giovedì 27 febbraio 2014
Se ti sembra brutto è La grande bellezza (di P. Sorrentino)
Il film verrà trasmesso martedì prossimo da Canale 5, alle ore 21.10.
Un'occasione in più per capire se è veramente una "cagata pazzesca".
Noi intanto, nonostante i limiti rilevati, gli auguriamo di portare a casa l'ambita statuetta.
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lunedì 24 febbraio 2014
Nuova recensione Cineland. 12 anni schiavo (12 Years a Slave) di S. McQueen
12 anni schiavo (12 Years a Slave)
di Steve McQueen
con
Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul
Giamatti, Brad Pitt
Drammatico 134 min., USA, 2013
USA, 1841. Solomon Northup ha una moglie, due figli e si
guadagna da vivere suonando il violino. Ha una vita decorosa, una bella casa ed
è istruito. Il suo cognome gli deriva da Minus Northup, suo padre, che a sua
volta lo aveva “ereditato” dal padrone insieme alla libertà. Pur essendo nero,
Solomon è dunque un uomo libero. La vita gli fa incontrare due impostori che
gli promettono facili guadagni e, dopo averlo drogato, lo vendono ai mercanti
di schiavi per le piantagioni degli stati del Sud. Sarà l’inizio di un calvario
lungo 12 anni.
Diretto da Steve McQueen (Hunger,
Shame) e sceneggiato da John Ridley,
il film ricalca fedelmente le memorie di Solomon, già pubblicate nel 1853 e
oggi ristampate in Italia da Newton Compton Editori. Fedelmente perché l’opera
si concentra esclusivamente sulle scene in cui compare il protagonista: non
vediamo cosa gli accade immediatamente dopo essere stato drogato, non vediamo
Samuel Bass (Brad Pitt) scrivere la lettera che gli ridarà la libertà,
tantomeno vediamo la ricezione della lettera da parte dei famigliari e loro
reazioni. Considerando anche l’esiguo numero di scene corali ed il superficiale
approfondimento psicologico dei personaggi, siamo portati a pensare che McQueen
abbia voluto limitare il cono prospettico a quello del solo protagonista, per
aumentare a dismisura l’eccezionalità della sua disavventura. Una sola è quindi
la prospettiva, e il narratore non può e non vuole essere onnisciente, per
concentrarsi al meglio sulla storia di un uomo che diventa paradigma della
perdita della libertà nonché emblema della schiavitù e delle sue implicazioni.
Il Cinema aveva trattato questo tema attraverso scene corali di lavoro nei
campi, sudore, sporcizia e sangue che si sviluppavano nel buio di una
fotografia dov’erano le ombre a prevalere. McQueen opta invece per una narrazione
più “pulita” che fa in modo che il sangue e le lacrime si confondano col colore
della pelle (aperta, tagliata), mentre la natura si mostra in tutta la sua
stupefacente bellezza e fulgore nonostante in essa si perpetrino le brutture e
la ferocia dei padroni (giustificata con le sacre scritture, altro esempio di
aderenza della narrazione alla Storia). È la costruzione perfetta delle
inquadrature che ci fa distogliere per un attimo l’attenzione dalla materia
trattata fin quasi a stemperare il dramma, perché fino ad ora avevamo visto
tale artificio utilizzato solo nei film in costume in cui si parla di aristocrazia
(si vedano le scene a lume di candela, che rimandano a Barry Lyndon).
Da artista visuale qual è, il regista rimane pertanto
fedele al suo stile anche rappresentando una storia di schiavitù, continuando
ad esprimere la propria Poetica mediante la tecnica anziché le parole. Una scelta,
già utilizzata con esiti diversi da Terrence Malick, difficile da far digerire
al grande pubblico e che qui trova la sua acme nei 180 secondi della scena
dell’impiccagione: la parte a fuoco del campo lungo ci fa vedere Solomon
impiccato ad un albero che si tiene in vita grazie alle punte dei piedi che
scivolano sul fango, suoni di deglutimento e nel contesto, sfocato, gli altri
schiavi che lavorano come se nulla fosse. Un’inquadratura, un artificio tecnico
che si fa metafora riuscendo a condensare qualsiasi discorso sulla schiavitù.
