Registi di Parma – Intervista a Riccardo Vaia e Cristina Pizzamiglio
Un
sodalizio artistico che si alimenta di cinema, filosofia, letteratura, musica. Di
ogni epoca e cultura. Dalle opere di Riccardo Vaia e Cristina Pizzamiglio questa
matrice affiora prepotentemente. Immagini, parola scritta, suoni, musica, voce
fuori campo diventano così gli elementi di una pozione dagli effetti
stranianti, disturbanti. Un viaggio nel subconscio che arricchisce e spiazza.
Riferimenti
culturali
1. Da dove nasce il vostro interesse per le
immagini in movimento?
Riccardo: Ti
posso rispondere con un ricordo. Sono state alcune immagini, alcuni suoni che
mi hanno ammaliato fin da bambino, sia in sala che davanti al vecchio tubo
catodico. Erano lì presenti e poi gli studi accademici le hanno fatte
fermentare. Tutto qui.
Cristina:
L’immagine ovviamente mi ha sempre interessata… Se penso
all’immagine-in-movimento, penso ai finestrini del treno e al paesaggio che vi
scorre attraverso.
2. Quali artisti fanno parte del vostro Pantheon
ideale?
Riccardo:
Brakhage, Vermeer, Nietzsche, Rothko, Debord, La Monte Young, Jim Morrison,
Kubrick, Joyce, Demetrio Stratos, Kafka, Burroughs, il tardo Bach, Rimbaud,
Ėjzenštejn, Michael Heizer, Carmelo Bene, Artaud, Shelley.
Cristina: Rothko, Duchamp, Shelley, Burroughs, Rimbaud, Yves
Klein, Coppola, Monet, Man Ray, Debord, Herzog, Brakhage, Bas Jan Ader.
3. Quali opere annoverate tra i capolavori?
Riccardo: La
nozione di ‘capolavoro’ per me è strana; faccio fatica a spiegarlo. È qualcosa
che ha a che fare con l’eccedere; i capolavori stanno fuori dalla storia del
cinema. Ci sono tantissimi bei film, i capolavori sono davvero pochi… boh
direi: Dog Star Man di Brakhage, 2001, Odissea nello spazio di
Kubrick, Apocalypse Now di Coppola, Nightfall di James Benning, La
linea generale di Ėjzenštejn, Hitler, un film dalla Germania di
Syberberg.
Cristina: Lo
specchio di Tarkovskij, Apocalypse Now di Coppola, Aguirre, furore
di Dio di Herzog, Scenes from Under Childhood di Brakhage, Le voyage
dans la lune di Méliès.
4. Quali sono quelle che non vi stancate mai
di approfondire?
Rispondiamo
più o meno insieme… Sicuramente tutta l’opera di Brakhage ma in ogni caso ci
sono lavori che non esauriscono mai la loro carica ‘esoterica’, per quanto
riguarda le immagini e i suoni, come Apocalypse Now o alcune prove
monumentali dal punto di vista della ‘fisicità’, come i film di Herzog. Altre,
come la serie di Frampton su Magellano: quella tenue scintillazione sbiadita
del cinema, che trapassano senza sosta. Per altri versi, dato che non ci piace
il cinema cosiddetto contemporaneo, ma in qualche modo lo analizziamo per il
nostro lavoro, ci intriga talvolta la ‘scultura della luce’ di cui sono capaci
alcuni ‘cinematographer’ odierni, come Deakins, Benoit Debie, Lachman o
Philippe Le Sourd, così come grandi DOP del passato: Storaro, Kniažinskij,
Rerberg, Almendros e tanti altri, a nostro parere ingiustamente sottovalutati
quando si parla di cinema. Ad esempio ci disturba ideologicamente, se così
vogliamo dire, il cinema di Tarkovskij ma siamo impressionati dalla
‘pittoricità’ (altro brutto modo di definire questa cosa ma abbastanza convenzionale,
tanto per capirci) dei suoi film ed è quasi tutto merito dei suoi direttori
della fotografia.
5. Quali sono i generi musicali, i gruppi,
gli autori che ascoltate abitualmente?
Riccardo: Mah…
una domanda inesauribile… ultimamente ascolto molta roba isolazionista,
dronica, ambient, field recording ecc.; ma genericamente potrei rispondere John
Cage come i Velvet Underground, La Monte Young come Stockhausen o Biber, un
compositore barocco. Le mie ‘fisse’ sono molteplici: dal rock all’elettronica
per esempio, da Neil Young al Kraut-Rock a Xenakis. Mi piacciono molto i
Godspeed, You Black Emperor, così come la musica tardo-romantica di Schumann,
Mahler, Bruckner o il Bramhs minore. In passato ho avuto la mia ‘cotta’ per la
dodecafonia e la musica seriale di Darmstadt.
