sabato 24 dicembre 2011

Nuova recensione Cineland. The Artist di M. Hazanavicious

The Artist
di Michel Hazanavicious
con Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman
Drammatico, 100 min., Francia, 2011

Italia-Francia 0-1. Ancora una volta la leggerezza e la maestria del cinema francese surclassano l’ampollosità e la monotonia del cinema italiano contemporaneo, e così il potente Harvey Weinstein ha preferito lanciare nella corsa agli Oscar questa perla di Hazanavicious invece di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino, la cui uscita americana è stata ormai spostata a primavera.

E dire che, a detta di alcuni, le stesse caratteristiche di The Artist avrebbero potuto giocargli contro. Muto, in bianco e nero, ambientato negli anni Venti e con una storia in cui abbondano i tanto ripudiati “buoni valori”, nessuno si aspettava che potesse dimostrarsi un film così riuscito. Ma vediamo nel dettaglio i suoi punti di forza.

La ricostruzione storica e i protagonisti sono praticamente perfetti. Jean Dujardin possiede una bellezza d’altri tempi e occupa la scena come pochi: sempre sorridente e spalleggiato da un cagnolino con il quale vive in simbiosi, interpreta un divo del cinema muto che, dopo aver conosciuto la gloria, si scontra con il passaggio del cinema al sonoro cadendo progressivamente nel dimenticatoio. Chi non cade nel dimenticatoio è invece colei che diventerà la sua amata, una Bérénice Bejo che interpreta una donna decisa, emancipata, ma sempre aperta al sentimento.

A livello stilistico, invece, il bianco e nero, le didascalie, la gamma infinita dei grigi a seconda degli stati d’animo del protagonista e, ancora, a livello narrativo, le scene da melò, da love-story e da dramma sono una vera e propria dichiarazione d’amore per il cinema classico hollywoodiano, non solo quello dell’epoca del muto.

Infine, a livello citazionistico, ritroviamo capolavori come Quarto potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto di Billy Wilder (la parabola discendente della star, sempre accompagnata dal suo fedele autista), È nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen.

Allegro, furbo, riuscito, The Artist è un’opera irresistibile (anche un po’ ruffiana dato che Hazanavicious attinge a piene mani dalla “tradizione” per un’operazione che tanto ricorda quella di Tarantino con i b-movies) che ha il merito di far conoscere il cinema e la sua storia a chi ancora non se n’era interessato.

Voto: 4/5

(Film visionato il 21 dicembre 2011)

giovedì 8 dicembre 2011

Nuova recensione Cineland. Midnight in Paris di W. Allen

Midnight in Paris
di Woody Allen
con Owen Wilson, Rachel McAdams, Marion Cotillard, Michael Sheen, Adrien Brody
Commedia, 94 min., USA, Spagna, 2011

Gil Pender (Owen Wilson) è uno sceneggiatore hollywoodiano alle prese con la travagliata stesura del suo primo romanzo e prossimo alle nozze con Inez (McAdams), figlia di un esponente del Tea Party repubblicano. Durante una vacanza con fidanzata e futuri suoceri a Parigi, Gil si innamora perdutamente del luogo, sino a maturare l’idea di trasferircisi. Più che per la città contemporanea, la sua è una vera e propria esigenza di fuga dal presente. Obiettivo: la Parigi degli anni ’20, crocevia culturale di scrittori, musicisti, pittori e registi. Ed è così che, una sera, trascurato dalla compagna che gli preferisce un amico di vecchia data tuttologo e pedante, decide di camminare tra le stradine di Parigi. È qui che, allo scoccare della mezzanotte, la sua nostalgia produce un cortocircuito temporale che lo porterà, sera dopo sera, a partecipare a feste in case private animate dai più grandi artisti del periodo: da Ernest Hemingway a Cole Porter, passando per Pablo Picasso, Buñuel, Dalì e tanti altri. Tutti caratterizzati dai loro tic, dalla loro personalissima genialità e dalla nostalgia per il passato.

Un mondo bellissimo è raccontato dal protagonista attraverso il suo sogno, la sua immaginazione. Che è poi l’immaginazione dello stesso Allen. I grandi cineasti, musicisti, pittori e scrittori che popolano le notti parigine sono infatti quelli incontrati nella sua infanzia. Le loro battute, i loro atteggiamenti, non sono altro che una generalizzazione di ciò che tutti conoscono. E così Dalì vuole dipingere un rinoceronte, Hemingway vuole boxare, Porter suona Let’s Do It (Let’s Fall in Love) al pianoforte. Sullo sfondo Parigi. E non poteva essere altrimenti.

Stereotipi? Forse, ma in questo caso l’intento non è quello di descrivere analiticamente la capitale francese. È che l’“operazione nostalgia” poteva avere luogo solo nella città che nel giro di mezzo secolo è stata per ben due volte (Belle Epoque e anni Venti) il cuore artistico e culturale dell’Europa e del mondo. Pertanto, è solo nella cornice della capitale che Allen poteva muovere il suo protagonista. Lo fa con ritmo (è il caso di dirlo data la splendida colonna sonora) e leggerezza, le battute sono meno fulminanti rispetto alle opere precedenti, ma questa volta l’intento è quello di fare un film di classe conferendo risalto al messaggio finale. Come ha dichiarato lo stesso Allen: «La vita è tragica e brutale e quindi tutti immaginiamo un altrove fisico o temporale dove avremmo potuto stare meglio. In realtà le cose non migliorano mai davvero. Il mondo è sempre stato un luogo molto duro e se riesci a mettere da parte la nostalgia e guardi più da vicino a quegli anni, ti accorgi che non c’era una cura per la tubercolosi, che i bambini morivano per la polio e che la gente si beccava la sifilide». Certo Allen non ci fa vedere questa negativa sfaccettatura del passato, preferisce charleston e champagne, ma il messaggio arriva.

