domenica 29 luglio 2012

Nuova recensione Cineland. Il primo uomo di G. Amelio

Il primo uomo
di Gianni Amelio
con Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès
Biografico, 100 min., Italia, Francia, Algeria, 2011

E pensare che Il primo uomo è nato come una sorta di “ripiego”. Gianni Amelio doveva girare un film sull’immigrazione paterna in Argentina ma sembra che produttori e committenti lo abbiano piantato in asso. La conseguente necessaria virata lo ha fatto approdare alla trasposizione dell’ultimo incompiuto romanzo omonimo di Albert Camus.

Ne è uscita un’opera asciutta, misurata, delicata, profonda. Una sorta di romanzo di formazione in immagini che poggia sull’educazione alla vita e ai sentimenti di Jacques Cormery (Jacques Gamblin), il protagonista. Questi è uno scrittore algerino di successo che dalla Francia torna al suo paese d’origine ufficialmente per una conferenza all’università ma, in fondo, per ricongiungersi con i suoi cari. Come una madeleine proustiana, è il letto sul quale Jacques si mette a dormire che fa scattare il meccanismo del ricordo che ci porterà a conoscere l’Algeria colonizzata d’inizio XX secolo ed il bambino che era.

Grazie all’ottima prova degli attori (su tutti Gamblin, ma anche il Jacques bambino Nino Jouglet) e alla sobrietà del racconto, veniamo assorbiti da quella che è un’ottima riflessione sull’identità (chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo) senza mai dimenticare che essa è profondamente legata al nostro luogo d’origine. Un gradino sopra Terraferma (Emanuele Crialese, 2011), molti rispetto a Baarìa (Giuseppe Tornatore, 2009), Amelio ha creato una piccola e perfetta perla che nobilita il cinema italiano del 2012.

Voto: 4 su 5

(Film visionato il 20 luglio 2012) 

martedì 24 luglio 2012

Tfa: cominciamo a tirare le somme



Avevamo già denunciato i paradossi e i limiti insiti nel meccanismo stesso del Tfa, il Tirocinio Formativo Attivo che da quest'anno gli aspiranti docenti sono chiamati ad effettuare per poter (sperare di) insegnare nella scuola pubblica.
Ora che le prime prove delle varie classi di concorso sono state in parte sostenute, accanto alle ambiguità del sistema emergono vere e proprie irregolarità, in un crescendo di delusione e amarezza che, oltre a mortificare quel briciolo di fiducia che ancora - forse - nutriamo verso la scuola italiana, mette in dubbio anche l'onestà morale e intellettuale di coloro che hanno messo a punto i test di accesso.
Questi hanno avuto inizio il 6 luglio con le prove delle classi A038 (Fisica) e A058 (Scienze e meccanica agraria).
Il 9 è stata la volta della A036: Filosofia, psicologia, e scienze dell’educazione. Anche qui sessanta domande, e l'obbligo matematico di raggiungere la soglia dei 21/30, pena l'esclusione.
Degli oltre quattromila iscritti (precisamente 4135) per un totale di 588 posti disponibili, solo 141 sono riusciti a superare il quiz a risposta multipla, passando di diritto alla prova successiva.
In atenei illustri come Milano, Cagliari, Sassari, Urbino e Trento non c'è stato nessun promosso.
Mancanza di preparazione e ignoranza diffusa le cause di questa disfatta?
Non secondo i candidati, infuriati per la tipologia delle domande, troppo nozionistiche, e il loro contenuto, sibillino e volutamente ingannevole, tale da determinare una enorme scrematura già nella prima fase dell'accesso al tirocinio.

Scrive un partecipante al quiz del 9 luglio: «perché in una prova che si prefigge di valutare ‘i contenuti disciplinari’ delle materie rientranti nelle classi di concorso, ben 26 domande su 50 (escludo per ovvie ragioni quelle di analisi del testo) vertono sui ‘contenitori’ (i titoli delle opere)? A rigore una prova del genere sarebbe potuta essere preparata da un elaboratore elettronico e non da un cultore della materia!! 16 domande, ancora, prevedono il riconoscimento e l’abbinamento ad una corrente o scuola di pensiero di un autore. Le ultime 8 accennano a questioni, molto superficiali, di contenuto».
Un quesito, ad esempio, chiedeva chi fosse Amafinio, filosofo minore che, sulla Bibbia degli studi filosofici delle Università italiane, ovvero la Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano, 4000 pagine di autori e opere, non viene mai citato.

