Registi di Parma – Intervista a Pietro Medioli
Pietro
Medioli approda al documentario nel 2000. Fondamentale per il suo percorso
artistico è l’incontro con Werner Herzog, uno degli autori con i quali è
entrato in contatto lavorando in qualità di aiuto-regista a partire dal 1992 al
Teatro dell’Opera di Bonn.
Quartiere Pablo, ultima opera in
ordine temporale di una carriera che vanta ben 18 titoli, è una dichiarazione
d’amore nei confronti di uno dei quartieri di Parma in cui si respira tradizione
e, soprattutto, senso d’appartenenza. Questo aspetto è stato ben colto dal
pubblico, che ha riempito le storiche sale della città in occasione di ben otto
proiezioni. Un grande risultato, che impreziosisce il percorso di un autore maturo
e consapevole.
Riferimenti
culturali
1. Da dove nasce il
tuo amore per il cinema?
Credo
sia iniziato da bambino andando al cinema d’inverno, al pomeriggio, spesso con
mio nonno e talvolta con mio padre. Era l’ultimo periodo del western. Mi
stupiva soprattutto entrare con la luce
del giorno ed uscire con il buio. Poi verso i diciott’anni le rassegne
dell’Astra: ricordo quelle su Ferreri, Bergman, Fassbinder.
2. Quali sono i tuoi
registi e documentaristi di riferimento?
I
registi in generale sono tanti, difficile elencarli. Nel cinema documentario
potrò sembrare un po' retro’ ma direi Frederick Wiseman, Jorin Ivens, Vittorio
De Seta e Franco Piavoli. Poi ovviamente Herzog.
3. Quali opere
annoveri tra i capolavori?
Domanda
difficile perché sono tanti. Faccio qualche titolo: La febbre dell’oro e Luci
della ribalta di Chaplin, Il
cameraman di Keaton, La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, Ombre
rosse di Ford, M – Il mostro di Duesseldorf di Lang, Il padrino
di Coppola, Toro scatenato di Scorsese, Paisà di Rossellini, Aguirre
Furore di Dio di Herzog, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto
di Elio Petri. Ma tra dieci minuti
potrei farne altri 20.
4. Quali sono quelle
che riguarderesti più e più volte?
Di
sicuro quelli che ho citato. Poi Pianeta Azzurro di Piavoli, Padre
padrone dei Taviani, Ladri di biciclette e Suscià di De Sica, quasi
tutto Billy WlIder, tutto Kurosawa. Idem per Bergman e Tarkovskij. I film di
Ozu che conosco. Il problema è sempre quello, i film valgono quando si vogliono rivedere. Il più grande
complimento è quando qualcuno mi dice che ha rivisto un mio film.
5. Quali sono i
gruppi e cantanti che ascolti abitualmente?
Sento
poca musica pop o rock. Ascolto talvolta cantautori anche italiani. Di fatto
però la musica che preferisco è l’opera
e la classica di qualsiasi epoca, anche contemporanea. Per me dopo i
vent’anni è stato un po' così e questi generi hanno preso il sopravvento.
Mentre mi è sempre piaciuto il jazz.
6. Quali sono i libri
e gli autori letterari che ami?
Ho
sempre letto soprattutto i classici. Mi vanto di aver quasi finito di leggere
tutto quello che ha scritto Dostojevskij,
mentre di recente ho letto, a distanza di 25 anni, Guerra e Pace per la
seconda volta. Per quanto riguarda i contemporanei leggo Roth, Oz, Grossman,
Auster, MccCarthy. Per gli italiani sono indietro di vent’anni almeno, i nuovi
scrittori non li conosco. Da tempo però ho affiancato alla narrativa la
saggistica e i libri di storia e filosofia. Mi piacerebbe leggere un po' di
libri di scienze.
Processo
creativo
7. Perché hai scelto
come forma espressiva proprio il documentario?
Sinceramente
non saprei. Dopo la maturità mi sono iscritto a Giurisprudenza ma avevo già in
mente di fare il regista. Il cinema, alla metà degli anni Ottanta, mi sembrava
irraggiungibile e così iniziai a fare l’aiuto regista in teatro e poi in
Germania in un teatro d’opera. Feci anche le mie prime regie. Credo che di fatto sia stato Herzog a
portarmi a fare documentari. Una volta a casa sua a Monaco mi disse: “Se
non hai bisogno di costumi un film lo fai anche con diecimila marchi”. Più o
meno come dire oggi diecimila euro.