Cristina: In
generale il rock psichedelico… dipende molto dalle passioni temporanee ma
indubbiamente i Jefferson Airplane, i Can, i Velvet Underground, i Credence
Clearwater Revival, i Roxy Music…
6. Quali sono i vostri libri e scrittori di
riferimento?
Riccardo: Kafka e
Burroughs soprattutto; che hanno intuito il concetto di ‘scrittura’ come ‘allenamento
alla morte’ e abisso di dissoluzione personale. Poi Joyce, Foster Wallace,
Pynchon, Rimbaud, Baudelaire, Pound, Roussel, Dick, Conrad, Melville, Blanchot,
Deleuze, Derrida… Tra i libri più interessanti degli ultimi anni Tracce di
rossetto di Greil Marcus o i saggi di Wark McKenzie.
Cristina: Henri
Lefebvre, Debord, Burroughs, Virilio, Lewis Carroll, Deleuze… tra i titoli che
mi hanno segnata Le porte della percezione di Huxley e Neuropolitca di
Leary.
Processo
creativo
7. Da quali spunti, idee e influenze nascono
i vostri lavori?
Noi
lavoriamo insieme (Riccardo e Cristina NdR) e spesso anche Andrea Piazza
(co-autore di alcuni nostri lavori) è impegnato nel processo, quindi l’ideazione
di un film è piuttosto complessa. Genericamente potremmo dire che i nostri film
nascono da schegge visive che ‘intravediamo’ o da azioni associate a immagini;
ci spieghiamo meglio se facciamo un esempio. Nell’ultimo film che stiamo
producendo, il primissimo ‘germe’ da cui siamo partiti era quest’immagine di un
mondo post-apocalittico, dove è rimasto un solo uomo. E questo personaggio lo
vedevamo innanzitutto vagabondare in spazi deserti, de-evoluti e in rovina,
alla ricerca di indizi, come un entomologo o un naturalista che cataloga le
tracce di una catastrofe. Altre volte è il concetto di ‘riprodurre’
audio-visivamente un’idea astratta o una percezione, che ci fornisce l’entusiasmo
riguardo al pro-filmico. Le situazioni sono molto variabili. Così come le
influenze. In qualche modo siamo ispirati dalle atmosfere, da certi angoli di
luce o da certe composizioni fotografiche, più che da riferimenti precisi.
8. Quali sono i territori linguistici e
narrativi che vi proponete di indagare?
Decostruire
un’immagine è sempre stato un processo che ci allettava: ma cercavamo una via
nostra, che transitasse all’interno del nostro tempo e non fosse ‘vecchia’ come
attitudine. Viviamo nel postmoderno; un’epoca terrificante, nella quale il
linguaggio di un cinema ‘puro’ come ‘apparizione’ dentro l’occhio, che poteva
permeare il New American Cinema degli anni ’60, è scimmiottato dai plug-in, dai
graffi finti della pellicola, aggiunti infograficamente sui videoclip, sulle
pubblicità, sui commercials. Reagire a questa situazione richiede posizioni
inattuali. Non esiste un nuovo linguaggio. Né una ‘nuova onda’. Certamente non
ci interessa una ‘narratività’ cinematografica intesa come ‘storytelling’ -
concetto contemporaneo spurio e odioso -, cerchiamo al contrario elementi più
strutturali. Come il concetto di ‘serie visive’ di Godard. Ma parallelamente
siamo anche sedotti dallo ‘scolpire’ la luce-movimento della pittura di Vermeer
o Turner, o della fotografia di Josef Sudek o Edmund Kesting o del più
conosciuto Muybridge, fino al cinema di Tarkovskij (dal punto di vista visivo
non poetico, lo sottolineiamo). Alla fine il territorio più consono a far
risuonare chimicamente tutte queste istanze messe insieme, quel ‘luogo’
privilegiato che unisce il concetto di un cinema senza tempo, di un ‘cinema
vivente’ - per citare Saint-Pol-Roux - e l’idea di un cinema ‘politico’ (nei
confronti dell’immagine), per noi si è rivelato essere il territorio dell’immagine
come ‘allucinazione’ percettiva. Il cinema non è tributario della letteratura o
del teatro; anzi: è un dispositivo tecnico in grado di moltiplicare o
amplificare intuizioni che la grande letteratura aveva per così dire ‘imbrigliato’
in perimetri linguistici ibridi. Funziona davvero come un’allucinazione o una
seduta spiritica. O almeno funziona così per noi.