Voto: 3½ / 5

(Film visionato l’8 dicembre 2011)

domenica 4 dicembre 2011

Nuova recensione Cineland. Miracolo a Le Havre di A. Kaurismäki

Miracolo a Le Havre
di Aki Kaurismäki
con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin
Commedia, 93 min., Finlandia, Francia, Germania, 2011

Dopo Philippe Lioret (Welcome, 2009) ed Emanuele Crialese (Terraferma, 2011), anche Aki Kaurismäki si misura con il tema dell’immigrazione. La materia trattata dai tre registi è dunque la stessa, gli approdi assolutamente diversi. Il film dell’italiano è sicuramente il meno riuscito: molta retorica, attori non sempre nella parte, facili sentimentalismi. Quello di Lioret è un capolavoro di sobrietà. Il film del maestro finlandese è invece tanto particolare quanto riuscito.

Innanzitutto Kaurismäki ha uno stile inconfondibile: colori pastello, scene da teatro di posa, dialoghi quasi da teatro dell’assurdo. Ma d’assurdo nel suo film ce n’è ben poco.

Il protagonista è l’umile lustrascarpe Marcel Marx che vive con l’amata moglie Arletty e la furbissima cagnolina Laika. Un giorno due avvenimenti sconvolgono la sua modesta ma serena vita: il ricovero in ospedale della moglie a causa di una grave malattia; l’incontro con Idrissa, ragazzino immigrato dall’Africa arrivato in Francia in un container e sfuggito alla polizia. Tra una visita all’ospedale e quella successiva, Marcel si prodiga per aiutare Idrissa a superare la Manica al fine di raggiungere la madre in Inghilterra. Lo aiutano i vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – e, inaspettatamente, un detective della polizia professionale ma non integerrimo. Riuscirà Idrissa a raggiungere la sua destinazione? Quale sarà il futuro della moglie di Marcel?

La storia è stata concepita come una fiaba: Le Havre potrebbe essere una qualsiasi cittadina di mare; i personaggi non sono caratterizzati psicologicamente ma proprio per questo si caratterizzano per un’intrinseca universalità; di retorica non ce n’è traccia (v. la condizione degli immigrati nel container). Senza contare che certi personaggi e certi dialoghi farebbero impallidire anche il Woody Allen più in forma. In poche parole il miglior Kaurismäki ha trovato la ricchezza nella povertà, il miracolo in un mondo impossibile che tuttavia si ispira (o addirittura rispecchia) quello reale. Finale struggente: un ciliegio in fiore.

P.s. Anche in questo film, come in This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, c’è la scena di un concerto. Funzionale, simpatica, ben girata, non tediosa. Bravo Kaurismäki.

Voto: 4/5

(Film visionato il 30 novembre 2011)

mercoledì 23 novembre 2011

Remember Us: Hardcore, Il petroliere, I giorni del cielo e I figli degli uomini.


È tempo di inaugurare un nuovo appuntamento in questo fantastico Blog, che sta assumendo un taglio sempre più cinematografico. E infatti eccovi una sezione fresca fresca interamente dedicata
NON alle pellicole recentemente uscite al cinema (per questo ci sono le recensioni postate e poi raccolte nella pagina Cineland),
NON ai film noleggiabili in DVD (ricordate i post intitolati “Novità da Blockbuster”?),

bensì ai film pescati da un passato più o meno recente.

Per questo la sezione si chiamerà Remember Us. Di seguito il primo gruppo di film, con votazione rigorosamente in stelline (la massima votazione raggiungibile è *****).

Il petroliere
di Paul Thomas Anderson
con Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Kevin J. O’Connor
Drammatico, 159 min., USA, 2007
****

Il titolo italiano non riesce a ricreare l’atmosfera del titolo originale: There Will Be Blood. All’inizio del Novecento Daniel Plainview, tra sacrifici e disgrazie, diventa un magnate del petrolio. Chi lo interpreta, ovvero Daniel Day-Lewis, è immenso e l’atmosfera ricreata è degna dei kolossal che hanno fatto la storia del cinema. Consigliato a chi vuol capire dove affonda le radici il capitalismo “made in USA”.

I giorni del cielo
di Terrence Malick
con Richard Gere, Brooke Adams, Sam Shepard
Drammatico, 95 min., Usa, 1978
***½

Il film si apre con una sublime partitura di Ennio Morricone e si dipana tra una storia d’amore maledetta in una piantagione texana e le sublimi inquadrature della natura in cui si sviluppa. Il film diventa così il perfetto trait d’union tra La rabbia giovane (v. la storia d’amore) e La sottile linea rossa (v. le inquadrature). La bellezza risiede nelle piccole cose.

I figli degli uomini
di Alfonso Cuaròn
con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine
Thriller, 109 min., GB-Usa, 2006
***

2027. In una Londra apocalittica Theo (Clive Owen), ex militante dissidente, deve salvare una giovane africana portandola in un sito protetto nelle Azzorre. Sulla terra, infatti, non nascono più bambini da ben diciotto anni e la ragazza è miracolosamente incinta. Alfonso Cuaròn dirige un film d’inseguimento iperrealista in cui il pathos non manca. Spicca la recitazione di un Clive Owen bravo e credibile.