Ciò non vuol dire che nel film non si registrino monologhi o dialoghi pregni di
significato: è memorabile il discorso sulle leggi e il futuro della schiavitù di
Bass/Pitt nonché quello della schiava libera sul destino dei proprietari
terrieri schiavisti, presagio della guerra di secessione del 1861.
C’è chi ha
visto in questa opera una battuta d’arresto nella carriera del regista, chi lo
ha candidato a 9 premi Oscar. Fuori da qualsiasi considerazione sul valore
artistico del film, comunque indiscutibile, rimane fondamentale riconoscere a
McQueen di aver portato sul grande schermo l’enorme insegnamento della storia
di Solomon, che grazie alla sua cultura è riuscito a sopravvivere giorno dopo
giorno, per dodici interminabili anni, non senza cedimenti (incredibile la
scena del coro gospel Roll Jordan Roll),
solo per poter riassaporare ancora una volta il valore della parola Libertà.
Voto: 4 ½ su 5
(Film visionato il 22 febbraio 2014)
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giovedì 20 febbraio 2014
Remember Us. Accordi e disaccordi, Luna di fiele, The Addiction
Accordi e disaccordi (Sweet
and Lowdown)
di Woody Allen
con Sean Penn, Samantha Morton, Uma Thurman
Commedia, 95 min., USA, 1999
*** ½
Allen ricostruisce la vita di Emmet Ray,
chitarrista jazz degli anni ’30 “secondo solo a Django Reinhardt”, grazie alla
grandissima interpretazione di un Penn in stato di grazia. Il personaggio è sopra le righe (geniale, donnaiolo, lagnoso, scialacquatore) ma la saggia
strutturazione del film ed il suo andamento delicato riescono ad elevarlo a modello paradigmatico per una saggia riflessione sui temi della realizzazione personale e dell’amore.
Luna di fiele (Bitter Moon)
di Roman
Polanski
con Hugh Grant, Emmanuelle Seigner, Peter Coyote,
Kristin Scott Thomas
Drammatico, 138 min., Francia, G.B., USA 1992
***
Una
giovane coppia inglese, Nigel e Fiona, incontra una coppia francese durante un
viaggio in crociera: Oscar, costretto su una sedia a rotelle, e la moglie Mimì.
La bellezza di quest’ultima colpisce Nigel a tal punto da farlo avvicinare anche al marito Oscar, che decide di raccontare la storia di amore folle
e malato che lo lega a Mimì. Sono due le cose che ci tengono incollati allo
schermo: il livello di “violenza” della storia erotica tra Oscar e Mimì e la
bellezza di Emmanuelle Seigner. Per il resto la regia di Polanski è abbastanza sobria, il finale fin troppo ermetico e, a dirla tutta, della
coppia inglese (interpretata da un Grant e una Scott Thomas insipidi) ne avremmo fatto volentieri a meno.
The Addiction
di Abel Ferrara
con Lili Taylor, Annabella
Sciorra, Christopher Walken, Paul Calderon
Drammatico, 82 min., USA, 1995
***
L’incredibile coppia Ferrara-St. John mette in scena un "horror" metropolitano in
bianco e nero che tratta della dipendenza dal male e dalla dannazione. Lo fa
mescolando la tradizione letteraria a quella filosofica. Ne esce una
studentessa universitaria vampira che dipende dal sangue (la droga, il male) e
che, tramite la materia che studia (la filosofia), si interroga sulle origini
della dannazione e della grazia. Quest’opera non riafferma solo il genio
narrativo di Nicholas St. John ma anche quello visionario di Ferrara che, anche
all’interno del film, mescola generi e arti (la musica, il cinema, il
documentario) creando qualcosa che ora, a vent’anni di distanza, nessuno
avrebbe il coraggio di finanziare.