9. Nelle vostre opere significante e significato
sono intrinsecamente legati o cercate di ridefinire la loro relazione?
No, non
crediamo che ci si possa riferire a un assioma di questo tipo. Il cinema è un
linguaggio che a tratti sfiora la ‘non-significazione’, almeno al suo apice. A
nostro parere, quando si producono quei ‘momenti’, chiamiamoli ‘panici’, il
cinema offre una sorta di ‘esperienza pura’, quasi multi-sensoriale; come
Ėjzenštejn che, grazie al montaggio tonale, ci fa sentire il prurito mostrandoci
una spiga di grano o Takashi Makino che fa vibrare la tessitura dello sguardo,
come se improvvisamente, al posto dell’occhio-cervello, avessimo un campo di
onde elettromagnetiche. Sarebbe bello divaricare il linguaggio fino a quei
‘nulla’ linguistici; è questo a cui dovrebbe puntare l’arte in genere: ad
annichilire il piano mono-dimensionale dell’esistenza per pervenire al
non-stratificato. Ci si può arrivare in tanti modi diversi: attraverso la
‘narrazione’ più classica come tramite l’astrazione più ‘‘sperimentale’.
L’importante è ‘tendere’ a quell’esperienza pura ma non è un risultato che si
può attingere tutti i giorni.
10. Che valore date al tempo e allo spazio?
Lo spazio
è il protagonista assoluto. Il tempo è forse una derivata spaziale; una sorta
di ‘piega’ dello spazio. Lo spazio è l’apertura. Come labirinto di tutte le visioni e di
tutti gli sguardi. Il cinema alla resa dei conti è una mappa tracciata da un geometra
(che sembra nipote dell’agrimensore K. de Il castello di Kafka).
Un’‘apertura’ di stanze dentro stanze, paesaggi dentro paesaggi; spazio che si
moltiplica in se stesso. Potere, forza, spazio, i quali, fatti reagire con il ‘fantasma’
di un soggetto, innescano un raggiro. Lo stesso potere ontologico, la stessa
forza interpretativa, lo stesso spazio di comunicazione che è il linguaggio
spettrale del cinema. La spazialità funziona peraltro
come una specie di ètere antico, che intesse tutte le manifestazioni
della modernità e del postmoderno: dall’illuminazione pubblica
alla produzione di energia, dalla fotografia al cinematografo, fino allo
spazio-tempo e alla bio-politica. È un po’ lo spazio che
troviamo nei romanzi di Pynchon: un ètere luminifero appunto,
un fluido omogeno in cui si propagano la luce e le onde dello spaziotempo.
Entità che verrà ‘espansa’ dalle idee del ’900: la fisica quantistica,
la relatività, l’inconscio, il linguaggio di Wittgenstein, gli ‘spazi lisci’
di Deleuze, ecc. Lo spazio ruba così la scena al tempo. Ci
piacciono infatti gli slittamenti successivi dei contesti topografici, dei luoghi,
degli spostamenti, delle traiettorie. Le dislocazioni ‘luminose’ dei personaggi
nei nostri film sono continue. La forma del tempo filmico non procede
organizzando gli eventi in una verticalità di causa-effetto ma è lo spazio
che rallenta e distorce la scansione cronologica del racconto. I personaggi
dei nostri film abbracciano l’’Aperto’ come dimensione e si consumano
nelle luci e nelle ombre. Cercano di diventare terra, erba, fogliame…
cadono dentro lo spazio; un po’ come nella Land Art di Michael Heizer,
dove è proprio il vuoto dello spazio ad attrarre. La geografia per noi è
una geografia ‘fisica’. Non è storica, non è dell’immagine, non è della lingua.
C’è un altro luogo e l’immagine ci passa attraverso. Non c’è geometria. Non c’è
una linea di fuga perché non c’è niente da immaginare. E lo spazio non si
rimodella ma si abita, se ne viene tracciati. È l’’Aperto’ che custodisce; dove
si dà la finitezza della pluralità delle cose... i colori, le forme, i
riflessi... Il ‘bosco’ forse, che citava Ernst Jünger. Per esempio il
‘ludione’, un personaggio di un nostro film, sprofonda in un prato e fuoriesce
da un ponte, s’inoltra in un cancello e affiora in un tempio, apre una porta e
si rinviene lungo una ferrovia, è un occhio ma si vede farfallina...
