mercoledì 21 agosto 2013

Nuova recensione Cineland. Effetti collaterali di S. Soderbergh

Effetti collaterali 
di Steven Soderbergh 
con Jude Law, Rooney Mara, Catherine Zeta-Jones, Channing Tatum 
Thriller, 106 min., USA, 2013 

Il Dottor Banks (un ottimo Jude Law), psichiatra di successo, durante un turno in ospedale visita una paziente che ha tentato il suicidio schiantandosi con l’auto contro il muro del parcheggio di casa. Colpito dal gesto inconsueto e dalla giovane età della ragazza la invita a presentarsi nel suo studio, per individuare e contrastare le cause di un male oscuro che sembra non avere ragion d’essere. Emily (Rooney Mara), questo il nome della ragazza, è una giovane sposa che ha appena riabbracciato il marito, uscito di prigione dopo una reclusione per insider trading. Il Dottor Banks crede ciecamente negli antidepressivi, pertanto prescrive alla sua paziente medicine sempre più mirate. Emily si sente meglio, ritrova l’intesa con il marito e con la vita, ma uno di questi medicinali sembra provocare in lei qualche effetto collaterale di troppo. Come quello di uccidere il marito e di non ricordarsi più nulla. Subito il Dottor Banks viene messo sotto processo da corte e colleghi, fino a quando l’interessato penserà di essere stato incastrato e comincerà ad indagare. 

Soderbergh si riconferma un ottimo regista che riesce a mettere in scena trame profondamente radicate nella contemporaneità senza per questo tradire le movenze e le regole dei generi cinematografici tradizionali, in questo caso il thriller psicologico (alla Hitchcock, per intenderci). Qui la contemporaneità è rappresentata dal contesto in cui si sviluppa l’azione, ovvero gli USA che accusano il colpo della crisi economica (la moglie di Banks che non riesce a trovare lavoro, il marito di Emily incarcerato per truffa finanziaria) e il conseguente abuso di psicofarmaci nella popolazione. Su questo palcoscenico si consuma il fatto di sangue, determinato dalle storture di questa società incontrollabile perché perennemente “drogata”. Chi è il vero colpevole? La paziente o la medicina? Lineare nel suo sviluppo, non privo di colpi di scena, il film ci fornisce tutte le risposte arrivando ad una conclusione che non ci spiazza ma ci soddisfa (anche se un po’ ci ricorda Schegge di paura). 

Voto: 3 su 5 

(Film visionato il 9 agosto 2013)

domenica 18 agosto 2013

Nuova recensione Cineland. Pacific Rim di G. del Toro

Pacific Rim 
di Guillermo del Toro 
con Charlie Hunnam, Idris Elba, Rinko Kikuchi 
Fantascienza, 113 min., USA, 2013 

Mostri alieni aprono un varco interdimensionale sul fondo dell’oceano Pacifico e da lì emergono per conquistare la Terra. La guerra è senza esclusione di colpi, milioni i morti. Di fronte all’emergenza, gli Stati del pianeta si coalizzano per contrastare la minaccia una volta per tutte. Per questo viene varato il progetto Pacific Rim che prevede la costruzione di enormi robottoni, gli Jaeger, controllati simultaneamente da due piloti le cui menti sono collegate da una rete neurale. 

Va dato atto a Travis Beacham, sceneggiatore, di aver saputo attualizzare sapientemente la tradizione dei film di Kaiju (Godzilla, per intenderci) per farne qualcosa che potesse permettere agli effetti speciali di mostrare tutte le loro potenzialità. Ed effettivamente questi impreziosiscono notevolmente la narrazione, per una miscela d’azione e avventura che supera di gran lunga quella dei capitoli di Transformers. Peccato che l’entusiasmo per le idee di Beacham si sia declinato esclusivamente in una buona narrazione dei combattimenti tra Jaeger e Kaiju, lasciando spazi narrativi colmati con troppa superficialità: dialoghi abbozzati, storia d’amore stiracchiata, momenti comici fuori luogo, carrettate di stereotipi (su tutti i russi, coi capelli ossigenati come l’Ivan Drago di Rocky). 