Hardcore
di Paul Schrader
con George C. Scott, Peter Boyle, Season Hubley
Drammatico, 108 min., USA, 1978
***

Jake Van Dorn, piccolo impresario che abita in una comunità religiosa, assolda un detective per ritrovare la figlia minorenne scomparsa. Quando quest’ultimo ritrova il film porno in cui recita la ragazza, il padre decide di proseguire le ricerche da solo. L’atmosfera è quella di Taxi Driver (di cui Schrader è stato sceneggiatore), similare “la discesa all’inferno”. Ottimo Scott, padre sofferente che all’occorrenza trova la forza di reagire e di farsi valere.

venerdì 11 novembre 2011

Nuova recensione Cineland. Una separazione di A. Farhadi

Una separazione
di Asghar Farhadi
con Babak Karimi, Leila Hatami, Merila Zarei, Peyman Moaadi, Sareh Bayat
Drammatico, 123 min., Iran, 2011

Vincitore dell’Orso d’oro e dei riconoscimenti riservati agli attori protagonisti e a tutto il cast (non era mai successo), Una separazione è il film che ha dominato l’ultimo Festival di Berlino.

Con quest’opera Asghar Farhadi rappresenta la condizione della società iraniana: i vincoli famigliari, la presenza (o meglio, l’ingerenza) della religione, la condizione delle donne, l’opprimente (onni)presenza dello stato. Per tutte queste tematiche si potrebbe parlare di una sorta di “nuovo realismo” iraniano, al fine di indicare un modo di fare cinema che punta tutto sulla  capacità di rendere ancora più labili i confini tra realtà e fiction.

In Una separazione c’è, infatti, una finzione densa di realtà che tradisce un meccanismo per il quale la seconda si confonde nella prima. E così gli attori sembrano interpretare persone più che verosimili e l’intero contesto sembra corrispondere al più meticoloso identikit della società iraniana, carica di costrizioni e contraddizioni. Dunque, senza mai tradire una sola denuncia esplicita, il film si trincera dietro l’infallibilità della ricostruzione di una situazione possibile: le sequenze sono scandite da porte aperte o chiuse, da scorci di stanze o da finestre in cui spesso appare un terzo personaggio che ascolta in silenzio due dialoganti e funge da alter ego dello spettatore.

Noi ci sentiamo allo stesso tempo sodali e giudici ma non di un aspetto della vicenda, bensì dell’intera storia. Una badante ha avuto un grave incidente durante un diverbio con il datore di lavoro. Ogni personaggio offre la propria versione dei fatti, facendo emergere questioni problematiche: la disoccupazione, le leggi sul lavoro, il sistema giudiziario. Avremo il coraggio di giudicare o di parteggiare per una delle due fazioni coinvolte?

Nelle lunghe sequenze di dialoghi la tensione è altissima (c’è chi ha parlato di thriller) e finalmente, dopo tanto tempo, rimaniamo incollati allo schermo per sapere come andrà a finire.

Voto: 4½/5

(Film visionato il 5 novembre 2011)

mercoledì 9 novembre 2011

E' uscito il primo disco solista di David Lynch


Da ieri è disponibile Crazy Clown Time, il primo album solista dell'eclettico David Lynch, composto da 14 brani a metà strada tra l'elettronica e il blues-rock.

"Se pensate che i film di Lynch siano strani, aspettate di sentirlo cantare". Con queste parole il giornalista del Guardian Xan Brooks aveva presentato il disco qualche giorno fa e in effetti aveva ragione. Crazy Clown Time è un disco surreale, un disco che non ti aspetti, proprio come il suo autore. Ci sono ballate romantiche come Football Game, misteriose e terribili canzoni d’amore come Noah’s Ark, psicodrammi all’organo come I Know, brani ipnotici e martellanti come l'iniziale Pimkie's Dream, dove l'elemento vocale è lasciato a Karen O delle Yeah Yeah Yeah's.

Da notare anche il brano allucinato che dà il titolo all'album, il cui testo parla di una festa sul prato osservata attraverso lo sguardo distorto di un bambino, o la robotica Strange and Unproductive Thinking, in cui Lynch si apre all'influenza dalla meditazione trascendentale, che pratica ormai da molto tempo. (Si pensi che è addirittura presidente di una fondazione per la diffusione della pratica della meditazione.)

Del resto l'attenzione di Lynch per l'universo sonoro non è certo una novità, dato che già dal 1986 collabora con il compositore Angelo Badalamenti nella scrittura delle colonne sonore dei suoi film e serie tv (Twin Peaks). In particolare la colonna sonora di Inland Empire comprende due canzoni cantate da lui stesso.

Nel 2009, poi, Lynch aveva partecipato al disco-progetto Dark Night of the Soul di Danger Mouse e di Mark Linkous registrando due canzoni, Star Eyes e Dark night of the Soul.




martedì 1 novembre 2011

Nuova recensione Cineland. Faust di A. Sokurov

Faust
di Aleksandr Sokurov
con Johannes Zeiler, Stefan Weber, Anton Adasinsky, Hanna Schygulla, Isolda Dychauk, Georg Friedrich
Drammatico, 134 min., Russia, 2010

Non c’è altro modo di iniziare a parlare del Faust di Aleksandr Sokurov se non quello di mettere subito in chiaro una cosa: è riduttivo parlare di film perché siamo di fronte ad un’opera d’arte. Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia il lavoro sintetizza cultura e maestria tecnica, per un risultato che ci fa tornare alla mente vette della cinematografia mondiale quali Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957) e Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979).

