiarato il regista stesso: «Abbiamo usato strumenti ottici di grandi dimensioni e lenti speciali originali, realizzate in Russia, che il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha usato per la prima volta. L’ispirazione viene dalla pittura europea dei primi decenni dell’Ottocento, soprattutto quella tedesca. I colori, i volti dei personaggi, l’immagine della città e i dettagli della vita quotidiana si riferiscono a quel tipo di iconografia ottocentesca. Per riprodurne l’atmosfera abbiamo cercato oggetti d’epoca in Austria, in Germania, in tutta Europa, ricostruendo esattamente dettagli anche minuti della vita quotidiana, come i vestiti, i cuscini, le lenzuola, le tazze e il cibo. I cavalli che si vedono nel film sono frisoni, la razza equina più antica, di cui ormai sopravvivono solo sessanta esemplari nel mondo. Partivamo dal presupposto che l’uomo è una razza in evoluzione ed è molto importante avere memoria del nostro passato. Uno dei compiti principali del cinema è far rinascere il tempo, con tutti i suoi particolari». Avevamo il timore che dopo la morte di Bergman un certo tipo di cinema (ricercato, erudito, ineccepibile) fosse andato perduto. Con quest’opera Sokurov lo ha salvato.
(Film visionato il 30 ottobre 2011)
This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton
Drammatico, 118 min., Italia, Francia, Irlanda, 2011
L’11 ottobre scorso Antonio D’Orrico, il Fabio Fazio del «Corriere della Sera» (sì, perché come il conduttore di Che tempo che fa anche lui è entusiasta di tutto quello che recensisce), ha pubblicato nel sito online della testata di via Solferino un articolo dal titolo roboante: Quello che non dimenticherò mai di Sorrentino. Il pezzo, dal sottotitolo ancora più altisonante (Le 19 cose imprescindibili di This Must Be the Place), propone una lista di 19 particolarità che dovrebbero farci ricordare per sempre della pellicola in questione. Il problema, però, è che D’Orrico ha compiuto due gravissimi errori: ha portato lo spettatore completamente fuori strada; non ha aiutato il regista ad aprire gli occhi. Sì, perché This Must Be the Place è un film che inizia benino ma finisce veramente male, in un crescendo di errori tanto palesi quanto ingenui. Dal regista del Divo non ce lo saremmo mai aspettato. Quindi ora, per rendergli un servizio e per tentare di riparare agli errori del giornalista, proporrò di seguito la vera lista di motivi per cui ci dimenticheremo prest(issim)o di questo film. 1) Tipologia di film. Road movie? Sicuramente no. Film di formazione? Potrebbe, ma il percorso di maturazione del protagonista non si vede. 2) Trama. Nella prima parte del film ci viene presentato Cheyenne (Sean Penn), un’ex rockstar usurata dagli stravizi del passato che vive in una villa irlandese con la sua amata moglie e passa le giornate tra la noia e l’apatia. Fino a questo punto (contrariamente a quello che potrebbe far pensare l’esilità della trama) l’interesse dello spettatore viene stuzzicato da una miriade di domande che sorgono spontanee: chi è veramente Cheyenne? Chi si nasconde dietro la sua maschera? Perché, lui che è una rockstar, ama così tanto la moglie e le è fedele? Perché non ha avuto figli? Dov’è la sua famiglia? Ecc. Tutto cambia dopo che il protagonista viene raggiunto dalla notizia dell’aggravarsi della malattia del padre e decide di spostarsi negli USA alla ricerca di un aguzzino nazista. Qui inizia infatti una sorta di seconda parte simil on the road in cui vengono celermente risolti tutti gli interrogativi che ci avevano fatto affezionare al protagonista. Così il suo alone di mistero svanisce e del suo futuro non ce ne può più fregar di meno. 3) Temi trattati. Purtroppo (e dico purtroppo perché dal primo film internazionale di Sorrentino ci aspettavamo molto di più) viene detto poco se non addirittura niente. Quel poco che viene detto (come il rapporto padre/figlio) o viene trattato male o è addirittura già stato approfondito (e meglio) in altre pellicole. 4) Dialoghi. I dialoghi sono assolutamente irreali (addirittura più del personaggio Cheyenne), con frasi slegate tra loro che sembrano aforismi da biscotto della fortuna. Per un po’ il giochino funziona, poi diventa ridondante. 5) Regia. Dal regista del Divo tutti si aspettavano il botto. E invece Sorrentino passa da scene inutili (v. il concerto di David Byrne) a sequenze alla Sofia Coppola (ma illogiche e/o venute male). Carina la fotografia, ma ormai a certi livelli è la regola. Stucchevoli le scene della donna a mollo nella piscina e della band che suona nel centro commerciale con i passanti che muovono la testa a tempo di musica. 6) Protagonista. Il personaggio che Penn ha dovuto interpretare (lo ha fatto con talento) è e rimane una macchietta. Infatti, come recita la pagina di Wikipedia, un personaggio per essere ben riuscito deve mostrare tre diverse facce: come sembra, com’è in realtà e come diverrà (lungo l’arco della storia). La macchietta, invece, ha una sola faccia: il come sembra. Cheyenne è quindi un personaggio piatto, non approfondito psicologicamente. 7) Artifici narrativi. I ralenti sono scontati e sicuramente non epici, il montaggio sconclusionato. Inclassificabile, invece, il rapporto musica/immagini, sfruttato come peggio non si potrebbe. 8) Il finale. Per ovvi motivi non lo espliciterò. Vi basti sapere che è inutile, privo di pathos e puerile. Qualcosa di buono rimane in quella che sembrerebbe essere una valle di lacrime? Sì. Come già accennato la prima parte del film, con le sue domande, e la recitazione di Penn. Poi una scena: quella del ping pong.
Voto: 2/5
(Film visionato il 19 ottobre 2011)
Final Destination 5 (3D)
di Steven Quale
con Nicholas D’Agosto, Emma Bell, Miles Fisher
Horror, 92 min., Usa, 2011
Il copione si ripete per la quinta volta. Un ragazzo ha una premonizione, grazie a questa riesce a salvare sé stesso e qualche altro amico da una catastrofe, ma così facendo cambia il disegno della morte e allora quest’ultima li rincorre e cerca di farli fuori tutti nella sequenza in cui nella premonizione li aveva sottratti alla vita. A livello di trama, nulla è cambiato dal primo capitolo della serie. Final Destination 5, però, riesce a fare un passo in avanti. Final Destination 5 riesce laddove il 4 (anch’esso in 3D) aveva fallito e fa compiere al genere un salto di qualità. Il che, data la situazione in cui versano i film horror/splatter, non è poco. I suoi punti di forza sono almeno due. In primis le coincidenze negative che portano alla morte dei vari personaggi sono sempre più imprevedibili e benché si sappia che qualcosa di veramente brutto accadrà non si sa né quando né come. Ed è così che la tensione è crescente e finisce con il non mancare quasi mai. In secondo luogo c’è il vero valore aggiunto del film, un asso nella manica che molti registi non sono riusciti a sfruttare: il 3D. Steven Quale, già supervisore degli effetti speciali di Avatar, ha superato di gran lunga lo scadente risultato in tre dimensioni del film con gli omoni blu e qui è invece riuscito a dare vita ad una prospettiva veramente “da paura” che (finalmente) riesce a dare allo spettatore l’illusione di partecipare alla vicenda. Come se non bastasse il realismo delle tragedie è accresciuto dai numerosi dettagli tridimensionali che abitano la scena e da particolari anatomici assolutamente realistici. In poche parole un film già visto che però, grazie alla tecnologia, riesce ancora a stupire proprio grazie a quel 3D che ormai rischiava di diventare un semplice escamotage per alzare il prezzo dei biglietti. P.s. Non si può considerare la possibilità di guardare e recensire questo film senza averlo visto al cinema in tre dimensioni. Sarebbe come andare a fare una passeggiata al parco invece di fare un giro sul Blu Tornado.