Analoga impostazione ha permeato il test della classe A051, relativa alle materie letterarie e latino nei licei.
Qui le domande non solo richiedevano per la quasi totalità una cultura prettamente mnemonica basata sulla meccanica associazione opere-autori, ma erano anche, in alcuni casi, clamorosamente errate o comunque vergognosamente imprecise.
In particolare il quesito n. 5 chiedeva che cosa si intende, in un testo letterario, per variante, proponendo come opzione esatta la prima, e cioè "Ogni soluzione espressiva, attestata dai codici, discordante dal testo definitivo licenziato dall'autore".
Luciano Canfora, uno dei massimi esperti di filologia italiana e romanza, sulle pagine del Corriere afferma che «chi ha elaborato questa risposta, cosiddetta esatta, è un selvaggio. Trattandosi di "testi letterari" delle più diverse epoche - nei quesiti precedenti e successivi si parla di Manzoni, Vittorini, Foscolo, Meneghello, Berto, etc. - è evidente che già l'espressione "attestata dai codici" fa sorridere. E questo è il meno. Se il riferimento era all'antichità, non si vede perché escludere i papiri, nonché i casi di tradizione epigrafica. E soprattutto non si capisce perché "varianti" non siano anche le varianti d'autore, su cui esiste una letteratura immensa e assai pregevole. Come ognun vede, dunque, dire che le varianti sono soltanto le divergenze rispetto al testo "licenziato dall'autore" è una gratuita bestialità. Chi ha elaborato il quesito n. 5 non sa di cosa parla».

Lo stesso si dica per la domanda n. 15, che sbaglia il titolo di un racconto di Dino Buzzati (Qualcosa era successo al posto del corretto Qualcosa era accaduto), rendendo quindi assai difficoltoso il riconoscimento del suo autore in una rosa di opzioni tra cui, oltre allo stesso Buzzati, Pirandello, Brancati, Malerba
Tutto questo porta Canfora a domandarsi se «l'operatore ministeriale che ha partorito questa sciocchezza non abbia voluto introdurre una variante d'autore, cercando di sanare in parte la deficienza del quesito n.5», concludendo che «è immorale che il destino di persone che hanno studiato per affrontare una prova da cui dipenderà la loro esistenza sia nelle mani di onnipotenti analfabeti».

Certo che se gli errori si limitassero a queste poche "sviste" forse la situazione non sarebbe così grave e si potrebbe pensare ad un eccesso di severità da parte dell'insigne studioso.
Purtroppo non è così, perchè scorrettezze, imprecisioni, ambiguità, si ritrovano pressapoco in tutti i test svolti finora.

La percezione diffusa tra tutti, tanto tra i candidati quanto tra i semplici "osservatori" esterni è dunque quella di un meccanismo corrotto già in partenza, un esperimento partito male, volto non alla costruzione di un corpo docente preparato, responsabile e capace di infondere alla scuola quella rinnovata linfa vitale di cui ha bisogno, ma di una semplice e squallida operazione di facciata, finalizzata a salvare le apparenze e, perchè no, intanto che ci siamo anche a racimolare qualche migliaio di euro alle spalle di quelli che si sono fatti un mazzo così fino a ieri e che ora aspirano solo ad un onesto e dignitoso posto in questa benedetta scuola pubblica.


venerdì 20 luglio 2012

Nuova recensione Cineland. Paradiso amaro (The Descendants) di A. Payne

Paradiso amaro (The Descendants)
di Alexander Payne
con George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Nick Crause 
Drammatico, 115 min., USA, 2011

Sono due le cose che colpiscono di questo film. Da una parte le atmosfere create e quindi la regia, dall’altra la sceneggiatura. In quest’ultimo caso è rilevante constatare che benché gli sceneggiatori abbiano utilizzato un linguaggio semplice e talvolta sopra le righe (soprattutto nei comportamenti degli adolescenti del film) la storia è interessante e per niente banale: una famiglia per varie ragioni disastrata ritrova sé stessa grazie ad una tragedia, in questo caso una madre morente e fedifraga che spinge tutti i personaggi a fare i conti in primis con loro stessi e successivamente con i loro consanguinei.