Lontano dalla spiritualità del Faust di Goethe, quello delineato da Sokurov è un protagonista sì pieno di conoscenza ma profondamente legato alla dimensione terrena, caratterizzata dalla voglia di soddisfare gli istinti primari della fame e del sesso. Come lui anche Mauricius è un Mefistofele molto terreno, asessuato, dal ventre flaccido e l’aspetto ripugnante, che fa l’usuraio e non si cura né dei sentimenti né della cultura. Il mondo in cui i due si muovono è corrotto dalla violenza e dalla miseria, permeato da odori di cadaveri, sporcizia e flatulenze.

Per la precisione l’azione si svolge all’inizio dell’Ottocento in un villaggio dell’Europa centrale (Germania?), in cui abitazioni e locande sono state arredate facendo attenzione anche ai minimi particolari. L’operazione di meticolosa ricostruzione degli ambienti si lega anche alla volontà di recuperare le atmosfere e lo spirito popolare originario della leggenda del Faust che, nata da una figura di alchimista forse realmente esistito, si era diffusa in Germania attraverso i Volksbuch (libri del popolo) a partire dalla fine del XVI secolo e fu tradotta in rappresentazioni comico-farsesche da compagnie popolari e di marionette (Goethe era entrato in contatto con l’opera di Marlowe proprio grazie a queste ultime).

La meticolosità di Sokurov si manifesta, pertanto, sia nella recitazione degli attori, che potrebbe essere a tratti ricondotta a quella dei guitti e dei giullari medievali, che nello spirito grottesco e alchemico della tradizione popolare tedesca. Non c’è allora da stupirsi dei molteplici riferimenti dotti riguardanti la cultura del periodo disseminati in tutta l’opera: una dissertazione sulle piante del bosco porta Faust a far notare a Margarete la mandragola (che sappiamo essere pianta dall’essenza afrodisiaca o all’occorrenza mortale); Wagner, allievo ormai folle di Faust, porta con se un homunculus. Come i riferimenti alla cultura del tempo non si esauriscono di certo in questi due esempi, anche i nessi con una certa tradizione cinematografica sono molteplici e rilevanti.

Se l’atmosfera e i temi trattati rimandano, come anticipato, al Settimo sigillo di Ingmar Bergman, la struttura dell’opera e l’impianto narrativo richiamano invece il cinema di Andrej Tarkovskij. Non a caso l’acqua e la terra, due dei cinque elementi prepotentemente presenti nella seconda parte del film, sono proprio rimandi a Stalker e Nostalghia (1983). Sokurov è dunque riuscito nel difficilissimo proponimento di reinterpretare visivamente la complessità dell’opera goethiana, anche attraverso l’uso “pittorico” di lenti speciali (molte scene ricordano quelle dei dipinti di Hieronymus Bosch).

Come ha dichiarato il regista stesso:
«Abbiamo usato strumenti ottici di grandi dimensioni e lenti speciali originali, realizzate in Russia, che il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha usato per la prima volta. L’ispirazione viene dalla pittura europea dei primi decenni dell’Ottocento, soprattutto quella tedesca. I colori, i volti dei personaggi, l’immagine della città e i dettagli della vita quotidiana si riferiscono a quel tipo di iconografia ottocentesca. Per riprodurne l’atmosfera abbiamo cercato oggetti d’epoca in Austria, in Germania, in tutta Europa, ricostruendo esattamente dettagli anche minuti della vita quotidiana, come i vestiti, i cuscini, le lenzuola, le tazze e il cibo. I cavalli che si vedono nel film sono frisoni, la razza equina più antica, di cui ormai sopravvivono solo sessanta esemplari nel mondo. Partivamo dal presupposto che l’uomo è una razza in evoluzione ed è molto importante avere memoria del nostro passato. Uno dei compiti principali del cinema è far rinascere il tempo, con tutti i suoi particolari».

Avevamo il timore che dopo la morte di Bergman un certo tipo di cinema (ricercato, erudito, ineccepibile) fosse andato perduto. Con quest’opera Sokurov lo ha salvato.

(Film visionato il 30 ottobre 2011)

mercoledì 26 ottobre 2011

Novità da Blockbuster. Cosa vedere e cosa no

Da vedere

La donna che canta
di Denis Villeneuve
con Lubna Azabal, Maxim Gaudette, Remy Girard
Drammatico, 120 min., Canada, 2010
****

C’è tutto. Ma per poterlo comprendere fino in fondo bisogna avere una minima infarinatura della guerra del Libano e dei conflitti mediorientali (per questo consiglio la visione di Valzer con Bashir di Ari Folman, 2009). Uno dei film più belli e sconvolgenti degli ultimi anni.


Evitabili

Con gli occhi dell’assassino
di Guillem Morales
con Belen Rueda, Luis Homar, Pablo Derqui
Horror, 112 min., Spagna 2010
**

Qualche buona intuizione a livello tecnico. Per il resto molti riferimenti a film come Psycho, Profondo rosso e The Eye. Dopo la coppia Jaume Balaguerò e Paco Plaza (Rec, 2007), un altro regista spagnolo dimostra che è sulla suspense e non sulla truculenza che bisogna puntare per riuscire a rinnovare ulteriormente il genere horror.