Voto: 2½/5
(Film visionato il 12 ottobre 2011)
Drive
di Nicolas Winding Refn
con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Albert Brooks
Thriller, 95 min., Usa, 2011
Non stupisce che Nicolas Winding Refn sia uno dei registi più corteggiati da Hollywood. Ed infatti il suo film fa sorgere il dubbio che sia una sorta di novello Quentin Tarantino. «Come?», direte voi. Non mi riferisco tanto allo stile, anche perché a Refn sembra mancare la capacità tarantiniana di dare vita a dialoghi tanto spassosi quanto sconclusionati, quanto alla sua maestria nel dare vita ad un film pieno zeppo di citazioni. «Ma è tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis!», esclamerete. Sì, ma non è detto che la trasposizione cinematografica non possa cogliere l’occasione per riproporre alcuni meccanismi che su celluloide hanno dimostrato di funzionare egregiamente. Ed è così che in Drive si possono ritrovare le caratteristiche di almeno quattro o cinque film famosissimi e ormai consolidati nella tradizione cinematografica mondiale. Due di questi, poi, sembrerebbero proprio essere la base dell’intera storia. Questi sono Leon (Luc Besson, 1994) e A History of Violence (David Cronenberg, 2005). Del primo ritorna il rapporto “platonico” tra un killer e una donna (ma qui già sposata e con un bambino), con quest’ultima che risveglia nel protagonista il sentimento d’amore. Del secondo invece viene ripreso quasi in toto l’impianto: in un crescendo di violenza abbiamo un personaggio dal passato oscuro che sa però come uccidere e lo fa con chirurgica precisione (ma là Viggo Mortensen era egregio, qua Ryan Gosling è troppo poco credibile). Noi siamo spinti a chiederci: chi è?; come fa ad uccidere con quella maestria?; quale sarà il suo futuro? Come nel film di Cronenberg non ci è dato sapere. Continuando con il gioco dei rimandi non stupisce poi che la pellicola si apra con una rapina, e qui è inutile elencare la lunga lista di film che principiano in questo modo (da ultimo Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, 2008), e finisca con un incidente che assomiglia a quello dell'inizio di Mulholland Drive (David Lynch, 2001). Come se non bastasse, a livello stilistico la musica e i continui ralenti sono una presenza costante. Ed è così che la mente torna alle Regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Certo, la scelta è funzionale a rendere epiche anche le scene di collegamento che rischierebbero di essere fiacche ma in questo modo il regista palesa il suo timore di non riuscire a tenere alta la soglia d’attenzione nello spettatore. Un (mal)celato segno di debolezza che dimostra quanto la storia sia in fondo già vista. Dopo il Cigno nero di Darren Aronofsky (2010) avanti dunque con un’altra accoppiata film/regista che desidera più compiacere il pubblico in tutto e per tutto che proporre qualcosa di nuovo. In poche parole un ottimo prodotto senza cuore.
Voto: 3/5
(Film visionato il 7 ottobre 2011)
A Dangerous Method
di David Cronenberg
con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel
Drammatico, 93 min., Gran Bretagna, Germania, Canada, 2011
È vero che dopo due bellissimi film come A History of Violence e La promessa dell’assassino non ci si poteva aspettare che Cronenberg continuasse a sfornare un capolavoro dopo l’altro. Ma il suo ultimo film fa sorgere nello spettatore accorto troppi dubbi. Per prima cosa A Dangerous Method non riesce a fotografare l’epoca in cui si svolge l’azione. Siamo nella Zurigo d’inizio XX secolo ma poco traspare dell’importantissima e feconda cultura mitteleuropea del periodo (magistralmente ricostruita invece nel Nastro Bianco di Michael Haneke, 2009). Già questo è molto grave perché le scoperte freudiane e junghiane rimangono orfane del contesto in cui sono state sviluppate. Come se non bastasse, lo spettatore che non possiede un’infarinatura di tali teorie non riuscirà a comprendere fino in fondo la querelle tra Freud e Jung e neppure come quest’ultimo riesce a curare con le scoperte del primo la giovane ebrea-russa Sabina Spielrein. Che dire degli attori che li interpretano? A Viggo Mortensen non basta l’onnipresente sigaro per sembrare Freud, come non riesce ad essere fino in fondo nel personaggio Michael Fassbender, credibile nella prima parte del film ma troppo poco tormentato nel finale. Completamente inadeguata, invece, Keira Knightley troppo ostentatamente isterica per assomigliare alla sofferente Sabina Spielrein. Che dire delle situazioni? Immaginarsi un Jung che ad inizio secolo “sculaccia”(!) la Spielrein è veramente un insulto all’intelligenza dello spettatore e, come se non bastasse, gran parte dei dialoghi risultano troppo poco credibili per l’epoca. Discutibile anche la figura di Otto Gross (Vincent Cassel), che come una sorta di Lucignolo spinge l’amico e collega Jung nel vortice di sesso e trasgressione del rapporto adultero con l’ex paziente e futura collega Spielrein. Qualcosa di positivo rimane? Sì, la scena di “medicina pionieristica” in cui Jung analizza la psiche della moglie tramite associazioni mentali e una sorta di proto-macchina della verità (potete vedere stralci della scena all’inizio del trailer). Come avete potuto capire la sceneggiatura di Christopher Hampton, basata su un suo lavoro teatrale del 2002, non regge più di tanto. Non siamo dunque poi così sicuri di imputare tutte le colpe a Cronenberg. Certo il tema aveva già mietuto una vittima: Roberto Faenza e il suo Prendimi l’anima.
Voto: 2½ /5
(Film visionato il 5 ottobre 2011)
Carnage
di Roman Polanski
con Jodie Foster, Christoph Waltz, John C. Reilly, Kate Winslet
Drammatico, 79 min., Francia, Germania, Polonia, Spagna, 2011
Senza usare troppi giri di parole, è giusto mettere subito in chiaro che Carnage è un film ineccepibile. «Come?», direte voi. E io vi ripeto che sì, è impeccabile. Per vari motivi che espliciterò qui di seguito e in modo schematico. Vediamoli. La storia Nei titoli di testa si legge che la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani. Nella voce figurano infatti i nomi del regista Roman Polanski e di una donna, Yasmina Reza. Drammaturga, scrittrice e attrice francese la Reza ha scritto per il teatro nel 2007 Le Dieu du carnage (Il Dio del massacro o Il Dio della carneficina), opera dalla quale è stato tratto il film in questione. Come si può intuire Polanski avrà certamente giocato un ruolo fondamentale nel rendere il testo conforme ai tempi filmici. Ma la sostanza non cambia. La storia della Reza è molto calibrata, capace di mettere a nudo i difetti e le carenze di una generazione di genitori di mezz’età che vivono sempre di più avulsi dalla realtà dei loro figli. Per colpa del lavoro, per presunzione, per il loro meschino idealismo o per ignoranza ed egoismo. E la scrittura della Reza non mette in luce solo questo. Accentua infatti anche le differenze tra uomini e donne con sottile e caustica ironia. Insomma, una sceneggiatura assolutamente completa che fa dei dialoghi il suo punto di forza. Gli attori Tutti praticamente perfetti. C’è chi risalta di più, come Jodie Foster e Christoph Waltz, c’è chi sembra coprire il ruolo di comprimario e invece è altrettanto importante, come John C. Reilly e Kate Winslet. Come se non bastasse nessuno di loro è sprovvisto del phisique du role. Riassumendo: tutti bravi, tutti credibili. La regia La vicenda si svolge in quattro (ribadisco, 4) ambienti: salotto, pianerottolo, cucina e bagno. Nonostante questo il film non ha niente a che vedere con le tragedie italiane tutte crisi esistenziali, salotto con immancabile credenza della nonna, un tavolo e quattro sedie. Questo non solo perché l’arredamento è differente, ma soprattutto perché le scene sono state girate con assoluta maestria. Le riprese e il montaggio, infatti, fanno in modo che le immagini seguano le battute, all’occorrenza enfatizzandole, e il ritmo che ne deriva è perfettamente omogeneo e bilanciato. Da notare che non c’è un’inquadratura che duri più di dieci secondi e l’uso sapiente della messa a fuoco che, all’occorrenza, esclude o include i personaggi disposti in primo o secondo piano. E così Polanski ha creato un’opera pienamente cinematografica schivando uno ad uno i riverberi della messa in scena teatrale.