Come in Little Miss Sunshine (Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006) e I ragazzi stanno bene (The Kids Are Allright, 2010), la sobrietà della regia e la recitazione degli attori danno vita ad un quadro multiforme: tragico e simpatico allo stesso tempo, ma senza mai cadere nel grottesco, il film scorre senza mai un momento di difficoltà verso un finale ampiamente prevedibile, ma non per questo vuoto di significato. Sono poi le atmosfere dei luoghi in cui si muovono i personaggi  e il conseguente gioco di contrasti che si viene a creare tra le emozioni dei personaggi e i cambiamenti climatici e i colori delle Hawaii il vero valore aggiunto dell’opera, a rimarcare l’essenza di una vita che è gioia e dolore, amore e morte, una corsa disperata in mocassini su una strada bagnata.  

Voto: 3 su 5

(Film visionato il 17 luglio 2012)

mercoledì 18 luglio 2012

Dal romanzo alla realtà: i Traumatics

Chi ha letto l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen Libertà (a breve la recensione su questo blog) sa già che i Traumatics sono la band rock dell’affascinante e carismatico Richard Katz, che nel libro costituisce il terzo vertice del triangolo formato, insieme a lui, anche da Walter e Patty (triangolo che diventerà poi un quadrato).
Ancora prima di comparire fisicamente sulla scena, Richard viene descritto per la prima volta da Eliza, l’amica del college di Patty, con parole enfatiche ed estasiate che riescono bene ad evocarne la forte carica sessuale, tratto distintivo che non lo abbandonerà mai nel corso del racconto: «Sai, è così grande che mi sembra di venire ribaltata da una stella di neutroni. Di venire cancellata da una gigantesca gomma da cancellare».
A poche righe di distanza segue la descrizione di Patty: «Richard somigliava tantissimo (cosa che nel corso degli anni fu notata e fatta oggetto di commenti da molte altre persone, oltre a Patty) al dittatore libico Muammar Gheddafi. Aveva gli stessi capelli neri, le stesse guance abbronzate e butterate, la stessa maschera sorridente e compiaciuta da uomo-forte-che-passa-in-rassegna-le-truppe-e-i-lanciarazzi, e dimostrava circa quindici anni più dell’amico».

Oltre alla presenza fisica, l’altro elemento che rende Richard molto popolare e desiderato dalle ragazze è il fatto di essere leader e fondatore dei Traumatics, un gruppo che conosce alterne fortune: «Lui e Herrera impiegarono tre anni a ricostituire i Traumatics, con la bionda, bella e problematica Molly Tremain come seconda voce, e a pubblicare il loro primo lp, Greetings from the Bottom of the Mine Shaft, con una casa discografica microscopica. Quando suonarono all’Entry di Minneapolis, Walter andò a vederli, ma alle dieci e mezza era già tornato a casa da Patty e dalla piccola Jessica, portandosi dietro sei copie del disco [...]. Il secondo disco della band, In Case You Hadn’t Noticed, venne notato tanto quanto il primo, ma il terzo, Reactionary Splendor, uscí per una casa discografica meno microscopica e venne citato in parecchie classifiche dei Migliori Dieci di fine anno».

