Grand Budapest Hotel
(The Grand Budapest Hotel)
(The Grand Budapest Hotel)
di Wes
Anderson
con Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Bill Murray, Edward Norton, Frank
Murray Abraham
Commedia, 100 min., USA, 2014
Gustave H (Fiennes) è il concierge
del Grand Budapest Hotel, dove oltre a coordinare magnificamente i suoi
sottoposti si intrattiene con le attempate e facoltose donne ospiti della
struttura. Un giorno egli diventa amico di uno dei suoi collaboratori più
giovani, Zero Moustafa (Toni Revolori nella versione giovane, Frank Murray
Abraham in quella adulta), il quale lo segue nelle sue peripezie fino a
diventarne il protetto. Tra le disavventure che i due protagonisti dovranno
superare c’è la battaglia senza quartiere che gli eredi di una conquista
amorosa di Gustave muovono a quest’ultimo, reo di aver rubato dalla loro
magione un quadro d’inestimabile valore.
Bisogna ammetterlo, il film principia come meglio non potrebbe. La
storia che stiamo per vedere ci viene presentata come la trasposizione di un
tipico romanzo novecentesco, dove l’autore confida nel prologo di aver
ascoltato il racconto che segue direttamente dalla voce di uno dei
protagonisti. In un meccanismo narrativo a scatole cinesi veniamo dunque
catapultati dalla Praga “contemporanea” (quella di chi ha scritto il libro) al
Grand Budapest Hotel del 1985 (quando lo scrittore ha ascoltato la storia) e
infine all’albergo d’inizio Novecento, luogo mitico raggiungibile grazie ad una
funicolare poiché ubicato tra i monti che sovrastano la fittizia città termale
di Nebelsbad, nello stato immaginario di Zubrowka, il più orientale d’Europa. Il
chiaro riferimento alla cultura e all’ambientazione mitteleuropea (i sanatori e
i mastodontici alberghi dove l’aristocrazia riposava le proprie membra traendo
benefici dalle acque termali), nonché il periodo storico così definito e pieno
d’implicazioni come la prima parte del XX secolo, ci fanno dunque intravedere
il capolavoro.
Auspicio che si consolida quando notiamo i pavimenti
dell’albergo coperti da tappeti Art Nouveau, la cucina con un reparto d’alta
pasticceria creato sul modello della leggendaria bottega viennese Demel ed un Grand
Budapest (inteso come edificio) concepito come mix tra i lavori di Achilles G.Rizzoli (la facciata) e il Gorlitzer Warenhaus (gli interni). Ma è proprio da
quest’ultimo pastiche e, in modo ancora più evidente, durante lo svolgimento
della storia, che ci rendiamo conto di come, nonostante abbia lavorato in Europa
e consultato la Collezione di Immagini Fotocromatiche della Libreria del
Congresso, Anderson non abbia fatto altro che ricostruire un contesto
svuotandolo però dei suoi significati per poi riempirlo col proprio universo visuale.
Fin qui tutto bene, se non fosse che, mettendo da parte per un attimo questa
operazione meramente stilistica, abbiamo l’amara sorpresa di una storia che
regge per la prima metà dell’opera per poi svanire progressivamente in
un’accozzaglia di situazioni e di emozioni già sfruttate in ogni singolo capitolo
della filmografia andersoniana.
E allora passi che in un albergo del genere ogni parola o testo scritto sia in inglese, che un sicario abbia le fattezze
di un vampiro, che le SS diventino ZZ e che le citazioni da altri film
abbondino all’inverosimile (su tutte la scena hitchcockiana della funivia).
Rimane però pur sempre il fatto che da un regista quarantaquattrenne con una
cifra stilistica riconoscibile e di successo ci saremmo aspettati una decisiva evoluzione
contenutistica. Occasione sprecata.
Voto: 3 ½
su 5
(Film visionato il 10 aprile 2014)
2 commenti:
Che ritornino i soliti topos cinematografici di Wes Anderson, è indubbio. Nonostante ciò io ho apprezzato molto l'assenza della famiglia -solito crogiolo di ansie esistenziali- che lascia il posto ad altri tipi di affetto -il maestro, gli amici, l'amore angelicato-. Se non altro non mi ha angosciato (http://gynepraio.com/2014/04/14/maleducato-insensibile-insicuro/)
Sì, non hai tutti i torti...
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