Voto: 4/5
(Film visionato il 21 settembre 2011)
Terraferma
di Emanuele Crialese
con Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello
Drammatico, 88 min., Italia, Francia, 2011
Come nella seconda pala di un dittico, ovvero dopo aver parlato in Nuovomondo (2006) dell’immigrazione italiana negli USA ad inizio Novecento, Crialese tratta in Terraferma il tema dei viaggi disperati degli africani che cercano di arrivare in Europa (la terraferma del titolo). Prima tappa obbligata del percorso le isolette che gravitano attorno alla Sicilia. Ed è proprio in una di queste (Linosa, ma tutti sono portati a pensare a Lampedusa) che si svolge l’azione. Azione che, a pensarci bene, si articola in un lungo elenco di contrapposizioni (abitanti-villeggianti, abitanti-immigrati, villeggianti-immigrati, pescatori-finanza, speranza-rassegnazione, ecc.) che è possibile palesare parlando brevemente di ciò che accade nel film. Filippo (Filippo Pucillo), giovane uomo orfano di padre, vive con la madre Giulietta (Donatella Finocchiaro) e il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio). Durante una battuta di pesca i due uomini prestano soccorso ad alcuni immigrati che rischiano di affogare. Tra di loro figurano anche una donna gravida ed il suo figlioletto. Seguendo la "legge del mare" Ernesto decide di dare asilo alla donna, che gli partorisce in casa la stessa notte. La mattina seguente iniziano i problemi: la guardia di finanza sequestra al vecchio la barca, con l’accusa di aver aiutato alcuni immigrati; i villeggianti sono sempre più spaventati dalla situazione ma pretendono comunque di essere serviti e riveriti; i pescatori vivono momenti di tensione con i rappresentanti di una legge che gli chiede di contravvenire alla legge del mare "girandosi dall’altra parte" alla vista di persone in difficoltà. È da notare come ogni situazione abbia un personaggio emblematico di riferimento. Nino (Beppe Fiorello) è il rappresentante di una nuova generazione che vede il futuro solo nel turismo e che è pronta a negare ogni evidenza (gli sbarchi) pur di non perdere il denaro dei vacanzieri-clienti. Filippo, interpretato da un Pucillo che nella recitazione ricorda molto il Ninetto Davoli dei film di Pasolini, vive la tensione tra i valori tramandatigli dal nonno e le pulsioni giovanili. Nonno Ernesto, nella presenza fisica e nella generosità, è una figura ieratica che si distingue dalle altre (ma non da quelle dei pescatori della sua generazione) per carità innata. Infine Giulietta è il simbolo della compassione, lei che dopo aver superato una prima reticenza si lega alla donna cui ha dato asilo grazie alla comune sensibilità materna. Come si è potuto capire l’opera di Crialese è, nella sua apparente semplicità, complessa e ramificata a livello tematico. Inoltre (onore al merito) la regia è notevole: anche questa volta ci rimarranno impresse almeno un paio di sequenze (v. l’immagine della locandina). Quello che non funziona fino in fondo è un cortocircuito che nasce dal rapporto tra la recitazione della Finocchiaro e quella di Cuticchio. La prima, pur nella sua bravura, rappresenta un cinema fatto da divi che male si sposa con le tematiche trattate. Ovvero, anche se la Finocchiaro è stata diretta con l’intento di ricordare Anna Magnani (soprattutto nella fisicità più che nella recitazione) l’effetto è quello di una falsa isolana troppo poco cotta dal sole e consumata dalla salsedine. Il secondo è invece il personaggio che funziona di più, soprattutto in rapporto al tema e al contesto. È sublime la riunione dei vecchi pescatori, nella quale è tra i protagonisti, che ci fa ripensare alla tradizione del Neorealismo che i giovani registi cercano troppo spesso di evitare (senza successo). Cosa resta da dire? I sentimenti ci sono, i valori anche, come pure gli interrogativi. I dubbi però rimangono di fronte all’ennesimo tentativo di stiparli (è proprio il caso di dirlo) tutti dentro un’unica opera.
Voto: 3½/5
(Film visionato il 14 settembre 2011)
The Tree of Life
di Terrence Malick
con Brad Pitt, Jessica Chastain, Hunter Mc-Cracken
Drammatico, 138 min., India, Gran Bretagna, 2011
Da una parte la via della Grazia, dall’altra quella della Natura. C’è chi si dedica alla prima, cercando di vivere in armonia con gli altri – che siano famigliari o sconosciuti non importa – condividendo empaticamente le loro emozioni, le loro vittorie e le loro sconfitte. C’è chi si dedica con dedizione alla seconda, cercando di raggiungere la perfezione. Ma solo la Natura è perfetta, lei che è in continuo divenire, lei che ha visto passare le ere senza scomporsi, trovando sempre il modo di mettere in evidenza la sua bellezza, la sua essenza divina. Sean Penn (nella sua infanzia interpretato dallo strepitoso Hunter McCracken) è il frutto di questa polarità: da una parte una madre (Jessica Chastain) che ha deciso di percorrere la prima strada, non senza sofferenze e sconfitte; dall’altra un padre troppo duro (Brad Pitt) perché tendeva alla perfezione, finendo così per alienarsi l’amore dei figli, che poi ha dovuto capitolare di fronte all’imperscrutabilità del futuro, parte dell’irraggiungibile perfezione della Natura. In età adulta, e solo dopo aver superato il conflitto edipico col padre, Penn capirà che solo la Grazia salva, e in questo modo riuscirà a ricongiungersi, almeno idealmente, con le persone che hanno fatto parte della sua vita. Si esaurisce qui il significato del film? Ciò che avete letto è solo una minima parte di quello che Malick è riuscito a condensare (ma attenzione, in maniera assolutamente organica) nella sua opera, che spicca per profondità, puntualità e precisione nel trattare temi filosofici quali vita, morte, religione, educazione ecc. C’è chi ha parlato di sequenze da pubblicità da profumo (il critico di Nice Matin) e ancora chi lo ha paragonato ad un bellissimo spot new age. Non scherziamo, qui siamo ad un livello superiore. La forza delle immagini è dirompente. Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, il film sembra non avere mezze misure: piace (a pochi) o non piace (a molti). Di sicuro ha il pregio di aiutarci a distinguere tra gli ignoranti e i presuntuosi.