Hanna
di Joe Wright
con Cate Blanchett, Eric Bana, Saoirse Ronan
Thriller, 111 min., Usa, Gran Bretagna, Germania, 2011
**

Stereotipi su stereotipi su stereotipi (c’è anche il killer che fa roteare sul palmo della mano due sfere d’acciaio) per una sagra del “già visto” a metà tra Mission Impossible e la saga di Jason Bourne. La differenza è che qui chi ci sa fare con le armi è una ragazzina. Da notare la colonna sonora dei Chemical Brothers.

venerdì 21 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. This Must Be the Place di P. Sorrentino

This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton
Drammatico, 118 min., Italia, Francia, Irlanda, 2011

L’11 ottobre scorso Antonio D’Orrico, il Fabio Fazio del «Corriere della Sera» (sì, perché come il conduttore di Che tempo che fa anche lui è entusiasta di tutto quello che recensisce), ha pubblicato nel sito online della testata di via Solferino un articolo dal titolo roboante: Quello che non dimenticherò mai di Sorrentino. Il pezzo, dal sottotitolo ancora più altisonante (Le 19 cose imprescindibili di This Must Be the Place), propone una lista di 19 particolarità che dovrebbero farci ricordare per sempre della pellicola in questione. Il problema, però, è che D’Orrico ha compiuto due gravissimi errori: ha portato lo spettatore completamente fuori strada; non ha aiutato il regista ad aprire gli occhi. Sì, perché This Must Be the Place è un film che inizia benino ma finisce veramente male, in un crescendo di errori tanto palesi quanto ingenui. Dal regista del Divo non ce lo saremmo mai aspettato. Quindi ora, per rendergli un servizio e per tentare di riparare agli errori del giornalista, proporrò di seguito la vera lista di motivi per cui ci dimenticheremo prest(issim)o di questo film.

1) Tipologia di film. Road movie? Sicuramente no. Film di formazione? Potrebbe, ma il percorso di maturazione del protagonista non si vede.

2) Trama. Nella prima parte del film ci viene presentato Cheyenne (Sean Penn), un’ex rockstar usurata dagli stravizi del passato che vive in una villa irlandese con la sua amata moglie e passa le giornate tra la noia e l’apatia. Fino a questo punto (contrariamente a quello che potrebbe far pensare l’esilità della trama) l’interesse dello spettatore viene stuzzicato da una miriade di domande che sorgono spontanee: chi è veramente Cheyenne? Chi si nasconde dietro la sua maschera? Perché, lui che è una rockstar, ama così tanto la moglie e le è fedele? Perché non ha avuto figli? Dov’è la sua famiglia? Ecc. Tutto cambia dopo che il protagonista viene raggiunto dalla notizia dell’aggravarsi della malattia del padre e decide di spostarsi negli USA alla ricerca di un aguzzino nazista. Qui inizia infatti una sorta di seconda parte simil on the road in cui vengono celermente risolti tutti gli interrogativi che ci avevano fatto affezionare al protagonista. Così il suo alone di mistero svanisce e del suo futuro non ce ne può più fregar di meno.

3) Temi trattati. Purtroppo (e dico purtroppo perché dal primo film internazionale di Sorrentino ci aspettavamo molto di più) viene detto poco se non addirittura niente. Quel poco che viene detto (come il rapporto padre/figlio) o viene trattato male o è addirittura già stato approfondito (e meglio) in altre pellicole.

4) Dialoghi. I dialoghi sono assolutamente irreali (addirittura più del personaggio Cheyenne), con frasi slegate tra loro che sembrano aforismi da biscotto della fortuna. Per un po’ il giochino funziona, poi diventa ridondante.

5) Regia. Dal regista del Divo tutti si aspettavano il botto. E invece Sorrentino passa da scene inutili (v. il concerto di David Byrne) a sequenze alla Sofia Coppola (ma illogiche e/o venute male). Carina la fotografia, ma ormai a certi livelli è la regola. Stucchevoli le scene della donna a mollo nella piscina e della band che suona nel centro commerciale con i passanti che muovono la testa a tempo di musica.

6) Protagonista. Il personaggio che Penn ha dovuto interpretare (lo ha fatto con talento) è e rimane una macchietta. Infatti, come recita la pagina di Wikipedia, un personaggio per essere ben riuscito deve mostrare tre diverse facce: come sembra, com’è in realtà e come diverrà (lungo l’arco della storia). La macchietta, invece, ha una sola faccia: il come sembra. Cheyenne è quindi un personaggio piatto, non approfondito psicologicamente.

7) Artifici narrativi. I ralenti sono scontati e sicuramente non epici, il montaggio sconclusionato. Inclassificabile, invece, il rapporto musica/immagini, sfruttato come peggio non si potrebbe.

8) Il finale. Per ovvi motivi non lo espliciterò. Vi basti sapere che è inutile, privo di pathos e puerile.

Qualcosa di buono rimane in quella che sembrerebbe essere una valle di lacrime? Sì. Come già accennato la prima parte del film, con le sue domande, e la recitazione di Penn. Poi una scena: quella del ping pong.

Voto: 2/5

(Film visionato il 19 ottobre 2011)

domenica 16 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. Final Destination 5 di S. Quale

Final Destination 5 (3D)
di Steven Quale
con Nicholas D’Agosto, Emma Bell, Miles Fisher
Horror, 92 min., Usa, 2011

Il copione si ripete per la quinta volta. Un ragazzo ha una premonizione, grazie a questa riesce a salvare sé stesso e qualche altro amico da una catastrofe, ma così facendo cambia il disegno della morte e allora quest’ultima li rincorre e cerca di farli fuori tutti nella sequenza in cui nella premonizione li aveva sottratti alla vita. A livello di trama, nulla è cambiato dal primo capitolo della serie.

Final Destination 5, però, riesce a fare un passo in avanti. Final Destination 5 riesce laddove il 4 (anch’esso in 3D) aveva fallito e fa compiere al genere un salto di qualità. Il che, data la situazione in cui versano i film horror/splatter, non è poco.