Nel romanzo il nome di Katz comincia allora ad essere associato a quello di musicisti realmente esistenti, tra cui i Buzzcocks, di cui i Traumatics aprono un concerto, Michael Stipe, i Wilco e i Bright Eyes di Conor Oberst, alla cui esibizione Richard è letteralmente trascinato da un euforico Walter: «Oberst, con indosso uno smoking blu polvere, salì sul palco senza gli altri, si mise un’acustica a tracolla e mormorò due lunghe canzoni senza l’accompagnamento della band. Non era un pacco, era un autentico ragazzo prodigio, e quindi per Katz ancora più indigeribile. Il numero da Artista Profondo e Tormentato, l’autoindulgenza con cui spingeva le canzoni oltre i naturali limiti di sopportazione, gli ingegnosi crimini contro le convenzioni del pop: recitava la sincerità, e quando la recita minacciava di svelare la sincerità come falsa, recitava la sua sincera angoscia per la difficoltà di essere sincero. Poi venne fuori il resto del gruppo, comprese le giovani coriste, tre splendide Grazie in abito da vamp, e nel complesso fu un ottimo concerto: Katz non si abbassò a negarlo».

Se Franzen ricorre qui ad un meccanismo collaudato facendo convivere nel suo romanzo personaggi reali accanto ad altri assolutamente inventati, una ben più insolita fusione tra realtà e immaginazione si realizza quando sono i personaggi di carta a sfuggire dal controllo dell’autore e a diventare vivi, uscendo dalle pagine del romanzo e cominciando a condurre la propria esistenza nel mondo reale.

È quanto accaduto ai Traumatics i quali, appunto, ora esistono davvero, con tanto di pagina Facebook e Twitter, video su Youtube e due album all’attivo che riproducono fedelmente titoli, canzoni e testi presenti nel romanzo. Il titolo del primo album è infatti Insanely Happy, disponibile su iTunes da maggio dell’anno scorso e seguito, meno di un anno dopo, da Reactionary Splendor e dal recente Greetings from the Mine Shaft.
Il gruppo potrebbe avere tratto ispirazione da una “playlist di canzoni che Richard Katz potrebbe non odiare” compilata da Franzen durante una puntata dell’Oprah Winfrey Show.

Quello che stupisce, tuttavia, non è tanto o solo l’influenza esercitata dalla letteratura sulla realtà, un fenomeno di cui si potrebbero citare molti esempi, quanto piuttosto il livello di fusione raggiunto tra i due piani, una fusione pressoché totale.
Infatti, a due anni dalla nascita dei Traumatics, rimane del tutto ignota la reale identità degli artisti che si celano dietro questo nome, i quali non hanno mai suonato dal vivo, mentre testi e canzoni sono accreditate nientemeno che a Richard Katz e Jonathan Franzen e ovunque sul web si riportano come membri della band i personaggi inventati dallo scrittore, vale a dire, oltre a Katz, Herrera, Molly Tremain “and friends”.

E a rendere ancora più interessante la questione è che le tracce degli album non sono per niente male, anzi ricordano da vicino le sonorità - nonché la stessa voce - di Lou Reed.
Si può parlare di plagio? Forse. Ancora non si sa se Franzen abbia avallato il progetto o ne sia invece estraneo, anche se, almeno in una prima fase, è più probabile la seconda ipotesi.
Certamente negli ultimi anni la cultura si è trasformata profondamente, assumendo forme e sfumature inedite, fondate su una giustapposizione di piani e una interdipendenza tra prodotti e arti diverse.
Episodi del genere sono all’ordine del giorno in campi come la musica e il cinema, dove materiali originali vengono rielaborati e manipolati fino a diventare oggetti rinnovati, portatori di un nuovo significato. In questo processo la letteratura è invece un terreno ancora poco esplorato.
Nella maggioranza dei casi si rimane infatti nello stesso ambito di partenza, poiché la rielaborazione di prodotti testuali preesistenti dà vita ad altre creazioni letterarie: si pensi al caso degli spin-off di saghe famose, prodotti sempre su carta.