Voto: 4,5/5
(Film visionato il 28 maggio 2011)
Machete
di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis
con Danny Trejo, Robert De Niro, Jessica Alba, Steven Seagal
Trash, 105 min. Usa 2010
Machete è un ex agente federale messicano che assiste all’uccisione della moglie. Ma prima di potersi vendicare Torres, boss della droga, lo riduce in fin di vita. Ritroviamo il messicano oltre confine, guarito, che cerca di sabracare il lunario con quei lavoretti in nero che vengono riservati solo agli immigrati clandestini. Ben presto però Machete verrà assoldato per uccidere un politico locale proprio da quelli che gli hanno distrutto la famiglia. Ecco l’occasione giusta per vendicarsi. Almeno quattro i nudi femminili (tutti ironici), ma delle scene di sesso non c’è traccia. Tante sono le teste mozzate, ma la reazione non è quella della repulsione, bensì quella della sghignazzata. Innumerevoli i luoghi comuni, ma di quelli che riescono ancora a spiazzare lo spettatore. Incalcolabili le situazioni inverosimili, ma sono quelle che fanno applaudire il pubblico in sala. Machete è la sagra dell’ossimoro e dell’imprevedibile. Machete è come il lunapark: trash ma sempre di moda.
Voto: 3,5/5
(Film visionato il 13 maggio 2011)
Source Code
di Duncan Jones
con Jake Gyllenhaal, Vera Farmiga, Michelle Monaghan, Jeffrey Wright
Fantascienza, 93 min. Usa, Francia 2011
Anatre in volo su uno specchio d’acqua, treno che scorre su binari in mezzo al verde, interno scompartimento. Il capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhall) si sveglia di colpo e viene chiamato Sean da una ragazza (Michelle Monaghan) che sembra conoscerlo da una vita. Dopo qualche secondo si dirige in bagno e, vedendo la sua immagine riflessa nello specchio, realizza di essere nella pelle di un altro passeggero. Turbato, esce dal bagno, osserva i passeggeri, intanto il treno fa una sosta, poi riprende la sua corsa, incrocia un altro convoglio e improvvisamente esplode. Colter non muore, ma si risveglia in una sorta di cabina d’astronave. Mentre non ha ancora capito cosa gli sta succedendo un ufficiale militare (Vera Farmiga) gli dice che ha solo 8 minuti e lo spedisce di nuovo su quello stesso treno. Obbiettivo: trovare la bomba e l’attentatore. E allora sono ancora anatre in volo, treno, interno scompartimento, ragazza. Sì, la storia si ripete e sono 8 i minuti che Stevens dovrà rivivere (quasi) all’infinito. Il film di Duncan Jones – figlio di David Bowie – si basa sul presupposto che nel cervello restino impressi gli ultimi otto minuti di vita. Pertanto l’esercito decide di sfruttare a suo vantaggio questa scoperta per smascherare terroristi e sventare ulteriori attentati. A posteriori. Il finale è tutt’altro che scontato. Com’è tutt’altro che scontata la fine di questa recensione. Perché, fino a qui, le mie parole potrebbero lasciare intendere che il film di Jones sia un’opera innovativa. Non è così. Questo film ha il pregio di farci capire quanto sia stato importante Inception per il cinema, gli spettatori e gli addetti ai lavori. Questo perché nell’opera di Nolan “tutto si tiene” – mi riferisco anche e soprattutto alle cose meno decifrabili – grazie ad un assunto talmente elementare da avere il retrogusto della beffa: nella mente "vale tutto" perché infinite sono le sue possibilità. Non fa una grinza. In Source Code, invece, si avverte la difficoltà nello spiegare come gli 8 minuti vengano concretamente ricreati e sfruttati da una macchina rivoluzionaria. E allora noi poveri spettatori come faremo a capirlo attraverso indizi sfuggenti e ambigui? Meglio non provarci neanche dato che, a ripensarci, sembra di vedere uno di quei vecchi film di fantascienza dove è meglio non farsi troppe domande perché di risposte logiche non ce ne sono a sufficienza. Rimane il fatto che per essere un film a basso costo, Jones lo fa “girare” bene.
Voto: 3/5
(Film visionato il 4 maggio 2011)
di Duncan Jones
con Jake Gyllenhaal, Vera Farmiga, Michelle Monaghan, Jeffrey Wright
Fantascienza, 93 min. Usa, Francia 2011
Anatre in volo su uno specchio d’acqua, treno che scorre su binari in mezzo al verde, interno scompartimento. Il capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhall) si sveglia di colpo e viene chiamato Sean da una ragazza (Michelle Monaghan) che sembra conoscerlo da una vita. Dopo qualche secondo si dirige in bagno e, vedendo la sua immagine riflessa nello specchio, realizza di essere nella pelle di un altro passeggero. Turbato, esce dal bagno, osserva i passeggeri, intanto il treno fa una sosta, poi riprende la sua corsa, incrocia un altro convoglio e improvvisamente esplode. Colter non muore, ma si risveglia in una sorta di cabina d’astronave. Mentre non ha ancora capito cosa gli sta succedendo un ufficiale militare (Vera Farmiga) gli dice che ha solo 8 minuti e lo spedisce di nuovo su quello stesso treno. Obbiettivo: trovare la bomba e l’attentatore. E allora sono ancora anatre in volo, treno, interno scompartimento, ragazza. Sì, la storia si ripete e sono 8 i minuti che Stevens dovrà rivivere (quasi) all’infinito. Il film di Duncan Jones – figlio di David Bowie – si basa sul presupposto che nel cervello restino impressi gli ultimi otto minuti di vita. Pertanto l’esercito decide di sfruttare a suo vantaggio questa scoperta per smascherare terroristi e sventare ulteriori attentati. A posteriori. Il finale è tutt’altro che scontato. Com’è tutt’altro che scontata la fine di questa recensione. Perché, fino a qui, le mie parole potrebbero lasciare intendere che il film di Jones sia un’opera innovativa. Non è così. Questo film ha il pregio di farci capire quanto sia stato importante Inception per il cinema, gli spettatori e gli addetti ai lavori. Questo perché nell’opera di Nolan “tutto si tiene” – mi riferisco anche e soprattutto alle cose meno decifrabili – grazie ad un assunto talmente elementare da avere il retrogusto della beffa: nella mente "vale tutto" perché infinite sono le sue possibilità. Non fa una grinza. In Source Code, invece, si avverte la difficoltà nello spiegare come gli 8 minuti vengano concretamente ricreati e sfruttati da una macchina rivoluzionaria. E allora noi poveri spettatori come faremo a capirlo attraverso indizi sfuggenti e ambigui? Meglio non provarci neanche dato che, a ripensarci, sembra di vedere uno di quei vecchi film di fantascienza dove è meglio non farsi troppe domande perché di risposte logiche non ce ne sono a sufficienza. Rimane il fatto che per essere un film a basso costo, Jones lo fa “girare” bene.