8. Da quali spunti,
idee e influenze nascono i tuoi lavori?
Credo
che di fatto fare un film diventi sempre più un incidente di percorso. Si ha
una certa idea su di un certo tema ma difficilmente poi la si realizza. Poi a
volte si verificano condizioni strane, come conoscere luoghi e frequentare persone. Allora, se si vede che
c’è carne da mettere al fuoco, si indaga, si ricerca. Ci vuole tempo. Viaggiare credo aiuti molto a conoscere,
purtroppo in questi ultimi anni l’ho potuto fare molto poco.
9. Quando trovi il
tempo per delineare e definire la struttura delle tue opere?
Il
tempo per sviluppare progetti per me non è un problema enorme, per fortuna,
perché non sono un dipendente legato agli orari di un cartellino quindi, pur
dovendo lavorare, ho dei periodi più o meno lunghi che posso dedicare a quella
che ormai da anni non è più un’attività a tempo pieno.
10. Quanto è
importante documentarsi sulla tematica da trattare e sui soggetti da intervistare?
Documentarsi
è molto importante, sempre. Conoscere il
più possibile, che non vuole dire solo leggere, è fondamentale. È indispensabile
avere anche un po' di fiuto per trovare le persone “giuste”, ed io credo di
averne. Il verbo “intervistare” però lo eviterei. L’intervista è una cosa che
va bene nei servizi giornalistici o negli studi televisivi.
11. Organizzi il
lavoro per tenere il focus su un singolo tema o è importante prevedere anche
eventuali
divagazioni?
All’inizio
bisogna essere, secondo me, il più
possibile aperti, direi a trecentosessanta gradi, già a partire dal tema
del film. Nel senso che si può avere uno scopo ma poi notare che non è
raggiungibile quell’obiettivo ma un altro. In filosofia si chiama “eterogenesi
dei fini”. Abbiamo una meta ma poi ci accorgiamo che a fianco ne esiste
un’altra e forse vale la pena non escluderla perché potrebbe diventare quella
da raggiungere. Non è detto migliore o più importante, ma raggiungibile. Poi
ovviamente si restringe il campo sempre più.
12. Meglio riportare
la realtà senza filtri e senza retorica o bisogna trovare il modo di far
emergere da essa la
parte poetica?
Io
non credo si possa riportare la realtà “senza filtri”, credo anche poco nel
cinema-verità. Credo anzi che ci voglia invenzione proprio per avvicinare la
verità. Certo, poi è indispensabile
provocare emozione, creare situazioni e cercare immagini che provochino
emozione.
13. Cosa cerchi di
comunicare? A chi?
Cerco
di comunicare dei sentimenti, delle
sensazioni, costruire anche atmosfere; cerco anche di trasmettere un certo
grado di verità delle cose, il grado
massimo che penso di riuscire a raggiungere. A chi? Non lo so. Comunque sempre al maggior numero di persone, senza
distinzioni.
Processo
realizzativo
14. Com’è organizzata
una tua giornata di riprese?
La
organizzo in modo da avere sufficiente tempo per ragionare, preparare quello
che anche per il documentario è un set, e per poter girare una scena anche più
volte. Ma mai più di due scene al giorno.
Poi
cerco anche di tenere un po' di tempo per guardarmi intorno: c’è sempre
qualcosa che succede a due passi o a trecento metri. Si verificano spesso delle
situazioni improvvise, nuove, mentre si gira e bisogna avere gli occhi ben aperti e le orecchie tese per coglierli al
volo. A volte, insomma, si deve un po' cercare di domare il caso.
15. Quanto ritieni
siano importanti le interviste? Come le prepari?
Ragiono
su quello che deve saltar fuori e lo scrivo sempre prima, anche se poi non
corrisponderà. Poi lavoro con le persone,
cerco di capire che cosa vogliono dire ma anche che cosa possono o potrebbero
dire. Cerco sempre di creare delle situazioni, la cosa contraria
all’intervista. Le situazioni poi si sviluppano.
16. Lasci le persone
libere di divagare o cerchi, direttamente e/o indirettamente, di indirizzarle?