I suoi punti di forza sono almeno due. In primis le coincidenze negative che portano alla morte dei vari personaggi sono sempre più imprevedibili e benché si sappia che qualcosa di veramente brutto accadrà non si sa né quando né come. Ed è così che la tensione è crescente e finisce con il non mancare quasi mai. In secondo luogo c’è il vero valore aggiunto del film, un asso nella manica che molti registi non sono riusciti a sfruttare: il 3D. Steven Quale, già supervisore degli effetti speciali di Avatar, ha superato di gran lunga lo scadente risultato in tre dimensioni del film con gli omoni blu e qui è invece riuscito a dare vita ad una prospettiva veramente “da paura” che (finalmente) riesce a dare allo spettatore l’illusione di partecipare alla vicenda. Come se non bastasse il realismo delle tragedie è accresciuto dai numerosi dettagli tridimensionali che abitano la scena e da particolari anatomici assolutamente realistici.

In poche parole un film già visto che però, grazie alla tecnologia, riesce ancora a stupire proprio grazie a quel 3D che ormai rischiava di diventare un semplice escamotage per alzare il prezzo dei biglietti.

P.s. Non si può considerare la possibilità di guardare e recensire questo film senza averlo visto al cinema in tre dimensioni. Sarebbe come andare a fare una passeggiata al parco invece di fare un giro sul Blu Tornado.

Voto: 2½/5

(Film visionato il 12 ottobre 2011)

martedì 11 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. Drive di N.W. Refn

Drive
di Nicolas Winding Refn
con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Albert Brooks
Thriller, 95 min., Usa, 2011

Non stupisce che Nicolas Winding Refn sia uno dei registi più corteggiati da Hollywood. Ed infatti il suo film fa sorgere il dubbio che sia una sorta di novello Quentin Tarantino. «Come?», direte voi. Non mi riferisco tanto allo stile, anche perché a Refn sembra mancare la capacità tarantiniana di dare vita a dialoghi tanto spassosi quanto sconclusionati, quanto alla sua maestria nel dare vita ad un film pieno zeppo di citazioni. «Ma è tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis!», esclamerete. Sì, ma non è detto che la trasposizione cinematografica non possa cogliere l’occasione per riproporre alcuni meccanismi che su celluloide hanno dimostrato di funzionare egregiamente.

Ed è così che in Drive si possono ritrovare le caratteristiche di almeno quattro o cinque film famosissimi e ormai consolidati nella tradizione cinematografica mondiale. Due di questi, poi, sembrerebbero proprio essere la base dell’intera storia. Questi sono Leon (Luc Besson, 1994) e A History of Violence (David Cronenberg, 2005). Del primo ritorna il rapporto “platonico” tra un killer e una donna (ma qui già sposata e con un bambino), con quest’ultima che risveglia nel protagonista il sentimento d’amore. Del secondo invece viene ripreso quasi in toto l’impianto: in un crescendo di violenza abbiamo un personaggio dal passato oscuro che sa però come uccidere e lo fa con chirurgica precisione (ma là Viggo Mortensen era egregio, qua Ryan Gosling è troppo poco credibile). Noi siamo spinti a chiederci: chi è?; come fa ad uccidere con quella maestria?; quale sarà il suo futuro? Come nel film di Cronenberg non ci è dato sapere.

Continuando con il gioco dei rimandi non stupisce poi che la pellicola si apra con una rapina, e qui è inutile elencare la lunga lista di film che principiano in questo modo (da ultimo Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, 2008), e finisca con un incidente che assomiglia a quello dell'inizio di Mulholland Drive (David Lynch, 2001). Come se non bastasse, a livello stilistico la musica e i continui ralenti sono una presenza costante. Ed è così che la mente torna alle Regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Certo, la scelta è funzionale a rendere epiche anche le scene di collegamento che rischierebbero di essere fiacche ma in questo modo il regista palesa il suo timore di non riuscire a tenere alta la soglia d’attenzione nello spettatore. Un (mal)celato segno di debolezza che dimostra quanto la storia sia in fondo già vista.

Dopo il Cigno nero di Darren Aronofsky (2010) avanti dunque con un’altra accoppiata film/regista che desidera più compiacere il pubblico in tutto e per tutto che proporre qualcosa di nuovo. In poche parole un ottimo prodotto senza cuore.

Voto: 3/5

(Film visionato il 7 ottobre 2011)

domenica 9 ottobre 2011

Nuova recensione Cineland. A Dangerous Method di D. Cronenberg

A Dangerous Method
di David Cronenberg
con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel
Drammatico, 93 min., Gran Bretagna, Germania, Canada, 2011

È vero che dopo due bellissimi film come A History of Violence e La promessa dell’assassino non ci si poteva aspettare che Cronenberg continuasse a sfornare un capolavoro dopo l’altro. Ma il suo ultimo film fa sorgere nello spettatore accorto troppi dubbi.

Per prima cosa A Dangerous Method non riesce a fotografare l’epoca in cui si svolge l’azione. Siamo nella Zurigo d’inizio XX secolo ma poco traspare dell’importantissima e feconda cultura mitteleuropea del periodo (magistralmente ricostruita invece nel Nastro Bianco di Michael Haneke, 2009). Già questo è molto grave perché le scoperte freudiane e junghiane rimangono orfane del contesto in cui sono state sviluppate. Come se non bastasse, lo spettatore che non possiede un’infarinatura di tali teorie non riuscirà a comprendere fino in fondo la querelle tra Freud e Jung e neppure come quest’ultimo riesce a curare con le scoperte del primo la giovane ebrea-russa Sabina Spielrein.