domenica 16 febbraio 2014
Nuova recensione Cineland. Robocop di J.Padilha
Robocop
di José Padilha
con Joel Kinnaman, Gary Oldman, Michael
Keaton, Samuel L. Jackson, Abbie Cornish
Azione, 121 min., USA, 2014
Nel 2028 la
multinazionale OmniCorp, leader nel settore della tecnologia robotica, ha
prodotto e fornito agli USA androidi di pattuglia che garantiscono di vincere e
mantenere l’ordine nei teatri di guerra. Raymond Sellars (Michael Keaton),
leader dell’azienda, fiuta però un’ulteriore possibilità di profitto e cerca,
spinto dal consenso mediatico di cui godono le sue macchine, di estendere il
mercato anche all’uso interno. L’unico ostacolo alla diffusione dei robot sul
suolo nordamericano è rappresentato dall’emendamento sostenuto dal senatore
Hubert Dreyfuss, che non è disposto ad affidare l’ordine a macchine prive di
coscienza. È a questo punto che in Sellars comincia a farsi spazio un’idea per
aggirare il problema: mettere un uomo all’interno della macchina.
Era il 1987
quando Paul Verhoeven, alla sua prima prova hollywoodiana, portava sullo
schermo le gesta di un agente di Detroit che, ucciso da alcuni malviventi,
veniva trasformato in un cyborg al servizio della polizia. La sua memoria
prendeva tuttavia il sopravvento sul corpo robotico e lo portava a vendicarsi
senza pietà. Sono passati quasi trent’anni e José Padilha, anch’egli alla sua
prima prova hollywoodiana dopo il successo dei due adrenalinici capitoli di Tropa de Elite, ha il difficile compito
di attualizzare un film già entrato nella storia.
Facilitato a livello tecnico da un budget da 100 milioni di dollari che gli permette di sfruttare effetti speciali spintissimi e armamenti avveniristici, è a livello tematico/contenutistico che il regista e i suoi sceneggiatori (Nick Schenk, James Vanderbilt, Joshua Zetumer) hanno deciso di giocarsi il tutto per tutto, finendo però con il (sovra)caricare la storia di elementi contestuali. Qualcuno di questi rende la narrazione indubbiamente interessante, mentre qualcun altro appesantisce il tutto rendendo ampolloso qualche passaggio di troppo. è il caso degli interrogativi che assalgono l’uomo nella macchina (Joel Kinnaman) e che ci fanno conoscere un Robocop “esistenzialista” al centro di un cortocircuito tra coscienza/parte umana (positiva) e irrazionalità/corpo robotico (negativo) che si risolve in una vendetta non solo nei confronti di chi ha attentato alla sua vita, ma soprattutto verso chi lo ha sfruttato (la OmniCorp ) per una mera
operazione pubblicitaria.
Facilitato a livello tecnico da un budget da 100 milioni di dollari che gli permette di sfruttare effetti speciali spintissimi e armamenti avveniristici, è a livello tematico/contenutistico che il regista e i suoi sceneggiatori (Nick Schenk, James Vanderbilt, Joshua Zetumer) hanno deciso di giocarsi il tutto per tutto, finendo però con il (sovra)caricare la storia di elementi contestuali. Qualcuno di questi rende la narrazione indubbiamente interessante, mentre qualcun altro appesantisce il tutto rendendo ampolloso qualche passaggio di troppo. è il caso degli interrogativi che assalgono l’uomo nella macchina (Joel Kinnaman) e che ci fanno conoscere un Robocop “esistenzialista” al centro di un cortocircuito tra coscienza/parte umana (positiva) e irrazionalità/corpo robotico (negativo) che si risolve in una vendetta non solo nei confronti di chi ha attentato alla sua vita, ma soprattutto verso chi lo ha sfruttato (
Ed
è proprio sull’operazione commerciale della multinazionale che vengono
innestate le considerazioni più interessanti promosse dal film: Robocop viene
utilizzato come un giocattolone che deve mettere d’accordo lo schieramento
politico (presumibilmente democratico) contrario all’utilizzo dei robot ai fini
della sicurezza interna e il mondo industriale globalizzato e un po’
repubblicano che invece vuole lucrare sulla paura. La partita si gioca a
livello mediatico: l’ossessione statunitense per le minacce esterne (“Mai più
un altro Vietnam, mai più un altro Iraq o Afghanistan” dichiara un generale
riguardo i benefici dell’utilizzo dei robot) ed interne (dov’è in tutto il film
la polizia di Detroit?) spinge una parte degli organi d’informazione (guidati
dalla trasmissione d’approfondimento “The Novak Element” di Pat Novak,
interpretato da Samuel L. Jackson) a schierarsi dalla parte della OmniCorp,
intenta a diffondere la cultura del terrore tramite mirate strategie di
marketing e comunicazione.