In ogni modo il mistero che avvolge i Traumatics potrebbe presto dissolversi, dato che essi stessi, attraverso la voce del fantomatico frontman Richard Katz hanno annunciato l’intenzione di intraprendere un tour mondiale (che li porterà anche in Italia), a patto di raccogliere attraverso donazioni volontarie almeno 5ooo dollari entro il 6 agosto, necessari per finanziare i concerti.
Staremo a vedere.
Anche se, fino ad ora, sono stati donati solo 70 dollari.


sabato 14 luglio 2012

Nuova recensione Cineland. Quasi amici - Intouchables di E. Toledano e O. Nakache

Quasi amici - Intouchables
di Eric Toledano e Olivier Nakache
con Francois Cluzet, Omar Sy, Anne Le Ny
Commedia, 112 min., Francia, 2011

Non voglio ripercorrere qui la storia narrata dalla pellicola (già ampiamente conosciuta anche da chi il film non l’ha visto), ma voglio sfruttare l’occasione per ricordare un assunto fondamentale del cinema.

Per chi ancora non lo sapesse, l’ingrediente fondamentale per fare una buona commedia è la morte. Il senso di morte deve attraversare tutta la pellicola, fungendo da spauracchio da irridere e sbeffeggiare con costanza e dedizione.

Quasi amici mette mirabilmente in scena questo assunto, ormai dimenticato dal cinema italiano, avvalendosi del piglio secco del racconto, del passaggio dalla comicità al dramma e, soprattutto, del “sempreverde” gioco di contrasti. In questo caso: handicap fisico/handicap sociale, ricchezza/povertà, voglia di morire nonostante la ricchezza/voglia di vivere nonostante la povertà, ironia/severità.

Qualcuno penserà che tutto questo sia banale. Lo è, ma funziona.

Voto: 4/5

(Film visionato il 7 luglio 2012)

mercoledì 4 luglio 2012

I Cani @ "Bevi e Godi" Fest di Sorbolo (PR)

Venerdì scorso, per puro caso, scopro che I Cani suonano al “Bevi e Godi” di Sorbolo (Parma), la festa della birra che quest’anno ospita, tra gli altri, Colapesce e i Diaframma. Decido subito di andarci. Ecchecazzo, è da un anno che ascolto il primo album di Niccolò Contessa e per niente al mondo mi farei scappare l’occasione di vedere come se la cava dal vivo. (Tra l’altro la festa è ad ingresso gratuito e a 15 minuti in macchina da casa mia. Ma questi sono dettagli). Ora di arrivo 22. Mi becco l’inevitabile gruppo spalla (rock classico, un misto di Strokes e Bob Dylan alla nostrana) e alle 23.10 circa, con un mojito e un mezzo vodka lemon in corpo, sento che le casse sparano le prime note dei Cani. Inizia il concerto.