Che dire degli attori che li interpretano? A Viggo Mortensen non basta l’onnipresente sigaro per sembrare Freud, come non riesce ad essere fino in fondo nel personaggio Michael Fassbender, credibile nella prima parte del film ma troppo poco tormentato nel finale. Completamente inadeguata, invece, Keira Knightley troppo ostentatamente isterica per assomigliare alla sofferente Sabina Spielrein. Che dire delle situazioni? Immaginarsi un Jung che ad inizio secolo “sculaccia”(!) la Spielrein è veramente un insulto all’intelligenza dello spettatore e, come se non bastasse, gran parte dei dialoghi risultano troppo poco credibili per l’epoca. Discutibile anche la figura di Otto Gross (Vincent Cassel), che come una sorta di Lucignolo spinge l’amico e collega Jung nel vortice di sesso e trasgressione del rapporto adultero con l’ex paziente e futura collega Spielrein.

Qualcosa di positivo rimane? Sì, la scena di “medicina pionieristica” in cui Jung analizza la psiche della moglie tramite associazioni mentali e una sorta di proto-macchina della verità (potete vedere stralci della scena all’inizio del trailer). Come avete potuto capire la sceneggiatura di Christopher Hampton, basata su un suo lavoro teatrale del 2002, non regge più di tanto. Non siamo dunque poi così sicuri di imputare tutte le colpe a Cronenberg. Certo il tema aveva già mietuto una vittima: Roberto Faenza e il suo Prendimi l’anima.

Voto: 2½ /5

(Film visionato il 5 ottobre 2011)

venerdì 7 ottobre 2011

La Rai ha ucciso Passepartout e il paladino Daverio

Lo sappiamo, la notizia è vecchia. Ma è bene ricordare quanto sia autolesionista la Rai e il fatto che in futuro saremo tutti un po' più poveri (culturalmente oltre che economicamente). Di cosa stiamo parlando? Beh, lo potete capire dal titolo e dal video sottostante. Non ci sono proprio più parole. Rimane solo da tributare un umile, sentito e urlato «Grazie!» al grande Philippe.


sabato 1 ottobre 2011

Novità da Blockbuster. Cosa vedere e cosa no

Da vedere

The Next Three Days
di Paul Haggis
con Russel Crowe, Elizabeth Banks, Brian Dennehy, Olivia Wilde
Drammatico, 122 min., Usa, Francia, 2010
***

Insegnante di college (Russel Crowe) fa di tutto per cercare di far evadere la moglie dalla prigione. Ma lei è innocente o colpevole? A lui non interessa, l’importante è ricostruire l’ormai perduto idillio familiare. Haggis ha il merito di farci vedere tutte (ribadisco tutte, e con dovizia di particolari) le peripezie dell’uomo finalizzate alla fuga della donna. Ed è così che, nonostante il canovaccio sia abbastanza semplice, lo spettatore partecipa empaticamente all’odissea messa in scena. Adrenalinico.

Scream 4
di Wes Craven
con Neve Campbell, Courtney Cox, David Arquette, Emma Roberts, Hayden Panettiere
Horror, 103 min., Usa, 2011
**½

Come recita il sottotitolo… «nuova decade, nuove regole». Là (Scream, 1996) l’assassino contattava le vittime con i primi telefoni cordless. Qui sfrutta invece le tecnologie più recenti, ovvero telefoni cellulari e webcam. La nuova frontiera del delitto è filmarlo e renderlo disponibile in streaming sulla rete. Chi è l’assassino? Con la sorpresa finale (e l’intrinseca parodia del genere a cui appartiene) Craven riesce ancora a stupire.

Da evitare (senza riserve)

Thor
di Kenneth Branagh
con Chris Hemsworth, Natalie Portman, Tom Hiddleston, Colm Feore
Azione, 110 min., Usa 2011
s.v.

Visto in dvd fa esclamare un «meno male che non ho pagato il biglietto per andarlo a vedere al cinema». È praticamente un lungo filmato da videogioco. Anzi no, è peggio. La storia è esilissima, le recitazioni insufficienti, quasi tutto (forse anche gli attori) è stato creato o ritoccato al computer, sceneggiatura e dialoghi sono pessimi. Cosa rimane? Niente. Uno dei peggiori film che abbia mai visto.

sabato 24 settembre 2011

Nuova recensione Cineland. Carnage di R. Polanski

Carnage
di Roman Polanski
con Jodie Foster, Christoph Waltz, John C. Reilly, Kate Winslet
Drammatico, 79 min., Francia, Germania, Polonia, Spagna, 2011

Senza usare troppi giri di parole, è giusto mettere subito in chiaro che Carnage è un film ineccepibile. «Come?», direte voi. E io vi ripeto che sì, è impeccabile. Per vari motivi che espliciterò qui di seguito e in modo schematico. Vediamoli.

La storia
Nei titoli di testa si legge che la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani. Nella voce figurano infatti i nomi del regista Roman Polanski e di una donna, Yasmina Reza. Drammaturga, scrittrice e attrice francese la Reza ha scritto per il teatro nel 2007 Le Dieu du carnage (Il Dio del massacro o Il Dio della carneficina), opera dalla quale è stato tratto il film in questione. Come si può intuire Polanski avrà certamente giocato un ruolo fondamentale nel rendere il testo conforme ai tempi filmici. Ma la sostanza non cambia. La storia della Reza è molto calibrata, capace di mettere a nudo i difetti e le carenze di una generazione di genitori di mezz’età che vivono sempre di più avulsi dalla realtà dei loro figli. Per colpa del lavoro, per presunzione, per il loro meschino idealismo o per ignoranza ed egoismo. E la scrittura della Reza non mette in luce solo questo. Accentua infatti anche le differenze tra uomini e donne con sottile e caustica ironia. Insomma, una sceneggiatura assolutamente completa che fa dei dialoghi il suo punto di forza.