11. Preferite tenere il focus su un singolo
tema o cercate di conferire valore anche alle divagazioni? Credete nella
rarefazione della narrazione?
Bella
domanda. La vita senz’altro non è una narrazione lineare. E se il cinema ‘copia’
la vita, e secondo noi lo fa, non può che consegnarsi a questa impredicibilità,
a questa rarefazione, come la chiami tu. Ovvio che un film tuttavia ha una
struttura; inevitabilmente, anche quando si propone come programmaticamente
de-strutturato o quant’altro. Anche nella più stravagante delle trovate
anti-narrative. Ma la digressione, la divagazione, la deriva ‘situazionista’
sono sempre presenti. Anche nel prodotto più hollywoodiano sul mercato, per
fare un riferimento provocatorio. Non pensiamo che sia ancora ‘lecito’ affidarsi
alla constatazione di poter ‘raccontare’ una storia senza divagare. Così come
non crediamo che oggigiorno il cinema cosiddetto ‘sperimentale’ possa essere
ancora così arrogante da trincerarsi dietro immagini rastremate, al punto da
consumarsi in esse stesse. Sono spesso posizioni di comodo e di mercato. Anche storicamente
il cinema è molto cambiato, per quello che vuol dire. Minacciato da altre
potenze audiovisive: l’oculus rift, la realtà aumentata ecc. Ma il cinema ha
questa teleologia, che banalmente è rappresentata, quando sei al montaggio,
dalla ‘timeline’. Tu hai una timeline che va da zero a x. Cosa che non succede negli
ologrammi o nell’oculus rift. Per questo c’è un tema e ci sono delle
variazioni, come nella musica. A volte prevale il primo a volte sono gli imprevisti
che portano il film altrove. E questo ‘altrove’ è in ogni caso la fine di un
viaggio e come tale un lutto e uno scacco.
12. Meglio indagare la realtà senza filtri e
retorica o bisogna trovare il modo di far emergere da essa una parte poetica?
Non
crediamo nella poesia come valore. Non si cambia il mondo con la poesia. Ma la
realtà è troppo spesso un film girato male, come direbbe Godard.
13. Vi rivolgete ad un pubblico in
particolare?
No. Non
esiste un pubblico a cui pensiamo mentre facciamo un film. Semmai appena prima
o appena dopo, come tutti, crediamo, possiamo fare delle congetture su chi
vedrà il lavoro, su chi potrebbe essere interessato ecc., ma non mentre
lavoriamo. Durante il processo dev’essere tassativo non considerare niente del
genere: sarebbe colpevole.
14. Cinema e videoarte: superamento o
sconfinamento?
Ci sono
videoartisti che apprezziamo molto, come lo storico Nam June Paik ma in
generale l’etichetta ‘videoarte’ è troppo spesso associata a prassi che non
condividiamo. Oggi questo discorso è un campo davvero enorme per implicazioni.
Tu giustamente suggerisci lo ‘sconfinamento’ espressivo, riguardo al
multimediale. Senz’altro: un attraversamento che slarga letteralmente il
medium. Ma non in una sola direzione: quella della videoarte per esempio. Bensì
in un labirinto di direzioni possibili. Pensiamo al videomapping (che è
architettura all’ennesima potenza) o alle istallazioni o ai video-virali… Si
tratta di una molteplicità non riducibile, che probabilmente conduce alla
confusione semiotica e forse all’impostura. Ma l’impostura è la forma per
antonomasia del postmoderno e oggi il cinema si confronta con quest’aporia. Che
cosa essere? Da che parte confluire? Per noi la forma-cinema è ancora centrale
ma non è necessariamente nelle sale (per esempio alcune serie tv sono estremamente
‘cinematografiche’, come Legion) ed è data, più che dal plot narrativo,
dal fatto che l’immagine-del-cinema si congegna attraverso un’altra procedura,
più organica e più profondamente legata alla ‘piegatura’ del ‘visibile’,
attraverso la luce, l’inquadratura, la profondità di campo, il lavoro sui
colori, sulla loro gradazione, sulle lenti ecc. Quell’energia cosmica della
radiazione luminosa che ‘friggeva’ la pellicola di Brakhage e che oggigiorno -
in un’altra maniera o ‘manierismo’, se preferisci, non ci disturba - si può
inseguire con le nuove cineprese digitali di ultima generazione. Ed è qualcosa
che non appartiene al concetto di videoarte, normalmente inteso.