Voto: 3/5
(Film visionato il 4 maggio 2011)
Habemus Papam
di Nanni Moretti
con Michel Piccoli, Nanni Moretti, Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi
Drammatico, 104 min., Italia, Francia, 2011
Morte di Papa Giovanni Paolo II. I cardinali si riuniscono in Conclave ed eleggono il nuovo pontefice. Nessuno vuole diventare Papa. Tutti avvertono il peso insopportabile della responsabilità che ne consegue. Diventa Papa il cardinal Melville (Michel Piccoli) che, appena prima di affacciarsi dal balcone per la benedizione ai fedeli, cade in preda ad una crisi esistenziale e si rifiuta di iniziare il suo pontificato. Il neoeletto Papa non riesce dunque a reggere una situazione da lui non voluta. Non tanto quella di essere diventato pontefice, quanto quella di avere consacrato tutta la sua vita alla religione. Egli voleva fare l’attore (o quantomeno lavorare in teatro) e allora, per trovare sollievo dagli attacchi di panico, si rifugia nei teatrini della Capitale. Ristabilisce così un corroborante dialogo col mondo esterno, unica realtà effettiva. Intanto i cardinali, scossi da questo inaspettato comportamento, passano le giornate come bambini, giocando a carte o a pallavolo nella loro prigione dorata. Fuori il mondo si interroga: per quale motivo il pontefice non si rivela? Il vaticanista di turno, intervistato dal Tg3, prova a spiegare la situazione con giri di parole ed ellissi incomprensibili. Salvo poi arrendersi, sconfitto, all’evidenza con uno “Scusate, sto improvvisando” che ricorda molto certe omelie domenicali. Moretti vorrebbe far sorridere sfruttando la forza di situazioni caricaturali, non comiche. Talvolta ci riesce. La sceneggiatura però non è più brillante come quelle dei suoi film precedenti. Forse perché in questa sua ultima opera la disillusione prevale sulla poeticità delle situazioni. I temi trattati sono molteplici e tutti importanti (l’interpretazione delle Scritture, il Vaticano come Stato, i vescovi, la scienza contrapposta alla religione, ecc…), ma spesso già visti in ambito cinematografico. (Il tema della religione incapace di dare risposte concrete ai fedeli è già stato mirabilmente trattato da Lourdes). Si obbietterà che il film parla prevalentemente di una crisi d’identità strettamente correlata al senso di responsabilità e che il Vaticano è solo il contesto, il palcoscenico della vicenda. Ebbene, Moretti ha dimostrato che un palcoscenico di questo tipo risulta essere certamente troppo ingombrante ed impegnativo. Non si può parlare di una crisi d’identità in Vaticano senza fare i conti con questo luogo enigmatico e chi lo rappresenta. Inutile dire che, sotto questo punto di vista, le aspettative del pubblico rimangono inevitabilmente deluse.
Voto: 3/5
(Film visionato il 20/4/2011)
Un gelido inverno (Winter’s Bone)
di Debra Granik
con Jennifer Lawrence, John Hawkes, Lauren Sweetser, Kevin Breznahan
Drammatico, 100 min., Usa, 2010
La diciassettenne Ree si occupa dei fratelli più piccoli: li lava, li nutre e si prende cura di loro in tutto e per tutto. Ree ha una madre catatonica, incapace di tutto, che si è allontanata mentalmente da una realtà troppo dura e cruda per poter essere accettata. Questo anche perché il padre di Ree è stato incarcerato con l’accusa di fabbricare anfetamine. I veri problemi (come se questi non bastassero) iniziano quando il padre di Ree usa la casa di famiglia come cauzione per uscire dal carcere, salvo far perdere le sue tracce appena libero.
Il film di Debra Granik ha almeno due pregi. Il primo. È costato solo 2 milioni di dollari. Quindi, se si conta che per Toy Story 3 ne sono stati spesi 200 e per Inception 160, il fatto che Winter’s Bone abbia concorso con loro per l’Oscar come miglior film è un risultato veramente notevole. Il secondo. La storia si sviluppa nel centro degli Usa e ha il merito di farci vedere l’altra faccia del sogno americano, quella dove la popolazione white trash, povera e scarsamente scolarizzata, tira avanti in baracche e zone desolate grazie all’aiuto delle droghe più disparate. Per il resto le parole sono poche, la disperazione e l’omertà toccano vette inimmaginabili. Ma tutto questo sembra non bastare. Il film scorre sì, ma senza alcun guizzo. E, a dispetto dell’ostentato pragmatismo, senza quel pugno ben assestato che aspettiamo colpisca la bocca del nostro stomaco. La recitazione di Jennifer Lawrence, poi, sembra forzata. È dunque difficile poter credere a questa ragazzina, resa fin troppo granitica dalla sceneggiatura di Anne Rosellini. E allora la mente ritorna a Frozen River di Courtney Hunt dove una madre, ben più titubante e per questo credibile, aiuta i clandestini ad entrare negli Stati Uniti. Quello, sì, un vero pugno nello stomaco.
Voto: 3/5
(Film visionato il 2/3/2010)
Il cigno nero (Black Swan)
di Darren Aronofsky
con Natlie Portman, Vincent Cassel, Winona Ryder, Mila Kunis
Thriller, 110 min. USA 2010
Darren Aronofsky ha trovato il suo stile. Non è da tutti. Ha sviluppato la tecnica registica "dell’epidermide", ovvero la capacità di restituire al pubblico una gamma di sensazioni legate alla pelle. Ieri lo ha fatto con The Wrestler, oggi lo fa con Il cigno nero (Black Swan). Là la pelle era maschile, non più tonica, provata dalle botte e dal tempo che passa, puzzolente di sudore, di roulotte e di alcool. Qui la membrana è femminile, tonica, profumata di verginità, provata dagli sforzi che solo una ballerina di danza classica può sopportare. Nina (Natalie Portman), questo il suo nome, vuole e deve interpretare il doppio ruolo di cigno bianco e cigno nero nel balletto Il lago dei cigni. Ma lei, pur essendo un’ottima ballerina, è solo cigno bianco, inibita com’è da una madre che la tiene soggiogata in casa e da una professione che non le ha permesso di fare esperienze di “vita vissuta”. La lotta per la maturazione è su più fronti, ma è soprattutto una battaglia con sé stessa. Riuscirà Nina a far uscire il cigno nero che c’è in lei? Nina è stritolata dai suoi demoni, dalla sua voglia di essere perfetta, dalla sua voglia di essere, allo stesso tempo, una ragazza che si diverte come tutte le altre. Ma non può, si deve controllare: nel mangiare, negli esercizi, negli orari. Non riesce tuttavia a soffocare la sua parte animalesca, legata al sensibile. Ecco allora che la pelle comincia a lacerarsi, a tagliarsi, a sanguinare. Nina non riesce più a controllare la forza dirompente di un cigno nero che ormai si sente prono per uscire. Chi rende possibile la tensione (anche della pelle), chi ce la fa sentire, è Natalie Portman, praticamente perfetta. È impossibile non partecipare empaticamente a ciò che le sta capitando. La sua pelle è la nostra, il suo disagio pure. Anche noi sentiamo la sua metamorfosi, siamo ad un passo dal diventare come lei. Miracolo che solo una recitazione perfetta come questa potrebbe far diventare realtà. Se non fosse però per qualche pecca nella storia. Come è già stato detto Afronofsky riesce a farci partecipare empaticamente alle vicissitudini della protagonista, anche grazie al suo stile. Ma si ha l’impressione che con Il cigno nero si fermi alla superficie (all’epidermide) della questione. In primis i dialoghi, sovrabbondanti di ovvietà e di frasi fatte, talvolta finiscono per spezzare quella tensione e quel ritmo che le immagini non faticano a veicolare. Secondariamente il ricorso ad un’analisi del tema dello sdoppiamento e del rapporto madre/figlia mette a nudo tutti i suoi limiti dimostrando che sarebbe sufficiente solo in un tema di quinta elementare. (È questo il vero punto debole del film che non ci fa urlare al capolavoro). Infine risultano sbrigativi gli elementi retorici legati alla trasgressione. (I riferimenti alla droga e alla discoteca si potevano tranquillamente evitare). Buono, invece, il motivo ricorrente della masturbazione, pratica che mette in gioco l’epidermide diventando occasione di crescita che porta al conoscimento di sé stessi e del piacere. L’involucro ci può dare molte e importanti informazioni sul contenuto. Contenuto che era più profondo in The Wrestler.