La vicenda esistenziale di Alex Murphy, esile in
quanto circoscritta ai soli rapporti che lo legano alla famiglia e agli
assassini, finisce così con l’amalgamarsi a fatica con macrotemi gravidi di
implicazioni. Tematiche troppo grandi anche per un automa sì invincibile ma ridimensionato
dal suo status di prodotto “Made in China”. Del resto anche la multinazionale
OmniCorp ha dovuto delocalizzare per sfruttare manodopera e componenti
elettronici a basso costo.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 12 febbraio 2014)
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lunedì 10 febbraio 2014
Nuova recensione Cineland. A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis) di Joel ed Ethan Coen
A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis)
di Joel ed Ethan Coen
con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin
Timberlake, John Goodman
Drammatico, 105 min., USA, 2013
Inverno 1961. Llewyn
Davis è un cantante folk (ispirato in parte alla figura di Dave Van Ronk) che
si sveglia tutte le mattine su un divano diverso e cerca cocciutamente di guadagnarsi
da vivere con la sua musica suonando senza particolare successo in un locale
fumoso del Greenwich Village. Effettivamente di lì a poco sarebbe esploso il
ciclone Bob Dylan. Ma se Dylan otterrà il successo, Davis si dovrà accontentare
di inseguire un gatto rosso che per colpa sua è fuggito dalla casa dell’ultimo
ad avergli dato ospitalità. Stringendo il gatto rosso in una mano e la chitarra
nell’altra, Llewyn farà i conti con la propria vita (le sue precedenti
relazioni gli riservano inaspettate sorprese) e la propria arte (la continua
mancanza di soldi e le porte chiuse in faccia) rimanendo solo, sul palco come
nella vita.
Attraverso la parabola di Llewyn, i fratelli Coen sviluppano
ulteriormente le tematiche trattate in A
Serious Man, ovvero la figura dell’ebreo errante in relazione ai temi della
scelta e della solitudine. Proprio per enfatizzare quest’ultimo aspetto, gli
autori ricorrono a due artifici. Uno tecnico, l’altro narrativo. Nel primo caso
dobbiamo menzionare la fotografia di Bruno Delbonnel (recentemente apprezzato
nel Faust di Sokurov), che almeno
nelle scene più significative opta per la rarefazione del contesto a favore di
una migliore messa a fuoco della figura del protagonista. Una scelta tecnica
che si accompagna alla costruzione circolare della narrazione, che vede il film
aprirsi e chiudersi sulla stessa scena isolando così al suo interno un momento
emblematico della vita di Llewyn e conferendo ad esso un’atemporalità straniante
che ci rimanda ad opere come Il castello
di Kafka.
E proprio come un personaggio kafkiano il protagonista si ritrova a
girare, almeno per una fase della sua vita, quasi “a vuoto”, scontando
sistematicamente la colpa di optare sempre per la strada più semplice, per l’unica
opzione che gli può dare un riscontro immediato. Forse l’incapacità di valutare
le conseguenze delle sue azioni è dovuta allo spaesamento che gli deriva dalla
morte del partner musicale. O forse è la convinzione di essere un grande
musicista che gli impedisce di scendere a compromessi, precludendosi la
possibilità di partecipare a lavori meno artistici ma sicuramente più
redditizi.
Con quest’opera i Coen ribadiscono che è inutile cercare risposte: l’imperscrutabilità
di ciò che ci riserva il futuro è totale e provoca vertigine, perché non c’è
scelta giusta o sbagliata nel presente se non quella presa con la convinzione
che possa avere le conseguenze a noi più favorevoli.
Voto: 4 su 5
(Film
visionato l’8 febbraio 2014)
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