Processo
realizzativo
15. Qual è la vostra cifra stilistica?
La
tendenza alla ‘sospensione’, alla psichedelia.
16. Quanto ritienete sia importante la dimensione
metaforica? Come cercate di renderla?
Tutto è
metaforico. A partire dalle ‘parole’, che sono ‘suoni’ articolati per dare corpo
e prensività a concetti astratti. La parola ‘albero’ è la cosa più lontana dall’albero
che ci sia, direbbero in coro Wittgenstein e Foucault. Ma la metafora
pedissequa e il simbolismo in sé vanno evitati. Gli oggetti, le luci, i colori,
la dimensione del sound-design, la distribuzione scenica, l’inquadratura, il
movimento di macchina: tutto contribuisce a sagomare un pensiero-visivo. E
nella sottrazione di questo ‘tutto’, la metafora è libera di parassitare
l’immaginario di chi vede e di rapirlo felicemente.
17. Lasciate gli attori liberi di
improvvisare?
Assolutamente
sì. Gli attori sono un ‘incidente di percorso’, direbbe Andrea Piazza (nostro
co-autore in molti soggetti che abbiamo girato). I grandi attori sanno di
essere solo un mantice di forze, in cui si coagula il sedimento di un film. E
per questo devono illudersi di essere liberi, sia quando agiscono su un semplice
canovaccio, sia quando devono attenersi a una sceneggiatura di ferro; devono
credere soprattutto a quest’illusione. Improvvisando, anche sulla sceneggiatura
più rigida, si ‘spersonalizzano’, rimanendo se stessi.
18. In base a cosa sceglite le location?
Spesso
per necessità. Chi gira film senza budget, come noi, o con budget minimi, sa
che la location è una necessità e un’urgenza che va colta al volo. E con cui
bisogna scendere a compromessi. Detto questo, quando possiamo, preferiamo
location che si costruiscano scenograficamente in base alle profondità
spaziali, ai tagli di luce, alle atmosfere che vi ravvisiamo, intessute nella
loro conformazione plastica ecc. Facciamo prove, adattiamo gli obiettivi, l’illuminazione,
verifichiamo i colori in sviluppo.
19. Preferite filmare in interni o in
esterni?
Non
abbiamo preferenze. Gli interni, se conosci abbastanza bene la postproduzione, sono
più agevoli da gestire. Gli esterni al contrario sono spesso una vera sfida.
20. Che macchina da presa utilizzate? Qual è
il suo maggior pregio?
A noi
piacciono le BlackMagic e le Arri. Usiamo le BlackMagic perché sono più
economiche. Hanno una latitudine di posa eccezionale e una ‘pasta’ visiva
ineguagliabile; un negativo digitale logaritmico (da cui si fa color correction)
di sottile bellezza; ed è questo che fa la differenza, perché il grading è un concetto
abbastanza abusato oggigiorno.
21. Com’è organizzata una vostra giornata di
riprese?
Molto
variabile. Tendiamo a frammentare molto per rivedere subito e adattare semmai.
22. Avete dei collaboratori? Che grado di
complicità instaurate con loro?
Sì.
Cerchiamo sempre di coinvolgerli il più possibile nel processo di ideazione e
di realizzazione, fino alla post-produzione, dove invece lavoriamo da soli. Formiamo
delle piccole crew - le chiamiamo così - per ogni film. Spesso ci vediamo,
discutiamo ecc.
23. Musica, suoni, rumori. Sono presenti
nelle vostre opere? Dove preferite utilizzarli?
La musica
e il suono sono centrali. Seguono precise partiture, in cui la volumetria, gli
spettri formanti dei suoni, la spazializzazione, la rumoristica sono in
relazione all’uso della voce da parte degli attori. La musica non dovrebbe
semplicemente ‘accentare’ determinati stati, fungere da mero strumento di
sottolineatura ma integrarsi nella ‘carne’ del film; avere delle sincresi, dei
punti acusmatici, dei punti di taglio ecc., come sosteneva Michel Fano nella
sua teoria dell’immagine-sonora.
24. Quale valore date al testo scritto e alla
voce fuori campo?
La
voce-off, nonostante sia detestata da molti, è sempre stata una specie di desiderio
inconscio del mezzo cinematografico, per cui non la disdegniamo affatto. Il
purismo non ci interessa. Nell’ultimo film, che stiamo ultimando, abbiamo usato
in ogni caso uno stratagemma per s-naturare questo concetto di ‘fuori-campo’.
