To The Wonder
di
Terrence Malick
con Ben Affleck, Olga Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem
Drammatico, 112 min., Usa, 2012
***
Da molti considerato come un incidente di
percorso nella carriera di Malick, il film è piuttosto un’opera concepita
sull’onda del processo creativo che ha raggiunto il suo apogeo con il capolavoro
precedente, The Tree of Life. La
perfezione delle immagini (le migliori del cinema contemporaneo, grazie al
lavoro del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki) continua a riempire la
nostra anima, come pure la musica scelta (in questo caso svetta Bach), ma c’è
effettivamente qualche punto debole di troppo, soprattutto a livello narrativo. Il montaggio non segue con
precisione la rarefazione del racconto (come invece accadeva in The Tree of Life) e così ci troviamo di
fronte a troppe scene ripetitive che non ci permettono di scavare nella storia
per riuscire a comprenderne appieno il senso. Capiamo solo che Neil (Affleck) e
Marina (Kurylenko) vivono una storia d’amore che non riesce a funzionare. Dalle
immagini desumiamo che forse la colpa è imputabile a questioni ambientali:
Marina, parigina, non si trova a proprio agio negli USA delle immense distese
di campi e delle villette sorte in mezzo al nulla (in questo ci ricorda una figura complementare rispetto alla Pocahontas del finale di The New World). Oltre a questo buono spunto, però, ci sono
troppi argomenti non approfonditi, come la crisi spirituale di padre Quintana
(Bardem) che è interessantissima e che avrebbe meritato uno spazio maggiore e
ben più rilevante. Infine, due banali errori che si sarebbero potuti evitare:
la scelta di Affleck, la cui fisicità non si sposa con la grazia (comunque
anche troppo enfatizzata) della Kurylenko; l’inserimento delle scene in cui
appare Romina Mondello, fuori contesto anche a causa di frasi stucchevoli come
“Io sono l’esperimento di me stessa”.
Holy Motors
di Leos Carax
con Denis Lavant, Eva
Mendes, Kylie Minogue, Edith Scob Drammatico, 110 min., Francia-Germania, 2012
**
Holy Motors è metacinema, ovvero cinema che riflette su se stesso. Difficile
dire se lo faccia bene o se lo faccia male. La critica si è divisa in due,
mentre il pubblico dei cinefili è praticamente concorde nel dire che si tratta
di uno dei più importanti film della storia della settima arte (almeno di
quella contemporanea). È indubbiamente consolatorio vedere un’opera che cerca
di scongiurare la morte del cinema attraverso la sua celebrazione. Tuttavia è
pericoloso e non necessariamente azzeccato il modo in cui lo fa Carax.
Diversamente da Buster Keaton, che nel capolavoro La Palla n. 13 (Sherlock Jr., 1924) entrava nello schermo e dimostrava come il
cinema sia il luogo delle meraviglie e delle eterne possibilità, qui ci
troviamo di fronte a Monsieur Oscar, che nell’arco di 24 ore viaggia su una
limousine/camerino e assume diverse identità per prendere parte come
protagonista a varie scene che ora si svolgono sul ponte Alexandre III, ora nel
cimitero Père-Lachaise. Ogni episodio risponde ad un genere cinematografico ed
è legato (flebilmente) al precedente dal protagonista. Tutti insieme, gli
episodi dovrebbero essere i tasselli di una più generale riflessione sul cinema
in cui si riflette sull’identità e i ruoli nella vita e nella finzione, la
contemporaneità e il rapporto tra realtà e finzione. Peccato che il tutto
rimanga a livello d’intenzione, perché il film procede per accumulazione risultando
confuso, cervellotico, frutto di un buon tecnico che però non ha la necessaria
preparazione culturale per partorire un’opera che non sia solo ben eseguita ma
anche pregna di significato. Certo, c’è qualche buona trovata come
l’inserimento degli indirizzi internet al posto delle epigrafi sulle lapidi del
Père-Lachaise, ma è anche da queste scelte che si constata come la riflessione
si concentri più sui significanti che sui significati rimanendo molto a livello
superficiale, per un risultato quasi infantile. Come l’imbarazzante finale
(forse il peggiore di questi ultimi anni) in cui ci sono le limousine che
parlano tra loro.
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