giovedì 13 gennaio 2011

Ricordati che devi morire

Arte o provocazione?
Questo è l’interrogativo sotteso più o meno implicitamente a molte opere del nostro tempo e questa è la strada intrapresa dall’arte contemporanea la quale, nell’ossessione di sperimentare forme nuove e allontanarsi dall’eredità di una tradizione spesso scomoda, sembra non poter fare a meno di sorprendere, sbigottire, talvolta violentare lo spettatore.
In un’epoca in cui tutto è già stato fatto e tutto è già stato detto questa tensione si traduce spesso inevitabilmente in una rilettura del passato, colto di preferenza nelle sue manifestazioni più curiose e bizzarre, più capaci di esprimere le contraddizioni dell’uomo moderno.
Ecco allora che opere d’arte dei nostri giorni, pur richiamando con evidenza la tradizione, non mancano di suscitare stupore, indignazione, scandalo.

È il caso del teschio di neonato tempestato di diamanti realizzato recentemente da Damien Hirst e che, coerentemente con il suo titolo, ha fatto esclamare a molti: «For the Heaven’s sake!», a causa della presunta insensibilità dell’artista.

Ma quale insensibilità!

Quello del memento mori è un fil rouge che attraversa tutta la nostra storia, non solo artistica, dai tempi antichi siano a oggi e che ebbe la sua più piena realizzazione tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, quando si moltiplicarono rappresentazioni legate a temi iconografici macabri, quali scheletri, trionfo della morte, incontro tra vivi e morti, nature morte.

L’intento di queste realizzazioni era duplice: da un lato raffigurare la morte come livella che colpisce tutti gli individui indistintamente, dall’altro ricordare all’uomo qual è il suo destino, non per compiangersi o disperarsi ma, al contrario, per godere della vita che fugge e dei pochi piaceri che essa porta con sé.

Morte come monito nei confronti della vanitas, della brevità della vita.

Proprio in questa tradizione si inserisce quasi interamente la produzione di Hirst, il quale sembra voler raffigurare i diversi aspetti della morte, sganciandola da quell’alone di paura e dolore che la circonda e mostrandola come un aspetto normale della vita stessa.

L’artista britannico ha infatti recentemente dichiarato: Sono ossessionato dalla morte, però credo che sia una celebrazione della vita e non qualcosa di macabro. Non puoi avere una cosa senza l’altra. […] La morte non esiste senza la vita”.

E, in riferimento alla serie di teschi da lui creati: “Dimostra che non viviamo per sempre. […] C’è chi pensa che la ricchezza e il denaro possano superare il potere della morte, e in qualche periodo qualcuno l’ha creduto, ma non è così".

Un teschio può anche essere ricoperto di diamanti, ma rimane sempre quello che è: un emblema di morte. Il teschio è dunque un pretesto, uno stereotipo impiegato per raccontare altro, per denunciare l’ipocrisia che caratterizza l’intera società contemporanea e ancora di più il mondo dell’arte.

Ben venga quindi la provocazione nell'arte, se esorta a riflettere e non è provocazione facile e gratuita come quella promossa ad esempio dal dito medio di Cattelan, che per quanto originale e ricco di sottintesi, ha dato scandalo solo perchè rappresenta un gesto volgare, esposto per di più in un luogo pubblico.

1 commenti:

jeff ha detto...

Quel "devi" mi sembra senza senso. Va bene nella frase "ricordati che devi comprare il latte", ma non che "devi morire": come può essere un dovere il morire? :) Intelligente fu la risposta di Troisi :D

C'era quella pseudo-poesia in cui ricorre il verso "lentamente muore chi non...": non so proprio come le persone riescano a trarre da una tripla negazione (lentezza, morte, non) uno stimolo a vivere.

Trovo che sia più propositiva una frase come "Ricordati che devi vivere", vivere pienamente e autenticamente si intende, perchè di solito è di questo che ci si riufiuta di fare per paura.

ciao :)

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