L’apertura è affidata all’ultimo pezzo, Asperger, e la gente comincia ad assieparsi sotto al palco. A dire il vero mi aspetto molta più ressa, ma c’è anche da dire che il target è preciso e circoscritto. Sono soprattutto ragazzi e ragazze dai 18 ai 28 anni. Si vede dalle loro facce, si vede dal fatto che conoscono a memoria ogni parola di ogni canzone. Perché?, mi chiedo. Semplicemente perché con le sue canzoni Niccolò ha dato vita ad un affresco generazionale, declinato in dodici grida di sofferenza e di speranza che inevitabilmente non possono piacere a tutti, perché agrodolci, scomode, fin troppo vere.
Non a caso il concerto si apre con il brano che tratteggia una generazione malata: quanti ventenni hanno effettivamente già alle spalle anni e anni di cure mediche per problemi di alimentazione, di tiroide, di insonnia, di iperattività, di intestino irritabile, di depressione, di qualunque cosa riesca a rendere impossibile una fetta di vita? E quanti hanno visto ricondurre questi problemi ad una malattia psicosomatica? Molti. Se non tutti.  Ma “non si scherza su queste cose”, ammonisce sarcasticamente la voce incazzata di Niccolò.
Benché non reputi questa una delle canzoni più riuscite dei Cani, mi rendo conto che la musica sta cominciando a travolgermi. E pensare che l’elettropop non mi ha mai interessato più di tanto. Mi accorgo però che qui sto assistendo a qualcosa di diverso, di nuovo. Sono di fronte ad una musica calata perfettamente nel presente, un misto di generi in perfetto clima postmoderno: pop, elettronica, punk, new wave sono solo alcuni degli ingredienti principali di un mix perfetto di stili che genera qualcosa di nuovo, una sorta di barriera sonora che rinfresca e svecchia questa afosa notte da paese d’estiva bassa padana. E dire che Niccolò è stato bersagliato da più parti da critiche legate alla banalità dello stile. Come se la musica di Lou Reed fosse (quasi) tutta da buttare. Sarà forse l’invidia dei “nati nel settantanove (che) suonano in almeno due o tre gruppi e fanno musica datata” (Velleità)?
Le sorprese sonore non si fermano. Il secondo pezzo è la cover di una canzone che, almeno dalle prime parole, non ricordo. Arriva il ritornello e scopro che si tratta di Con un deca degli 883. Che dire? Mai così attuale, e svecchiata come meglio non si potrebbe. In una parola: resuscitata.
L’energia cresce, come il numero della gente sotto il palco. Non ci sono inutili commenti tra una canzone e l’altra. Solo un fiume di energia che non si vuole arrestare. Niccolò crede a ciò che canta perché Niccolò è ciò che canta. Non stupisce allora vederlo urlare a squarciagola (il canto è molto migliorato rispetto alle loro prime esibizioni live) frasi che ricordano i nostri recenti trascorsi universitari (“Le bariste che ci provano con me; i fuori sede che ci provano con le bariste (coi soldi dei padri); le consumazioni nella tasca di dietro: dieci euro in cambio di un Long Island gratis”, Door Selection), la paura del mondo del lavoro e l’idea di essere “migliori” a prescindere da ciò che stiamo facendo per aiutare noi stessi a tirare avanti nonostante tutto (“Le velleità ti aiutano a dormire quando i soldi sono troppi o troppo pochi e non sei davvero ricco, né povero davvero, nel posto letto che non paghi per intero”, Velleità), l’infondata invidia per la giovinezza altrui che ne deriva (“Ed io, che sto a guardare e rido, di che rido? Io che di nascosto vivo, io non vivo che nascosto, ed ho un po' più di anni ma non so che cosa invidio”, I pariolini di diciott’anni), le ossessioni esistenziali che non ci abbandoneranno mai (“L'immagine di sé che mette ansia. Le finte ansie”, Hypsteria; “La pretesa che tutto questo avrà un senso, il mattino seguente; le preoccupazioni da non dare a mia madre”, Door Selection).
Mi soffermo, infine, sulle parole di Hypsteria, pezzo che chiude il concerto prima del bis. "Andrò a New York a lavorare o a studiare. Dirò ai miei genitori che sto male qui a Roma. Vedrai, vedrai, vedrai" è la pietosa constatazione che, ora più che mai, ogni coraggioso tentativo di dare una sferzata professionale alla nostra vita è destinato ad esaurirsi, risolvendosi in un lavoro da barista o da bancario nel paese che ci ha dato i natali. Ci rimane il mondo degli affetti? Neanche quello, forse. Come i “pariolini di diciott’anni”, quante persone ormai si lanciano in una relazione bastachessia “perché anche se non fosse amore non per questo è da buttare (com'è logico che sia)” (I pariolini di diciott’anni)? Testi, dunque, che con poche pennellate riescono a ricostruire la nostra desolante realtà contemporanea, fatta di “cattivi che non sono cattivi” e “di buoni che non sono buoni davvero”. Sì, “proprio come me e te” rispondo, cantando, a Niccolò (Wes Anderson).
Niccolò è bravo, poche balle! Un “falso nerd con gli occhiali da nerd” (Velleità) che con un progetto tanto coraggioso quanto riuscito rischia di mettere in difficoltà un’intera generazione di menestrelli che, nel 2012, stanno ancora aggrappati alla “coperta di Linus” di una musica ormai superata (rock, pop, indie, chiamatelo come volete) e si avvalgono, come se non bastasse, di testi poco coraggiosi e innovativi perché cuciti per il sempre più becero pubblico italiano. Quindi viva I Cani, abbasso il ciarpame rockettaro delle vecchie e nuove generazioni. Sotto quel palco ho finalmente respirato aria fresca. Sotto quel palco ho finalmente ritrovato l’energia, propositiva e intellettuale, della Musica. 
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