Voto: 4/5
(Film visionato il 19/2/2011)
Il discorso del re (The King's Speech)
di Tom Hooper
con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce
Storico, 111 min., Gran Bretagna, Australia, 2010
Il cinema inglese continua a indagare le figure istituzionali del recente passato, dimostrando inoltre che si possono fare ottimi film senza fare ricorso ad artifici tecnici da baracconata destinata a maxischermi e dolby surround delle moderne sale cinematografiche. E così, dopo le debolezze della regina Elisabetta (The Queen), l’umanità di Winston Churchill (Into the Storm) e i “voltafaccia” di Tony Blair (I due presidenti), ora sta a re Giorgio VI dimostrare che, in fondo, anche un regnante ha un’anima perché può trovarsi in difficoltà. Elegante nella sua regia, Hooper esalta e ridimensiona l’handicap del protagonista: la balbuzie. Problema accresciuto dalla vista della radio, mezzo potente e spaventoso, che cominciava a far perdere ai reali il loro alone mistico, portandoli nelle case dei loro sudditi. Firma la riuscita sceneggiatura David Seidler, e la storia che ci sta dietro è interessante come il film. Dietro l’aplomb come stile di vita, si possono nascondere molti problemi (di cui la balbuzie è solo il più evidente). Sceneggiatura che ha anche il merito di fare capire il contesto politico, pur toccandolo superficialmente, in cui si svolge la vicenda. Colin Firth è sublime nella parte del re (molti dicono che la balbuzie è resa meglio nella versione in lingua originale, ma anche il doppiatore italiano, Luca Biagini, se l’è cavata bene). Candidato a 12 Oscar (troppi, su questo siamo tutti d’accordo), il film è misurato, elegante, irresistibile nel suo umorismo tutto britannico. Un dovizioso viaggio dentro i tabù della stagione e della cultura post-vittoriana. Il difetto, all’epoca interpretato come una debolezza, serve a far venire a galla le componenti repressive dell’educazione nazionale.
Voto: 4/5
(Film visionato il 29 gennaio 2011)
La versione di Barney (Barney’s Version)
di Richard J. Lewis
con Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Rosamund Pike
Commedia/Drammatico, 132 min. Canada, Italia 2010
Homo faber fortunae sue: Barney è artefice di sé stesso, della sua vita. Ogni vittoria, ogni sconfitta, dipende dalle sue azioni. Tutte (giuste o sbagliate che siano) operate nel nome dell’amore.
Ne hanno parlato come di un film grottesco, irriverente, quasi di un’opera tutta da ridere. Non è proprio così. Non c’è nulla di più profondo (forza del libro da cui è stato tratto) e di così distante dalle analoghe opere americane. In poche parole “non è la solita stupida commedia americana”.
Inutile spendere altre parole per un'opera che ha sicuramente rivoluzionato il modo di trattare certi aspetti della vita, se non ricordare alcuni versi di Eugenio Montale che possono fungere da chiave di lettura per il film.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
[da Satura]
Voto: 4/5
(Film visionato il 15/01/2011)
The Social Network
di David Fincher con Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake
Mark Zuckerberg è uno studente all’università di Harvard. Mark Zuckerberg è un brillante programmatore del secondo anno. Mark Zuckerberg è un nerd. Mark Zuckerberg è una persona sgradevole (non a caso la canzone del trailer è una rivisitazione di Creep dei Radiohead). Lo è perché è un saputello che parla solo di sé stesso e che ha una grandissima voglia di emergere. Per tutti questi motivi Mark Zuckerberg viene mollato dalla sua ragazza, Erica Albright. Quella stessa notte Zuckerberg crea FaceMash, un sito che diventa talmente popolare da mandare in crash i server del campus. L'episodio, mal visto dall'università, fa sì che Zuckerberg venga notato dai gemelli Cameron e Tyler Winklevoss e dal loro socio Divya Narendra, i quali sono alla ricerca di un programmatore per un progetto, HarvardConnection, finalizzato a connettere online gli studenti di Harvard. Questa è solo la punta dell’iceberg. Il resto dell’opera, compenetrazione tra realtà storica e finzione cinematografica, è incentrato sulle controversie che hanno interessato coloro che hanno avuto a che fare con Facebook.
Il film ha attinto alla tradizione cinematografica più recente. Tornano alla memoria A Beautiful Mind (Ron Howard, 2001) e Le regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Anche Zuckerberg, come il matematico e premio Nobel John Forbes Nash jr., è caratterizzato da una genialità a tratti autistica, contraddistinta da stranezze nel comportamento, sguardo perso nel vuoto e risposte tanto intelligenti quanto irriverenti. Per non parlare di un riferimento ancora più diretto: all’inizio del film un algoritmo viene scritto sui vetri della finestra della camera di un dormitorio. Il film di Avary ritorna invece nella tecnica registica, spesso volta ad enfatizzare gli eccessi e le sregolatezze che animano i campus universitari.
C’è poi un’altra importante coincidenza, da esplicitare se si vuole capire pienamente l’opera di Fincher. The Social Network è un adattamento del libro di Ben Mezrich Miliardari per caso (Sperling & Kupfer). Fin qui niente di speciale. Tuttavia, "non tutti sanno che" Mezrich è anche l’autore di Blackjack Club (Oscar Mondadori, 2005), opera che ha avuto in 21 (Robert Luketic, 2008) la sua trasposizione cinematografica. Non ci stupisce allora osservare che i due film hanno nei fatti le stesse caratteristiche di fondo: spazio studentesco, dei promettenti studenti vogliono mettere a frutto la loro abilità per sfondare e/o semplicemente fare soldi per fare colpo, inevitabilmente si dedicano anima a corpo alla loro attività, conseguentemente perdono amici e/o fidanzata. Ecco, in quattro frasi, la struttura del film. Un po’ pochino.
Il film si caratterizza per essere un buonissimo prodotto: ottimo packaging (compreso il trailer), ottima colonna sonora (non a caso curata da Trent Reznor), qualche momento di sottile ironia. Tuttavia il film rimane sul livello di una superficialità giovanilistica che gli impedisce di essere un’opera matura, completa. Scarsa è, ad esempio, la caratterizzazione dei personaggi, risolta spesso con l’utilizzo degli stereotipi più scontati: lo studente brutto ma geniale, quello un po’ meno geniale e per questo un po’ più belloccio, lo studente bello, aitante e per questo ricco. E poi, chi è Mark Zuckerberg? Da dove viene? Quali sono le sue aspirazioni? Il suo è solo un tentativo di rivalsa nei confronti di colei che lo ha lasciato? Perché tradisce l’amico? Effettivamente lo sappiamo, ma solo perché viene esplicitato con un dialogo durante lo svolgimento del film.
Il finale funziona, ma è banale: accetterà la ex del protagonista la richiesta d’amicizia che quest’ultimo le ha mandato tramite la sua cretaura?
Voto: 3/5
(Film visionato il 17/11/2010)
Wall Street: il denaro non dorme mai
di Oliver Stone con Michael Douglas e Shia LaBeouf.
Ventitré anni dopo il successo di Wall Street (1987), Oliver Stone si ripete e propone al pubblico una storia d’amore e di denaro che funziona e che tiene incollati allo schermo. Per vari motivi:
1- Considerato nel suo insieme, il film resisterà sicuramente al passare del tempo e verrà ricordato come un interessante documento socio-antropologico relativo al primo decennio del XXI secolo.
2- All’opera non manca (quasi) nulla: storia d’amore, vicissitudini del protagonista, il cattivo del passato si redime e aiuta il protagonista a combattere il cattivo del presente, riferimenti alla realtà contemporanea.