Allo stesso modo lo ‘scritto’ viene trattato come un’altra dimensione, solo a
tratti trapuntata al visivo. Tutti questi piani: il visivo, il sonoro, il testo
recitato, il ritmo hanno la stessa importanza.
25. Quanto ritenete sia importante il
montaggio?
Molto
importante. Più di quanto di solito i filmmaker siano disposti a confessare.
Sopperisce alla deficienze di scrittura, pareggia le discrasie, i toni,
ingaggia la verosimiglianza dello spettatore e lo manipola. Il montaggio è il
‘trucco’ per eccellenza da Méliès in poi. Ma come con tutti i trucchi, non
bisognerebbe abusarne.
Il
prodotto finito
26. Quali canali sfruttate per diffondere le vostre
opere?
Il web, i
blog, il nostro sito, i social network in genere, gli eventi… Recentemente ci è
capitato di presentare qualche nostro lavoro all’Università di Padova, grazie
al critico Francesco Cazzin.
27. Pensate subito di partecipare a qualche
concorso o la decisone dipende soprattutto dal risultato finale?
In
passato abbiamo mandato i nostri lavori a qualche festival. Adesso - almeno al
momento - non lo facciamo più. Poi valuteremo.
28. Le vostre opere hanno ottenuto qualche
premio/riconoscimento?
No. Se
parliamo di premi. Se parliamo di riconoscimenti di addetti ai lavori, critici,
ecc., sì.
29. Siete soddisfatti dei vostri lavori?
Quale vi rappresenta maggiormente?
Difficile
essere soddisfatti. Si potrebbe sempre aver fatto meglio quello che si è
portato a termine. In qualche modo, quando un lavoro è finito, non ti appartiene
più e quindi il rapporto con esso è sempre ambivalente e
conflittuale.
Il film che più ci rappresenta è sicuramente quello che stiamo finendo di
girare in questi mesi, che s’intitolerà Il paese più vicino. Un film che
parla appunto, come dicevamo sopra, di un ‘sopravvissuto’, rimasto solo, nello spazio
di un mondo dove tutta l’umanità è inspiegabilmente sparita e che vaga alla
ricerca di tracce o di un’altra ‘terra promessa’, in cui abitare.
30. Progetti futuri?
Siamo
esausti dalla lavorazione de Il paese più vicino. Per ora quindi videoclip.
Per altri lungometraggi si vedrà. Ci piacerebbe girare un documentario.
Filmografia
Film:
- La
lunghezza di Planck - 2015 - 84’,
- Desert
Light - 2016 - 20’,
- Ludione
della lampada, 2016 - 120’,
- Ciguri, 2017 -
20’
- Ilinx, 2017 -
6’,
- Eden
Noon - 2017 - 69’,
- Il
paese più vicino - 2018 - 90’ circa. Work in
Progress.
Videoclip musicali:
- Slave
So I - Luigi Bonora, 2017
- Humbert Humbert - Lourdes Rebels, 2017
- Rock ’n’ Roll Royce - Lourdes Rebels, 2017
- O morte - Francesco
Pelosi, 2017
- Figura
del mondo - Merovingi, 2018
- Siamo
silenzio - Merovingi, 2018
Link:
- Sito web: http://www.ludioneproductions.it
- Vimeo: https://vimeo.com/user36732166
- Youtube: https://www.youtube.com/channel/UClsxxyMdiTYRhlkXcjd1Iag
Biografie
Riccardo Vaia
Nasce a
S. Secondo P.se nel 1967. Si laurea in Lettere a Bologna e insegna in un Liceo
d’Arte. Scrittore, giornalista, artista visivo, musicista, filmmaker, fonda e/o
collabora negli anni a numerosi progetti: Marat, sadoMarta, Ludione
Productions. Ha all’attivo anche mostre, scritti, libri e saggi vari, apparsi
in svariate pubblicazioni. Dal 2013 lavora soprattutto nel campo del cinema
digitale. Dal 2015 forma con Cristina Pizzamiglio un sodalizio artistico ed
esistenziale.
Cristina
Pizzamiglio
Nasce ad Asola
nel 1996. Si diploma al Liceo d’Arte nell’indirizzo Audiovisivi e Multimediale
e attualmente frequenta Scienze della Comunicazione a Bologna. Lavora come
fotografa e videomaker in vari ambiti: dalla moda al reportage.
Show Reel from Riccardo Vaia (Endimione) on Vimeo.
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