Inizialmente
parlo molto io, le indirizzo. Poi strada facendo le lascio sempre più libere,
me ne allontano, cerco di fare in modo
che si sentano libere di esprimersi, in un certo senso anche di divagare;
ma questo avviene solo se si sentono collocate in una situazione congeniale.
17. In base a cosa
scegli le location? Quanto sono importanti?
Sono
fondamentali i luoghi. Il termine “location” ormai lo si usa quando si decide
in quale ristorante andare! Ma i luoghi
sono strettamente legati al tema. In “Tokio-ga” c’è un bel dialogo tra
Herzog e Wenders. Wenders deve filmare nel cemento di Tokio e deve individuare
i luoghi da riprendere, mentre Herzog gli dice che non è possibile filmare un
panorama di cemento. Herzog ha ragione, perché le immagini pure sono, per
esempio, quelle della foresta pluviale. Ma Wenders girava nel caos della città,
quindi doveva trovare le immagini là.
Tutto
questo per dire che siamo legati al luogo dal tema. L’importante è cercare
immagini nuove, o comunque immagini che
abbiano un loro senso segreto nel deterioramento provocato dal proliferare del
digitale.
18. Interni o
esterni?
Dipende
sempre dalle situazioni che si filmano. Tendenzialmente cerco di trovare degli
“esterni”. Difficilmente potrei immaginarmi un film completamente senza
“esterni”, mentre senza “interni” non farei fatica.
19. Durante le
riprese rispetti la scaletta che ti sei dato o cerchi di cogliere al volo anche
le situazioni
inaspettate?
Come
dicevo precedentemente, rimango sempre con gli occhi ben aperti.
20. Che macchina da
presa utilizzi? Qual è il suo maggior pregio?
Non
posseggo più una macchina da presa. L’ultima è stata una Sony PD 170 ma mi fu
rubata. Devo anche dire che raramente filmo io. Preferisco lavorare con un
operatore per due motivi: 1) Di certo è più bravo di me; 2) Il regista deve essere
libero e fidarsi di chi ha l’occhio in camera. L’ultimo film è stato girato con
la Canon, ma l’importante è avere le ottiche e ormai sono tutte ottime.
21. Hai dei collaboratori?
Certamente,
io credo nella troupe. Stimo chi fa
tutto da solo ma io sono cosciente di avere dei limiti tecnici. Quindi mi
avvalgo sempre dell’aiuto di operatore, fonico e assistente. Anche il direttore
di produzione è molto utile, anche se non è obbligatoria una sua presenza fissa.
22. È presente la
musica nelle tue opere? Dove preferisci utilizzarla?
Sì,
è molto presente. È una componente essenziale. Non credo di essere in grado di
immaginare un film senza musica. Spesso l’ho in mente mentre giro, talvolta anche
prima. Di solito preferisco usarla da sola, in modo che si leghi alle immagini in modo contrappuntistico, per utilizzare un
termine “musicale”. Raramente la uso sotto il parlato, di solito preferisco
usarla dopo le parole: dove finiscono le parole inizia la musica.
23. Utilizzi la voce
fuori campo? E la parola scritta?
Se
intendi la lettura di qualcosa direi di sì, spesso.
Sulla
voce fuori campo c’è un lungo discorso. Noi, ovvero coloro che hanno
collaborato al rilancio del documentario alla fine degli anni Novanta, abbiamo
deciso di eliminarla perché ci sembrava una cosa vecchia. Talvolta è indispensabile, ma va usata con parsimonia, almeno per me. Prossimamente vorrei usare
la mia, quando necessaria, anche se temo che usandola potrei rischiare la personalizzazione. Non so. Ma lo farò!
24. Quanto ritieni
sia importante il montaggio?
Il
montaggio è fondamentale, anche se oggi
ha assunto un ruolo forse eccessivo. Sembra che chi monta il film sia il
regista e non un secondo regista. Io però ho un’idea di montaggio mentre giro e
vado in montaggio con un arco narrativo già abbastanza chiaro dell’intero film,
ovviamente suscettibile di cambiamenti. Con il montaggio digitale di oggi si
deve però stare molto attenti perché le possibilità sono diventate
paradossalmente troppo ampie.
25. Qual è la tua
cifra stilistica?
