sabato 29 giugno 2013

Libertà di Jonathan Franzen. Recensione

 

In questi giorni d'estate divisi tra caldo torrido e inaspettati scrosci temporaleschi è il caso, per chi non lo avesse ancora fatto, di rispolverare uno dei libri più validi degli ultimi anni, celebrato da più parti come Il Grande Romanzo Americano e che ha valso al suo autore vari premi e riconoscimenti.

Dopo il sublime Le Correzioni, in Libertà (Freedom) Franzen riesce ancora una volta nell’impresa di rappresentare la complessa società americana, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni, attraverso le vicende di una tranquilla famiglia della media borghesia urbana, seguendone i passi dall’ascesa sino all’inarrestabile declino: Walter, Patty, i figli adolescenti Joey e Jessica.
Come nel già acclamato predecessore, anche qui lo sguardo del narratore si sposta di volta in volta sui singoli personaggi, esprimendone emozioni e pensieri mediante una tecnica narrativa che favorisce l’immedesimazione e si avvale di continui flashback e scarti cronologici.
Privilegiando il tempo interiore rispetto a quello reale, molti eventi, anche importanti, trovano posto in un passato anteriore a quello del racconto, come fossero rievocati dai ricordi dei protagonisti, e non di rado vengono narrati in modo del tutto incidentale, come fossero fatti assolutamente marginali.

Questo contribuisce all’impressione che siano in realtà i personaggi stessi a muovere i fili della trama: la voce dell’autore si fonde con quella delle sue creature, che diventano esseri viventi a tutti gli effetti, capaci di soffrire, emozionarsi, prendere decisioni, pentirsi delle proprie azioni.
Ad ogni pagina la loro esistenza acquisisce sempre maggiore concretezza, il loro respiro, il loro calore umano sembrano quasi fisicamente percepibili. Uno dei maggiori meriti di Franzen è infatti sicuramente la sua capacità di creare personaggi fortissimi, credibili e convincenti, mossi da pulsioni e motivazioni del tutto reali con le quali, tutti i giorni oppure in qualche momento determinato della nostra vita, ci troviamo inevitabilmente a dover fare i conti.
E Franzen descrive queste emozioni con abilità ineguagliabile, tanto che ben presto non solo ci accorgiamo che ogni singolo personaggio racchiude anche un po’ di noi stessi, ma ci rendiamo anche conto dei meccanismi psicologici inconsci che stanno alla base delle nostre azioni e che sino a quel momento avevamo ignorato. Pagina dopo pagina, leggendo le peripezie dei protagonisti, non si può fare a meno di esclamare, con una punta di sconcerto e di entusiasmo insieme: “Ma è proprio così! E’ proprio quello che si prova!”

E questa autorivelazione coinvolge anche i personaggi che troviamo più insopportabili e che, tuttavia, alla fine siamo costretti nostro malgrado a riabilitare almeno in parte.
In effetti i protagonisti di Franzen sono così vivi e caratterizzati che o li si odia o li si ama. Per fermarci ai due principali, ho amato Walter e odiato Patty. Sin dall’inizio ho amato Walter per la sua estrema coerenza, per la sua integrità e il suo zelo onnidirezionale. Patty invece l’ho odiata per il suo infantilismo, i suoi tediosi piagnucolii, la sua debolezza, immaturità e acidità.
In questo senso Patty è un’evoluzione di Caroline, la moglie del Gary delle Correzioni il quale, diversamente da Walter, è un personaggio paranoico e depresso, portatore di una visione negativa e parziale della realtà. E, dato che nelle scene che lo riguardano, il punto di vista del racconto è sempre quello di Gary, ne deriva che anche la descrizione degli atteggiamenti della consorte potrebbe essere inficiata dalla sua mancanza di obiettività.

La depressione è comunque un tema molto presente anche in Libertà, sebbene in forma meno patologica e claustrofobica rispetto al romanzo precedente.
Infatti come ha affermato Franzen in un’intervistase sei un cittadino dell’Occidente ricco e prospero, in un mondo così travagliato sul piano ambientale e politico, dovresti essere davvero malato di mente per non essere ogni tanto un po’ depresso”.

Maggiore leggerezza non significa però minore impegno sociale e politico: ovunque nel testo l’autore coglie l’occasione per stimolarci alla riflessione sui macrotemi dell’attualità: politica, ecologia, sovrappopolazione, guerra, corruzione, moralità, autorealizzazione.

Particolarmente incisiva e insistente è l’idea secondo cui il più grande male del pianeta è costituito dall’eccessivo numero di persone che lo abitano. Tale convinzione anima Walter sin dai tempi del college e lo induce ad ingaggiare una vera e propria crociata contro la crescita demografica caldeggiata dai media tradizionali e dal papa, colpevole di spingere le coppie a procreare, causando inquinamento e distruggendo l’ambiente.
Per portare la propria battaglia all’attenzione dell’opinione pubblica, Walter fonda la Nature Conservancy, un’associazione ambientalista che si propone come atto simbolico la salvaguardia della dendroica cerulea, una specie ornitologica minacciata dalla deforestazione e dell’aumento esponenziale di gatti domestici, entrambi effetti del popolamento umano.
Si spiega così la misteriosa presenza, sulla copertina del libro, di un guardingo uccelletto azzurrino, che si staglia circospetto sullo sfondo di un paesaggio lacustre colto al tramonto. Si tratta proprio della dendroica, simbolo per eccellenza della libertà minacciata e alter ego dei singoli protagonisti e del genere umano in generale.