Il film procede così proprio come un robottone, bello a vedersi ma privo d’anima

Voto: 2 ½ su 5 

(Film visionato il 31 luglio 2013)

venerdì 16 agosto 2013

Trilogia di New York di Paul Auster. Recensione



Tre storie misteriose, tre casi da risolvere animano i racconti di Paul Auster che costituiscono la Trilogia di New York, ambientata in una metropoli allucinata e surreale, in cui i contorni delle cose si sfumano sino a confondersi completamente. In questa città caotica e disordinata non c’è più spazio per l’individualità: tutto è omologato e uguale a se stesso, rispondente a leggi esterne che sfuggono alla comprensione umana e si ripetono all’infinito.  
È quanto accade ai protagonisti di Auster, tre giovani uomini privi di identità che, per lavoro o per caso, diventano detective, trovandosi invischiati in situazioni complesse ed oscure, finendo per diventare loro stessi oggetto della loro estenuante ricerca.

Il primo è Daniel Quinn, protagonista di Città di Vetro, primo racconto della serie, uno scrittore di gialli che viene svegliato nel cuore della notte da una telefonata inaspettata. All’altro capo del filo una voce femminile, che chiede insistentemente di parlare con un certo Paul Auster, sconosciuto investigatore privato (e qui la fiction comincia ad intrecciarsi con il piano del reale). La scena si ripete per varie notti, fino a quando Quinn, ormai rapito dalla curiosità, dichiara di essere lui stesso Paul Auster. Sotto queste mentite spoglie si reca all’appuntamento con la donna, venendo pian piano travolto da una fitta trama di rapporti famigliari, paure ossessive, crimini e follie.

Il protagonista della seconda storia, intitolata Fantasmi, è invece un detective di professione chiamato Blue, assoldato dal suo capo White per pedinare giorno e notte un uomo di nome Black, il quale passa le giornate chiuso nella sua camera a leggere e scrivere su un taccuino rosso. I due uomini trascorrono mesi e mesi svolgendo sempre le stesse occupazioni, fino a quando a Blue nasce il sospetto di essere lui il vero sorvegliato.

Nel terzo e ultimo elemento della trilogia, Una stanza chiusa, il protagonista viene contattato dalla moglie di un suo vecchio amico, Fanshawe, scomparso misteriosamente, affinchè decida cosa fare della monumentale opera letteraria che lui ha lasciato inedita. Leggendo gli scritti, il protagonista si immedesima a tal punto nella vita dell’amico, da sposarne la vedova e prenderne a tutti gli effetti il posto, fino a quando riceve da Fanshawe un’inaspettata lettera che lo spinge ad intraprendere una ricerca tanto ossessiva quanto irrazionale.

Pubblicati tra il 1985 e il 1987 e raccolti da Einaudi in un solo volume, i tre racconti narrano le vicende di altrettanti uomini che si muovono come fantocci comandati da oscuri burattinai, che ne dominano la volontà e li spingono alla deriva delle loro esistenze, verso una totale autodistruzione.
Nella New York di Auster, vero e proprio non luogo, non c’è spazio per l’individualità: le particolarità umane si uniformano e si appiattiscono su un piano di impersonalità e conformismo, dove tutto è confuso e uguale a se stesso.
In balia dei propri fantasmi, ognuno dei protagonisti finirà per perdersi nei meandri delle proprie visionarie ossessioni, diventando vittima di un capovolgimento di ruoli, in un labirintico gioco di rimandi e autocitazioni capace di svelare, alla fine, che i tre racconti sono in realtà un unico romanzo, tre diversi stadi di autocoscienza del narratore.

Paul Auster è abile nel creare intrecci complessi, fuorviando continuamente il lettore e negandogli ogni soddisfazione letteraria: il linguaggio è sempre volutamente asciutto e stereotipato, privo di metafore e figure retoriche, ricondotto unicamente a ciò che accade.
La necessità di attenersi ai fatti, prima regola del detective tradizionale, qui viene esasperata diventando un esercizio di stile fine a se stesso, in cui le parole coincidono con i fatti e vengono perciò spogliate di ogni velleità letteraria.
Del resto neppure la mera trasposizione dei fatti può ritenersi esaustiva e veritiera: gli antieroi di Auster non sono personaggi autorevoli, ma sono piuttosto preda di allucinazioni, alcolismo, manie persecutorie e depressive. Lo stesso scrittore all’inizio del primo racconto ammicca al pubblico inserendo nella storia il suo vero nome, rimarcando in tal modo la convenzione della finzione letteraria e invitandoci a non credere mai totalmente a quello che leggiamo.