Gli attori
Tutti praticamente perfetti. C’è chi risalta di più, come Jodie Foster e Christoph Waltz, c’è chi sembra coprire il ruolo di comprimario e invece è altrettanto importante, come John C. Reilly e Kate Winslet. Come se non bastasse nessuno di loro è sprovvisto del phisique du role. Riassumendo: tutti bravi, tutti credibili.

La regia
La vicenda si svolge in quattro (ribadisco, 4) ambienti: salotto, pianerottolo, cucina e bagno. Nonostante questo il film non ha niente a che vedere con le tragedie italiane tutte crisi esistenziali, salotto con immancabile credenza della nonna, un tavolo e quattro sedie. Questo non solo perché l’arredamento è differente, ma soprattutto perché le scene sono state girate con assoluta maestria. Le riprese e il montaggio, infatti, fanno in modo che le immagini seguano le battute, all’occorrenza enfatizzandole, e il ritmo che ne deriva è perfettamente omogeneo e bilanciato. Da notare che non c’è un’inquadratura che duri più di dieci secondi e l’uso sapiente della messa a fuoco che, all’occorrenza, esclude o include i personaggi disposti in primo o secondo piano.

E così Polanski ha creato un’opera pienamente cinematografica schivando uno ad uno i riverberi della messa in scena teatrale.

Voto: 4/5

(Film visionato il 21 settembre 2011)

domenica 18 settembre 2011

Nuova recensione Cineland. Terraferma di E. Crialese

Terraferma
di Emanuele Crialese
con Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello
Drammatico, 88 min., Italia, Francia, 2011

Come nella seconda pala di un dittico, ovvero dopo aver parlato in Nuovomondo (2006) dell’immigrazione italiana negli USA ad inizio Novecento, Crialese tratta in Terraferma il tema dei viaggi disperati degli africani che cercano di arrivare in Europa (la terraferma del titolo). Prima tappa obbligata del percorso le isolette che gravitano attorno alla Sicilia. Ed è proprio in una di queste (Linosa, ma tutti sono portati a pensare a Lampedusa) che si svolge l’azione. Azione che, a pensarci bene, si articola in un lungo elenco di contrapposizioni (abitanti-villeggianti, abitanti-immigrati, villeggianti-immigrati, pescatori-finanza, speranza-rassegnazione, ecc.) che è possibile palesare parlando brevemente di ciò che accade nel film.

Filippo (Filippo Pucillo), giovane uomo orfano di padre, vive con la madre Giulietta (Donatella Finocchiaro) e il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio). Durante una battuta di pesca i due uomini prestano soccorso ad alcuni immigrati che rischiano di affogare. Tra di loro figurano anche una donna gravida ed il suo figlioletto. Seguendo la "legge del mare" Ernesto decide di dare asilo alla donna, che gli partorisce in casa la stessa notte. La mattina seguente iniziano i problemi: la guardia di finanza sequestra al vecchio la barca, con l’accusa di aver aiutato alcuni immigrati; i villeggianti sono sempre più spaventati dalla situazione ma pretendono comunque di essere serviti e riveriti; i pescatori vivono momenti di tensione con i rappresentanti di una legge che gli chiede di contravvenire alla legge del mare "girandosi dall’altra parte" alla vista di persone in difficoltà.

È da notare come ogni situazione abbia un personaggio emblematico di riferimento. Nino (Beppe Fiorello) è il rappresentante di una nuova generazione che vede il futuro solo nel turismo e che è pronta a negare ogni evidenza (gli sbarchi) pur di non perdere il denaro dei vacanzieri-clienti. Filippo, interpretato da un Pucillo che nella recitazione ricorda molto il Ninetto Davoli dei film di Pasolini, vive la tensione tra i valori tramandatigli dal nonno e le pulsioni giovanili. Nonno Ernesto, nella presenza fisica e nella generosità, è una figura ieratica che si distingue dalle altre (ma non da quelle dei pescatori della sua generazione) per carità innata. Infine Giulietta è il simbolo della compassione, lei che dopo aver superato una prima reticenza si lega alla donna cui ha dato asilo grazie alla comune sensibilità materna.

Come si è potuto capire l’opera di Crialese è, nella sua apparente semplicità, complessa e ramificata a livello tematico. Inoltre (onore al merito) la regia è notevole: anche questa volta ci rimarranno impresse almeno un paio di sequenze (v. l’immagine della locandina). Quello che non funziona fino in fondo è un cortocircuito che nasce dal rapporto tra la recitazione della Finocchiaro e quella di Cuticchio. La prima, pur nella sua bravura, rappresenta un cinema fatto da divi che male si sposa con le tematiche trattate. Ovvero, anche se la Finocchiaro è stata diretta con l’intento di ricordare Anna Magnani (soprattutto nella fisicità più che nella recitazione) l’effetto è quello di una falsa isolana troppo poco cotta dal sole e consumata dalla salsedine. Il secondo è invece il personaggio che funziona di più, soprattutto in rapporto al tema e al contesto. È sublime la riunione dei vecchi pescatori, nella quale è tra i protagonisti, che ci fa ripensare alla tradizione del Neorealismo che i giovani registi cercano troppo spesso di evitare (senza successo).

Cosa resta da dire? I sentimenti ci sono, i valori anche, come pure gli interrogativi. I dubbi però rimangono di fronte all’ennesimo tentativo di stiparli (è proprio il caso di dirlo) tutti dentro un’unica opera.

Voto: 3½/5

(Film visionato il 14 settembre 2011)
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