A
questa domanda non so rispondere.
Il
prodotto finito
26. Quali canali
sfrutti per diffondere le tue opere?
L’ultimo
mio film, Quartiere Pablo, è stato
proiettato a Parma 8 volte e il passaparola ha portato al cinema quasi mille
spettatori paganti. In autunno uscirà il dvd. La distribuzione è un problema enorme. Gli ultimi passaggi
televisivi dei miei film risalgono al 2007. Forse ci si può aspettare qualcosa di nuovo tramite il web, non so. Di
fatto è un imbuto la cui parte superiore si allarga sempre di più mentre quella
inferiore si restringe, a sua volta, sempre di più.
27. Pensi subito di
partecipare a qualche concorso o la decisione dipende soprattutto dal risultato
finale?
Ho
smesso da anni di partecipare ai festival. Ci credo poco. Certo, partecipare ad
una manifestazione importante non mi dispiacerebbe ma credo poco ai criteri di
selezione di oggi, ed ancor meno al sistema dei premi.
28. Hai vinto qualche
premio/riconoscimento? Con quali opere?
Ho
partecipato a diversi festival nei primi anni 2000 sia in Italia che
all’estero, ma non ho mai ottenuto un riconoscimento. Ci sono andato vicino al
Libero Bizzarri di San Benedetto del Tronto con Il mondo che abbiamo perduto, a Torino nel 2001 e in Russia con Mezzanotte
a Mosca, e nel 2003 a Bellaria con Nostalgia del futuro. A Bellaria
Lorenzo Pellizzari su Cineforum scrisse che avrebbe dovuto vincere il mio film.
Acqua passata.
29. Sei soddisfatto
dei tuoi lavori? Quale ti rappresenta maggiormente?
Complessivamente
sono abbastanza soddisfatto. Direi però che, facendo un bilancio, avrei voluto farne
due o tre di più, ed erano film ai quali tenevo molto.
30. Progetti futuri?
Attualmente
non ho molto in cantiere. Sto partendo per Treviso per dei sopralluoghi sul
fiume Sile. Il titolo provvisorio del film è “Il fiume del silenzio”. Lo farò?
Chissà!
Poi
avrei un progetto di un Macbeth tra Shakespeare e Verdi da ambientare in
un castello in provincia di Reggio, un film tra cinema e teatro. Ci penso da
anni e credo di avere l’età giusta per farlo.
Filmografia
-
Il mondo che abbiamo perduto, 2000
-
Botticelli e la Divina Commedia, 2000
-
Mezzanotte a Mosca, 2001
-
Um Certo Brasil, 2002
-
La giacca del tenore, 2003
-
Nostalgia del futuro – In viaggio con
Vittorio Foa, 2003
-
Lezioni d’emergenza, 2005
-
Quel pezzo d’Emilia altrove, 2005
-
Un leader in ascolto, 2006
-
Fermata a richiesta, 2008
-
Per esempio Vittorio, 2010
-
YIUANA, 2012
-
Quartiere Pablo, 2017
Biografia
Pietro
Medioli è nato nel 1965 a Parma, dove ha compiuto i suoi studi. Già a vent’anni
si occupa di cinema e teatro per una radio privata, è figurante al Teatro Regio
di Parma e inizia a collaborare in teatro come aiuto regista volontario. Nel
1990 esordisce come coregista in La donna
alla finestra di Hugo von Hofmannsthal (Collecchio-Parma). Segue nel 1991 Nel nome di Mozart (Milano) e nel 1992 Lazarus di Schubert (Milano): poi, per
tutti gli anni Novanta, seguiranno regie di opere di Pergolesi, Puccini, Verdi
e Wagner. Nel 1992 è chiamato dal regista Giancarlo del Monaco all’Opera di
Bonn dove resta otto anni come aiuto regista stabile del teatro, affrontando
una quarantina di opere del repertorio francese, tedesco, russo ed italiano,
oltre ad opere contemporanee come Hindenburg
di Steve Reich, occupandosi anche delle “riprese”. A Bonn lavora con Werner
Herzog con il quale ha collaborato poi diverse volte nell’opera e una volta nel
cinema. Interrotto il contratto a Bonn è rientrato in Italia nel 2000
dedicandosi prevalentemente al cinema documentario.
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