3- È forse il primo film – senza contare Capitalism: a Love Story (Michael Moore, 2009) – che vuole parlare, in modo certamente allegorico, della crisi economica mondiale scoppiata nel 2008 e tutt’ora in corso. E lo fa con occhio critico. Proprio come deve essere.
4- Shia LaBeouf si sta gradualmente imponendo sulla scena hollywoodiana come uno dei migliori attori (se non il migliore) della sua generazione: sempre nella parte, espressivo, carismatico. In poche parole credibile.
5- Il film ha ritmo, soprattutto nella prima parte. Stone sta ritrovando la verve perduta.
Qualche macchia? Sì. Il finale. Il regista avrebbe dovuto tagliare gli ultimi cinque retorici e superflui minuti.
Voto: 4/5
(Film visionato il 27/10/2010)
Buried
di Rodrigo Còrtes con Ryan Reynolds.
Sistema solare. Terra. Medio Oriente. Iraq. Luogo imprecisato. Deserto. Sotto la sabbia una bara. Nella bara un uomo, Paul Conroy (interpretato da Ryan Reynolds). Egli dispone di: uno zippo, un BlackBerry, una fiaschetta di whisky e un pennarello. L'aria scarseggia e Paul, che non ricorda perchè è finito in quella situazione, comincia la sua personale lotta per la sopravvivenza.
Una storia, una persona e pochi oggetti sono sufficienti per tenere incollato lo spettatore allo schermo per tutta la durata del film. Senza un attimo di sosta. Senza mai - finendo inevitabilmente con l'identificarsi nello sventurato - riprendere fiato.
Per chi vuole trovare un significato al di là dell'evento rappresentato, si può osservare che l'opera spinge a porsi alcuni interrogativi sulla guerra, come: Chi ha visto la propria casa cadere sotto i colpi del nemico ha diritto a sottoporre a tortura colui che rappresenta l'invasore, qualunque sia il suo ruolo nella guerra? In questa, esistono figure neutrali? È giusto pagare i riscatti per liberare gli ostaggi?
L'aspetto più interessante di questo film riguarda proprio la condizione di questi ultimi.
Il protagonista maledice la propria sorte non solo perchè rischia di perdere la vita, ma anche perchè si accorge di non avere più un'identità (non a caso Conroy viene associato a tale Mark White, nome comune che rimanda al nostro Bianchi e che quindi veicola universalità). Della sua vita, della sua famiglia, della sua occupazione e dei suoi progetti non interessa né a coloro che lo hanno imprigionato né a coloro che dicono di essersi messi in moto per liberarlo. L'ostaggio è il mezzo per raggiungere un fine: riscatto per i rapitori; gloria per i liberatori.
Tutti gli ostaggi sono uguali. Il loro urlo è solo un "white noise".
Voto: 4/5
(Film visionato il 20/10/2010)
Inception
di Christopher Nolan con Leonardo DiCaprio, Ken Watanabe, Joseph Gordon-Levitt, Ellen Page, Marion Cotillard, e Cillian Murphy.
È innegabile, questo film è un «blockbuster per il pubblico sofisticato» (Paolo Mereghetti). È con questa definizione che sorgono i primi quesiti. Se Nolan ha impiegato dodici anni per metterlo a punto, perché dopo averlo visto ci si accorge che la trama non è poi così complicata? Perché non è accurata la caratterizzazione dei personaggi? Dove risiede – se mai ci dovesse essere – la forza di questo film?
Per quest’ultima domanda una possibile risposta c’è: il punto forte del film risiede nell’idea di fondo: il cervello è un’architettura perfetta, malleabile e il sogno ha infinite possibilità se confrontate con quelle della realtà. A fronte di questo l’opera potrebbe essere paragonata – per affinità tematiche – ad un capolavoro della letteratura mondiale come l’Ulisse di Joyce. Potrebbe.
Ma un’idea non è sufficiente. Se nel film Dom Cobb (Leonardo Di Caprio) riesce ad impiantare un’idea nella mente di Robert Fischer, Nolan non è riuscito ad impiantare nella nostra l’idea che il suo film sia un capolavoro.
Palo.
Voto: 4/5
(Film visionato il 25/9/2010)
My Son, My Son, What Have Ye Done
di Werner Herzog, con Willem Dafoe, Brad Dourif, Chloë Sevigny.
Scritto e diretto da Werner Herzog. Prodotto da David Lynch.
I dietrologi hanno parlato di un film di Lynch. Del resto sono numerosi gli elementi riconducibili al regista statunitense: l’attrice-feticcio Grace Zabriskie, i riferimenti di Willem Dafoe (il detective Hank Havenhurst) al caffè, l’atmosfera talmente surreale da essere reale, le stravaganze (?) della sceneggiatura. È più plausibile che sia stato concepito dalle menti dei due geniali registi.
Il film "scorre sulle teste degli spettatori": si sviluppa in una dimensione a-spaziale e a-temporale; la recitazione sfiora la perfezione; la storia, seppur esile e dal significato non immediatamente percepibile, non risulta né scarna né ridondante. Bellissime, nella loro semplicità, la scena iniziale (omaggio ai fratelli Lumière) e quella finale (che racchiude un frammento del significato della vicenda).
Inutile cercare un’interpretazione agli eventi rappresentati. Benché si stia parlando di un film, i fatti sono realmente accaduti: Mark Yavorsky, promessa del basket e della recitazione, uccise la propria madre con un'antica sciabola lunga tre piedi nel giugno del 1979 venendo poi dichiarato insano di mente. Herzog lo incontrò verso la fine degli anni Novanta, andandolo a trovare nel camper in cui viveva. Affermò che Yavorsky era chiaramente un uomo pericoloso e non lo volle mai più incontrare.
Voto: 3/5
(Film visionato il 15/9/2010)
Toy story 3 – La grande fuga
di Lee Unkrich.
Da vedere.
Da vedere perché i personaggi sono quelli ai quali c’eravamo affezionati con il primo capitolo della serie.
Da vedere perché l’immaginazione non ha veramente limiti.
Da vedere perché, per una volta, ci si commuove senza essere stati violentati emotivamente.
Da vedere perché è animato da buoni sentimenti.
Da vedere perché l’ascensore della casa di Barbie e Ken scende a scatti a causa dell’attrito prodotto dalla plastica che scorre su altra plastica.
Da vedere perché un pupazzo-pagliaccio, in penombra, racconta una storia lacrimevole.
Da vedere perché nulla è lasciato al caso.
Da vedere perché chi guarda il film ha giocato con quei giocattoli almeno una volta nella sua giovinezza.
Da vedere perché descrive bene la "linea d’ombra".
Voto: 4/5.
(Film visionato il 21/7/2010)
Predators
di Nimród Antal con Topher Grace, Danny Trejo, Adrien Brody, Laurence Fishburne.
Terzo capitolo della serie dopo Predator (1987) e Predator 2 (1990).
Ora, io non voglio sapere quanto denaro hanno speso per realizzarlo né quanto per pubblicizzarlo. Basti dire che, dopo anni, ho rivisto l’effetto delle fiamme disegnate per aumentare la dirompenza della potenza di fuoco delle armi e delle esplosioni.
Sulle recitazioni stendo un velo pietoso. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Dico solamente che Adrien Brody avrebbe potuto continuare il suo periodo di inattività invece di compromettersi con un film del genere. Posso immaginarmi le dichiarazioni che avrà rilasciato all’uscita del film: «Dopo anni mi sono voluto mettere alla prova con un film diverso da quelli in cui ho precedentemente recitato. In più volevo tornare alle scene divertendomi anche un po’». Probabilmente aveva solo bisogno di liquidità.