E così dalla prima all’ultima pagina tutti i personaggi sperimentano varie forme di libertà: la scelta di Patty di non lavorare e dedicarsi esclusivamente ai figli, il suo tradimento con il migliore amico del marito, la sua emancipazione dal lavoro e dalla famiglia di origine, il senso di liberazione offerto ai giovani dalla musica, l’allontanamento di Richard dai Berglund, la possibilità di Joey di decidere il proprio futuro, lo sfogo di Walter, la libertà del popolo iracheno rispetto agli Stati Uniti, l’America come paese della libertà per il padre di Walter, la separazione dei due coniugi, l’abbandono di Richard da parte di Patty…

Già nella prima parte del romanzo a Patty sorge il dubbio che sia stata proprio la sua assoluta libertà a condannarla all’infelicità. E in effetti, benché tutti i personaggi aspirino ad essere liberi, una volta ottenuto ciò che bramavano, provano solo una profonda delusione che alla fine li porta a redimersi e a tornare indietro sui propri passi.
Si fa dunque strada l’idea che la libertà non sia sempre e solo un bene: essere liberi significa anche avere il potere di sbagliare e autodistruggersi.
Dice ad un certo punto Walter: “Tutto gira intorno allo stesso problema, le libertà personali […]. La gente è venuta in questo paese per cercare soldi o libertà. Se non hai soldi, ti aggrappi ancora più rabbiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non puoi permetterti di nutrire i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da un pazzo armato di fucile d’assalto. Sarai anche povero, ma l’unica cosa che nessuno ti potrà mai togliere è la libertà di sputtanarti la vita come ti pare e piace.”

Quello che Franzen vuole dirci, insomma, è che non sempre felicità fa rima con libertà, soprattutto in un’epoca storica in cui quest’ultima parola è stata strumentalizzata per raggiungere gli obiettivi più biechi e in cui la difesa della propria libertà personale è divenuta un’ossessione capace di farci perdere di vista gli altri valori della vita.

giovedì 13 giugno 2013

Remember Us. American Gigolo, Chronicle, Project X - Una festa che spacca

American Gigolo
di Paul Schrader
con Richard Gere, Lauren Hutton, Hector Elizondo
Drammatico, 117 min., USA, 1980
***

Non lo avevo ancora visto e devo dire che dallo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro scatenato mi aspettavo qualcosa di più. Anni '80 a gogò, che vuol dire apertura con musica dei Blondie (onore a Moroder!), vestiti tono su tono, ville sulla spiaggia, droghe, sesso occasionale, i primi abbozzi di quelli che sarebbero diventati fitness e cura cosmetica del corpo ecc. Vale praticamente come documento sugli usi e i costumi del decennio. Ma la storia, che voleva essere esistenzialista (lo afferma lo stesso regista), è un po' deboluccia e come se non bastasse sfocia in un finale quasi imbarazzante (vorrebbe essere un tributo a Pickpocket di Bresson).

Project X - Una festa che spacca
di Nima Nourizadeh
con Thomas Mann, Oliver Cooper, Jonathan Daniel Brown
Commedia, 88 min., USA, 2012
**1/2

Lo dico? Lo dico, perchè fa figo. Mockumentary. Mockumentary che parla di ragazzi sfigati che possono usufruire di una casa vuota e allora decidono di organizzare una festa. Inizialmente nessun coetaneo la prende in considerazione ma poi la voce circola, le aspettative crescono e la festa si ingrossa sempre di più fino a sfuggire al controllo degli organizzatori... e delle forze dell'ordine. Film molto teen dove non mancano droga, tette, nerd e qualche simpatica trovata. Gradevole e, per il genere, ben girato.

Chronicle
di Josh Trank
con Dane DeHaan, Alex Russell, Michael B. Jordan
Fantascienza, 84 min., USA-UK, 2012
**

Altro mockumentary. Che si differenzia dal primo per due ragioni. La prima. Per il genere è girato maluccio, nel senso che non sempre i movimenti di macchina sono realistici (troviamo addirittura dei controcampi!). La seconda. L'opera cerca di proporre qualcosa di apparentemente nuovo ma non ci riesce. L'inizio è promettente: cosa farebbero tre ragazzi che scoprono di avere dei superpoteri? I primi comportamenti e le loro conseguenze sono interessanti. Ma poi tutto comincia a ruotare attorno alla massima "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità" e il film scivola nella retorica appiattendosi al livello di un tradizionale/banale film di supereroi.

domenica 9 giugno 2013

Nuova recensione Cineland. Solo Dio perdona di N.W. Refn

Solo Dio perdona
di N.W. Refn
con Ryan Gosling, K.S. Thomas, V. Pansringarm
Thriller, Drammatico, 90 min., Francia, Danimarca, 2013

Giochi di ombre svelano e nascondono personaggi robotici. Essi incedono con passo mi(s)tico tra ambienti asettici, perfettamente studiati (Ozu). Le luci al neon esaltano la plasticità della mise en scène ed estetizzano la violenza. Troppi sentimenti, nessun sentimento. Duelli western (Colizzi, Leone, Corbucci) rivisitati alla luce della tradizione cinematografica orientale (Kurosawa, Miike).

Predominano rosso (sangue fresco) e nero (sangue rappreso), negli ambienti e sui corpi. Conflitto edipico, vendetta, redenzione, inerzia: esistenzialismo? Una porta che si apre sul buio, una mano che entra nel ventre squarciato della madre e nella vagina della compagna, moncherini, aste di ferro che inchiodano braccia e mani e bucano timpani e tagliano occhi. Esplosioni di violenza. Al ralenti. Poche battute (scontate). Momenti karaoke (assomigliano tanto a quelli di Blue Velvet, ma meglio metterlo tra parentesi). Bambina risparmiata. Dedica finale a Jodorovsky.

Voto: 2 1/2 su 5

(Film visionato il 6 giugno 2013)
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