Sarebbe quindi un grossolano errore etichettare i racconti di Auster come detective stories o, perlomeno, essi non lo sono nel senso tradizionale della definizione.
A differenza del giallo classico, infatti, qui manca del tutto l’oggettività della narrazione e, anche per questo, non riusciamo ad identificarci nelle vicende che abbiamo davanti, ma ne siamo continuamente distolti da lunghe parentesi introspettive e digressioni deliranti.

Questo escamotage è piuttosto efficace per restituirci l’immagine di una realtà spezzettata e frammentaria, in cui la ricerca della verità non approda mai a nulla e il lavoro dell’investigatore è destinato a fallire.
Tuttavia, sebbene sia un procedimento giustificato, l’inserimento nel testo di lunghe pause narrative finisce per appesantire notevolmente il racconto, spezzando il ritmo della narrazione e rendendo la lettura lenta, a tratti faticosa.
Si pensi al primo elemento della serie, Città di Vetro, il cui inizio è brillante ed entusiasmante, degno della migliore Agatha Christie, capace di catturare completamente l’attenzione del lettore e di trasportarlo direttamente nella storia.
Dopo le prime pagine però, il nostro interesse scema mentre, assieme al protagonista Quinn, cominciamo a scoprire la trama che costituisce il motore della vicenda: uno strambo giovane di nome Peter Stillmann, pallido e vestito completamente di bianco, dai capelli biondo candidi quasi albini, i movimenti meccanici da automa, il linguaggio disarticolato e artificioso, teme per la sua incolumità a causa della recente scarcerazione del padre, un anziano scienziato che, poco dopo la sua nascita, aveva tenuto il figlio segregato per anni in uno sgabuzzino con l’intenzione di scoprire quale fosse la lingua primigenia.

I temi eccentrici sono spesso il pretesto per lunghi approfondimenti didascalici di storia, religione, astronomia, musica. Si va dal resoconto di tutti gli studiosi e filosofi che nel passato hanno tentato esperimenti per scoprire quale fosse la lingua prima e originaria, alle credenze superstiziose che animavano i primi esploratori del Nuovo Mondo, dall’esame della Caduta terrestre e del racconto babelico, all’analisi del Don Chisciotte di Cervantes in chiave metafisica.

Comunque in nessuno dei racconti approdiamo ad una risoluzione del caso: tutto rimane incerto e inspiegabile perché, in un mondo determinato dal caso, non può esserci alcuna soluzione logica e anche le apparenti “prove” dell’investigation tradizionale ormai non rimandano più a nulla al di fuori di loro stesse.

Quello che rimane insomma è una contorsionistica riflessione sul rapporto tra scrittore-lettore e sulle possibilità del romanzo, infinite come i piani della realtà e le interpretazioni che se ne possono dare.

venerdì 2 agosto 2013

Nuova recensione Cineland. Vogliamo vivere! di E. Lubitsch

Vogliamo vivere! - To Be or Not to Be 
di Ernst Lubitsch 
con Carole Lombard, Jack Benny, Robert Stack, Felix Bressart 
Commedia, 99 min., USA, 1942 

Nell'ufficio di Billy Wilder campeggiava la scritta "How would Lubitsch have done it?". Ecco, se non sapete chi sono Wilder e Lubitsch, o se non avete mai visto almeno un loro film, allora c'è un problema. Un grossissimo problema. Perché il primo era bravissimo e si ispirava al secondo, che era un genio. Vogliamo vivere! - To Be or Not to Be ne è la prova. 

La pellicola è talmente coinvolgente che sembra di entrare in un'altra dimensione, dove diventiamo quasi parte integrante della compagnia di attori polacchi capeggiata da Maria e Josef Tura (gli straordinari Benny e Lombard) che si rende protagonista delle più spassose peripezie che si siano mai viste al cinema. Qui, è bene puntualizzare, non si parla di battute che strappano becere risate, ma di vere e proprie situazioni comiche perfettamente studiate e calibrate che si risolvono in uno spasso crescente. Un divertimento puro che il cinema contemporaneo non è più capace di creare. Se poi si pensa che l'azione si svolge durante l'occupazione nazista della Polonia (l'opera è del 1942!) e che gli attori cercano di salvare le proprie vite "recitando", allora si intuisce che il film è doppiamente grande, perché riesce a parlare in modo tangenziale (e dunque ancora più efficace) del valore salvifico dell'arte. 

Da mirare e rimirare

Voto: 5 su 5 

(Film visionato il 30 luglio 2013) 
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