Imbarazzante.
Voto: 1½/5
(Film visionato il 16/07/2010)
Il segreto dei suoi occhi
di Juan José Campanella, con Ricardo Dàrin, Soledad Villamil, José Luis Joia, Pablo Rago.
Rarissimo esempio di film in cui lo spettatore può trovare di tutto, presentato inoltre con semplicità, precisione e delicatezza.
Questi alcuni dei temi trattati: amicizia, amore, giustizia, morte, vendetta.
Ottima la recitazione degli attori, più che buona la tecnica.
Ci si alza dalla poltrona assolutamente soddisfatti, perché la storia è esauriente e completa.
Non mancano, inoltre, i migliori cinque minuti – ma tenete conto che il film è tutto notevole – di cinema degli ultimi anni.
Voto: 4.5/5
(Film visionato il 24/6/2010)
The Road
di John Hillcoat con Charlize Theron, Viggo Mortensen, Guy Pearce, Robert Duvall.
Come sarebbe il mondo con una catastrofe ambientale in atto pari a quella che ha portato all’estinzione i dinosauri?
Come sarebbero gli uomini e cosa sarebbero disposti a fare per sopravvivere?
Quali sarebbero i loro valori?
Il film di John Hillcoat, basato su una storia di Cormac McCarthy, cerca di rispondere a questi interrogativi. E lo fa veramente bene: ottima la recitazione di Viggo Mortensen; ottima la scelta di non dare nomi ai protagonisti; ottimo il meccanismo che porta a vivere empaticamente le loro vicissitudini; buona la costruzione del mondo in piena autodistruzione.
Due soli appunti: finale melenso e poco credibile (il film poteva tranquillamente finire due/tre minuti prima); il rapporto padre-figlio spesso sembra enfatizzato al fine di portare lo spettatore a commuoversi.
P.s. Agli appassionati di Ken il guerriero: l’anime (la serie TV d’animazione datata 1984) aveva risposto alle domande iniziali ben vent’anni fa (con l’aggiunta delle arti marziali). E se McCarthy ne avesse tratto ispirazione?
Voto: 3½/5
(Visionato il 9/6/2010)
The Final Destination 3D
di David R. Ellis con Bobby Campo, Shantel VanSanten, Nick Zano.
Quarto capitolo della serie. Inutile analizzare la trama (che rimane quella di sempre ed è conosciuta da tutti), la recitazione degli attori (il regista ha scelto di far recitare le ragazze col sedere), ecc. Film "ignorante", veramente "ignorante". Ma divertente. Non mi era ancora capitato con il 3D di schivare paletti, cacciaviti, sassi, e chi più ne ha più ne metta. Unico appunto: deludenti molte delle combinazioni di eventi che portano alla morte dei personaggi.
Voto: 1.5/5
(Visionato il 26/5/2010)
Vendicami
di Johnnie To con Johnny Hallyday, Sylvie Testud, Anthony Wong.
Filosofia e pallottole. Tante pallottole. Pallottole sparate dalle più svariate armi automatiche che, per lo più, passano attraverso lo spioncino delle porte ed entrano direttamente nell’occhio e, quindi, nel cervello di chi guarda.
Tuttavia, gli asiatici intendono la violenza in un modo totalmente diverso dal nostro. Spesso questa scaturisce da una promessa non mantenuta o vuole suggellare un accordo d’onore.
È per questo che Costello (Johnny Hallyday) non verrà mai tradito dai sicari che ha ingaggiato per vendicare l’uccisone del genero e dei suoi nipoti nonché l’invalidità acquisita della figlia.
Finale metafisico.
Voto: 2.5/5
(Visionato il 9/5/2010)
Iron Man 2
di Jon Favreau con Robert Downey Jr., Gwyneth Paltrow, Scarlett Johansson.
Da una parte gli americani; dall’altra un russo.
Gli americani? Beh, di due tipi: da una parte i buoni (cum "bellona"), che vincono; dall’altra i cattivi, che perdono.
E il russo? Logicamente è lo sconfitto.
In poche parole: AMERICANATA ALL’ENNESIMA POTENZA.
P.s. Un’ora e quaranta di preparazione al conflitto tra le forze del bene e quelle del male… che si risolve in dieci secondi netti. L’unica cosa che si salva di questo film sono gli effetti audio. Deludenti quelli grafici.
Voto: 2/5
(Visionato il 6/5/2010)
Lourdes
di J. Hausner con Léa Seydoux, Sylvie Testud, Bruno Todeschini.
Il film dell'austriaca Jessica Hausner mette d'accordo tutti, credenti e non. I temi trattati sono molteplici, ugualmente importanti e tutti riconducibili al binomio religione-speranza. Molte sono le domande che sorgono spontanee alla fine della proiezione: Lourdes è più luogo di pellegrinaggio o località turistica per "diversamente abili"? La parola speranza ha senso o al termine si accompagna inevitabilmente la parola rassegnazione? C'è spazio per la felicità nella religione cristiana?
Altro interrogativo, estrapolato dal film: «Dio è onnipotente o buono? Perché se fosse entrambe le cose non ci sarebbero né sofferenze né malattie».
Un'ora e mezza di inquadrature fisse che si traducono in pochi quadri e nonostante questo il film non è mai tedioso.
Consigliato a chi ha un'anima profonda e a chi non la smette mai di interrogarsi sui grandi temi della vita.
Voto: 4/5
(Visionato il 21/4/2010)
Green Zone
di P. Greengrass con M. Damon, Jason Isaacs.
Dopo un primo quarto d’ora di "mal di mare" – il film principia con la tecnica della telecamera a mano – la storia scorre senza intoppi, tecnici e contenutistici, sino alla fine.
Non a caso lo stile è quello ritmato e coinvolgente di Paul Greengrass, regista degli ultimi due capitoli della serie di Jason Bourne. Ma, rispetto alla fortunata trilogia, questo film introduce importanti innovazioni a livello contenutistico. Il tema trattato è, infatti, di assoluta contemporaneità: dopo la conquista di Bagdad, intere sezioni dell’esercito Usa ricevono l’incarico di scovare armi di distruzione di massa. Il film parte da queste vane ricerche e si sviluppa in un intricato labirinto di interessi politico-strategici che vedono tra i loro attori l’esercito Usa, la Cia e gli irriducibili capi dell’esercito iracheno.
Per il genere, la recitazione di Matt Damon (che interpreta l’ufficiale Roy Miller) è ancora una volta impeccabile.
Voto: 3/5
(Visionato il 14/4/2010)
L'uomo nell'ombra
di R. Polanski con E. McGregor, Pierce Brosnan.
Non perdetevi quest’ultimo film di Polanski. Non tanto per la storia (sinceramente troppo semplice e lineare), quanto per l’atmosfera che il regista e i suoi collaboratori sono riusciti a creare. Un noir, non c’è dubbio, che tiene incollati allo schermo grazie alla presenza di una sensazione di costante pericolo che incombe, inesorabile, sul protagonista.
Ciò che funziona meno di tutto il resto, purtroppo, è proprio il protagonista. O meglio, l’attore che interpreta il protagonista della vicenda. Quell’Ewan McGregor che non è ancora riuscito a togliersi dal volto l’espressione da strafatto che lo aveva consacrato con Trainspotting.
Nonostante questo, gli altri attori sono tutti nella parte e il film è quasi ineccepibile sotto il profilo tecnico.
Voto: 3,5/5
(Visionato il 10/4/2010)